Chissà che fine ha fatto Saverio!
Questo mio cugino milanese venne in visita da noi, con i suoi genitori, nell'estate dei miei sedici anni. Non so che cosa si aspettava di trovare: forse un'accozzaglia di poveri ignoranti; e io naturalmente sarei stato il pulcino più dimesso e più deficiente della tribù. Invece quella fu per lui la stagione più sorprendente della sua vita; e forse la più bella.
Dopo aver appurato che non eravamo i "terún" che aveva creduto di incontrare, si spaparazzò nel nostro appartamento e saggiò subito le mie conoscenze culturali. Scoprimmo di avere tanti interessi in comune, e gusti non dissimili. La passione per i libri e per il rock, ad esempio. Lui mi iniziò alla musica di Neil Young, io gli fornii la chiave per entrare nell'universo dei Genesis. I Pink Floyd e Thomas Pynchon li scoprii grazie a lui, lui scoprì Henry Miller e Anthony Burgess col mio apporto.
Purtroppo, Saverio aveva un qualche complesso di inferiorità che lo spingeva di continuo a doversi affermare sugli altri, perfino nelle occasioni meno opportune. Vedeva un avversario in chiunque: anche un bambinetto poteva risultare temibile ai suoi occhi. Si accaniva a voler dimostrare la propria presunta superiorità pure quando sarebbe stato più saggio mettersi in disparte lasciando un po' di respiro al prossimo. Gli insegnai le regole degli scacchi e, subito dopo averle fatte sue, pretese di vincere ogni partita. Se non ci riusciva, metteva su una faccia da funerale. Ogni cosa per lui si trasformava in una gara, in una sfida, in un confronto armato; la vita stessa era un'unica, interminabile battaglia. Da me imparò a rilassarsi un po', a sorridere, e a discutere come un essere umano invece che come un robot frigido; ma non sono sicuro che il mio esempio gli abbia modificato definitivamente il carattere. In fondo, lui abitava in una città in cui la competizione è ragione stessa di vita...
Comunque, in me trovò qualcosa di più di un buon parente: trovò un amico. Gli prestavo gli albi di Alan Ford e non me la prendevo troppo se "dimenticava" di restituirmeli. Ogni giorno era per noi un giorno di felicità e di spensieratezza.
Quell'estate, ovunque fossimo - al mare o nel cortile della nonna -, fu costellata di episodi divertenti e risate a crepapelle. Saverio si cibava praticamente di solo parmigiano (ne mangiava a chili), io di aria e di... esprit artistique. Quando gli venne la varicella, gli altri lo evitarono come fosse un appestato, mentre io ero l'unico a tenergli compagnia, ignorando a bella posta il pericolo di contagio.
Dopo che se ne fu tornato al Nord, iniziammo una fantastica corrispondenza, che durò anni. (Dovrei avere ancora alcune delle sue lettere, da qualche parte.) Fondammo perfino una rivista dal nome Fall Out, piena di critiche d'arte, di recensioni e di articoli a sfondo filosofico (lui era seguace di Auguste Comte, io propendevo per Marx e Bakunin).
L'estate che seguì la sua prima, storica visita, ci recammo in campeggio a Linosa. Convinsi Roccus, il mio "gemello" degli anni d'oro, ad accompagnarci. Il nostro soggiorno sull'"Isola delle Tartarughe" (da Roccus ribattezzata, non a sproposito, "Isola dei Ramarri") fu tanto piacevole quanto, purtroppo, allucinante. Quasi un paradigma della nostra esistenza futura. Ma questa è un'altra storia.
Per tornare al mio primo incontro con Saverio: dopo che scoprimmo di possedere entrambi velleità calcistiche (anche il suo cuore era neroazzurro), ci dilettammo a usufruire di ogni spiazzo libero per giocare al pallone. Un giorno, su un litorale sabbioso, mentre ci scambiavamo passaggi da trenta metri, mi chiese a bruciapelo: «Lo sai chi è Asparokov?»
«Certo», ribattei. «Il centravanti della Bulgaria.»
Questo sembrò stupirlo piacevolmente, più di tutto il resto. «Però! Ma guarda il cugino...» esclamò. O, più precisamente: «Talèèèè 'u cusci'...»
Poco dopo aver compiuto il mio diciottesimo anno d'età, mi invitò a casa sua. Presi il treno e andai a Milano. Con mia sorpresa, scoprii che Saverio frequentava il circolo parrocchiale di quella sordida periferia («altrimenti non incontri nessuna ragazza») e che montava una moto di - suppongo - piccola cilindrata. Una 'Caballero'. Pazze corse per il centro della metropoli, con me in posizione precaria sul sedile posteriore. Una volta, mentre stavamo fermi a un semaforo, ci si accostò un'automobile con dentro tre burloni. Ci guardavano ridendo, e ad un tratto uno di loro interpellò mio cugino così: «Olà, Caballero! Tu spagnolo?» Inspiegabilmente, Saverio si oscurò in volto, e per tutta la giornata non ci fu verso di fargli passare il nervoso.
Non credo che fosse felice. Sua madre lo teneva sotto torchio, gli imponeva di abbassare il volume del radioregistratore (suonava fino allo sfinimento Déjà-Vu di Crosby, Stills, Nash & Young o Ummugumma dei Pink Floyd), di spegnere la luce, di lasciare in pace la sorella, ecc. Lo trattava alla stregua di un fannullone. Di questa mia zia mi è rimasto un ricordo indelebile soprattutto perché, alla vigilia della mia partenza, mi cacciò in mano, quasi a forza, una banconota, dicendomi di andare a comprarmi un paio di pantaloni nuovi (ero andato là con un solo paio di jeans). Il ricordo di quella scena riesce a imbarazzarmi ancora oggi.
Sono trascorsi eoni da allora, e io ho fatto - letteralmente - tanta strada, mentre mio cugino, che pure sognava di altre terre e addirittura di altri continenti («Frank, rasiamoci la testa e andiamo in un monastero del Tibet!»), è rimasto ancorato alla sua esistenza piccolo-borghese (dopo il diploma è andato a lavorare nella stessa fabbrica dei genitori...).
Non sono state l'età e la distanza fisica a separarci, ma i destini differenti. Ancora oggi, ogni tanto, mi sorprendo a chiedermi, nei momenti più strani:
Chissà che fine ha fatto Saverio!