Gentle Giant: rock band britannica attiva tra il 1970 e il 1980, formata dai talentuosi fratelli Shulman e da un paio di amici. Di questo gruppo, ciò che salta subito all'orecchio è la loro sofisticata ricerca compositiva, molto sperimentale anche per i canoni più audaci dell'universo progressive.
Con l'eccezione dei batteristi Malcolm Mortimore e Martin Smith, tutti i membri dei Gentle Giant erano multistrumentalisti:
Derek Shulman (nella band dal 1970 al 1980) - voce solista, sax, flauto dolce, tastiere, basso, percussioni, ukulele elettrico Ray Shulman (1970-1980) - basso, tromba, violino, canto, viola, percussioni, flauto, chitarra Kerry Minnear (1970-1980) - tastiere, voce solista (solo in studio, non dal vivo), violoncello, vibrafono, xilofono, flauto, chitarra, basso, batteria Gary Green (1970-1980) - chitarra, mandolino, canto, flauto, basso, batteria, xilofono John "Pugwash" Weathers (1972-1980) - batteria, percussioni, vibrafono, xilofono, canto, chitarra Phil Shulman (1970-1972) - voce solista, sax, tromba, clarinetto, flauto, percussioni Martin Smith (1970-1971) - batteria, percussioni Malcolm Mortimore (1971-1972) - batteria, percussioni
The Power & The Glory è un "concept album" uscito nel 1974 che racconta la storia di un uomo che entra in politica deciso a conquistare un certo potere allo scopo di fare del bene e di non lasciarsi corrompere come i suoi predecessori, e che invece finisce per abusare della sua posizione e diviene duque proprio come quelli prima di lui, impersonando ciò contro cui prima aveva lottato.
È rivoluzione? È reazione? Forse è solo azione. Ci fa riflettere molto questo Tentacles and Miracles: sull'iperbole della rivolta, che era schietta negli Anni '60, si "militarizzò" nei '70, si autoannullò nell'estetica durante il terribile decennio degli Eighties, ebbe un ritorno - ma solo a forza di suoni e letteratura e cinema, e dunque a livello di slogans e atteggiamenti - negli Anni '90... e che oggi tende a chiudersi come un cerchio, sposando estetica e lotta vera.
L'album de Il Sogno di Rubik esce domani... o dopodomani... o era l'altroieri? Ma come dobbiamo misurare il tempo se siamo rinchiusi dentro un tesseratto (inglese: tesseract) sospeso nel nulla, pare, e che rotea e muta di forma a ogni momento? Se ci troviamo all'interno di un cubo snodabile?
Iniziamo porgendo l'orecchio con fare distaccato, lontani dagli altoparlanti, magari mentre si fa altro. Peraltro, ci approcciamo all'album ignorando bellamente le note di presentazione mandate dalla casa discografica. Abbiamo il privilegio di poter scrivere di Tentacles and Miracles in anticipo su tutti, di ascoltarne i brani prima che essi vengano scagliati verso le grigie fila di uomini in marcia là fuori (il riferimento a Metropolis non è casuale).
L'empatia, l'Einfühlung cresce con l'ascolto e ci "accorgiamo" che le casse appartengono proprio al nostro apparecchio riproduttore di suoni e che siamo stati noi stessi ad aver inserito il disc nell'apposita fessura. Ci tocca avvicinarci e prestare più attenzione - al più tardi dalla terza, potente traccia, "Tentacles" - per accertarci che non si tratta dei Dead Cross. Semmai ci sono echi (quanto consci?) dei padri: i Faith No More. Ma eravamo completamente presi, a dir la verità, già dopo la straniante fanfara ad incipit (all'inizio di "The well of miracles"). Non è sangue ciò che sgocciola dai circuiti stampati, ma olio di macchina - misto a olio di gomito.
De Il Sogno di Rubik troviamo tracce, prima di questa novità, nel 2016: in una compilation dal titolo '17 Re'. È stata una delle 16 band italiane selezionate dai Litfiba allo scopo di incidere un album con le cover dei brani contenuti in un loro disco di trent'anni prima (17 Re, appunto). E poi c'è almeno una partecipazione al Taranto Rock Festival. Okay. E Tentacles and Miracles?
Belle "pieces"! Ed è il minimo che se ne può dire. Non si può non ammirare la convinzione di fondo, la propositività distopica. Insomma: la potenza. I nostri diffusori stanno fumando e i vicini di casa... beh, loro devono essere svezzati alla / dalla buona musica.
Cosimo D'Elia - vocals and lyrics
e
Francesco Festinante - guitars, bass and midi programming
hanno svolto un ottimo lavoro. Le loro sono songs didascaliche (ma in maniera crimsoniana, e con un canto in lingua inglese spesso baritonale che ci rammenta Mike Patton) di una realtà apocalittica. C'è una fanfara composita iniziale e una suite, sgangheratamente gloriosa, a chiusura dell'album, dove tutti i vertici delle figure vanno a raccogliersi. In mezzo: marce, entrate, cambi di scena come in un'opera teatrale o in un musical da "The Day After", e gioco chitarristico assai abile. In uno o due brani scopriamo che il punk è più bello quando si serve del jazz, e in un altro ("A better nightmare", vedi video) sperimentiamo la velocità di visioni forse cibernetiche.
È progressive? Certo! Lo è nel senso di uno sperimentalismo zappiano; solo che l'ironia qui lascia il posto a un sottotono tragico, disgraziatamente attuale (pregovi dare una scorsa ai testi). È punk progressivo, metal, doom. Ma a che servono i paragoni e le classificazioni? L'originalità del progetto è indubbio. E tanto poco "italiano"!
C'è il labirinto sociale che si rispecchia nella nostra anima per un'introspezione tormentata. C'è la routine sistematica cui "loro" ci hanno costretto. E c'è la prigione, comoda se non fosse per i colori innaturali e gli angoli tagliuzzanti. I suoni, apparentemente spiazzanti quando scivolano come metallo pesante sul ristretto palco di un teatro da vaudeville ("Silky bliss and black waters"), in realtà segnano il cammino di noi tutti, che si svolge non al di là delle pareti ma "dentro" di esse: nell'immensità del data world. Le melodie servono, al nostro essere in fuga, ad appigliarsi a qualche palo d'ormeggio, per non volare via come una mongolfiera.
Quoi d’autre?
Nostri brani preferiti: "The timekeeper" (traccia n. 5), "The planet of supreme satisfaction" (n. 6), "The suite of miracles" (n. 8).
Gli strumenti utilizzati:
Chitarre : Gibson Les Paul Custom del '97, Fender Stratocaster assemblata '73-'76, Fender Stratocaster Contemporary Japan dell' '84-'86 con Duncan JB Sunior e Sl59. Martin acustica.
Basso : Stinger.
Ampli : Tutti VST. Guitar Rig e Amplitube anche per il basso. Solo su "Tentacles" Festinante ha fatto un reamp con Mesa Express 50.
Batteria : Studio Drummer.
Orchestra : IK Multimedia Miroslav Philharmonik.
Mellotron : IK Multimedia SampleTron.
Organo e synth : VST della serie TAL ed altri.
Bene. E dopo aver ignorato finora, a bella posta, la scheda "editoriale", la leggiamo e non possiamo che ricopiarne qui alcune righe, perché essenziali.
L'album esce il 21 giugno 2020, giorno del solstizio d'estate e quindi di rinascita nonché giornata dedicata alla protesta contro il Governo italiano che non ha messo in campo alcuna iniziativa a favore dei lavoratori della musica e nessuna indicazione per dare la possibilità agli stessi di LAVORARE nell'ambito culturale che più appartiene alla loro specificità. IL SOGNO DI RUBIK, insieme alla G.T. MUSIC DITRIBUTION (etichetta dell'album) e alla MICIO POLDO EDIZIONI MUSICALI (editore delle canzoni) si aggregano a questa protesta in maniera ancora più "aggressiva" ed indipendente, facendo idealmente uscire un album (di domenica!!!) quando viene, per protesta, proposta una giornata di silenzio musicale e totale.
Prodotto da Francesco Festinante e Cosimo D'Elia
In un meraviglioso digipack a tre ante con leporello a 8 facciate, artwork di Monica Cimolato.
Album teaser: https://www.youtube.com/watch?v=pjgxwbI6nHE
Il successo riscontrato da Lee Morgan con il brano soul-jazz "The Sidewinder", fece sì che molti artisti cercassero di imitare o comunque duplicare quell'impresa proponendo brani di stampo boogaloo (fusione di musica latina, twist e rhythm’n’blues). La carriera di Morgan acquistò in velocità. Nei due anni successivi al sunnominato hit, il musicista realizzò altri 6 album - e, alla fine, sul suo conto saranno ben 25 gli LP totali per l'etichetta Blue Note... fino al momento della tragica, prematura morte (1972).
Cornbread, registrato nel settembre del 1965, vede il batterista Billy Higgins come unico rappresentante dei musicisti che parteciparono alla registrazione di "The Sidewinder". Morgan ingaggiò il sassofonista alto Jackie McLean (restituendogli il favore meno di una settimana dopo suonando sull'album Jackknife) nonché il sassofonista tenore Hank Mobley (Lee lavorò come sideman in molti degli album di Mobley in quel periodo). Invitò inoltre il Maestro dei Tasti Bianchi-e-Neri, Herbie Hancock (fan della Blue Note e membro del classico quintetto Anni '60 di Miles Davis). E, ad arrotondare la sezione ritmica con Higgins, ecco arrivare il bassista Lee Ridley (poi importante docente di jazz).
Cornbread comprende quattro composizioni di Lee Morgan e un "classico", o "standard" che dir si voglia. E il primo brano è quello che dà il titolo all'album.
Il secondo, "Our Man Higgins", è un be-bop che punta i riflettori su Billy Higgins, che qui può "dare gas". Ci sono anche due ballate rallentate ("down tempo"), tra cui una delle canzoni più conosciute del trombettista, "Ceora". Il brano "classico" è quello di Arlen-Koehler, "Ill Wind", in cui Lee mostra una vena accattivante di blues, suonando in sordina (mute).
Poi il pezzo finale: "Most Like Lee", melodia spensierata in cui i membri della band arrivano a sbizzarrirsi. Lee guida l'assalto con il "clarion" (un altro tipo di tromba, o semplicemente un registro superiore della tromba standard) e Herbie, il quale, pure, ha già potuto brillare abbastanza, assume nel capitolo conclusivo del disco il suo ruolo più creativo e più centrale, incitando in maniera suadente - quasi come un sommelier in un raduno di alcolizzati - e scatenandosi lui stesso.