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Peter Patti
L A T R A B A N T E I D E
Nell’aprile del 1990, Hans Aberle si apprestò a compiere il suo primo viaggio verso il capitalismo.
Hans, capo turno di cella frigorifera in un’industria di alimentari di Grimma, era solito incontrarsi con i suoi amici nella locanda Testa di leone, dove, con l’appressarsi della stagione calda, la discussione si accentrava sempre più sulle ferie da andare a trascorrere possibilmente nella Germania
Ovest.
«Quattordici giorni, forse tre settimane per visitare i miei parenti “dell’altra parte“ e poi torno», sentiva gli altri dire.
Soprattutto, vaneggiavano di acquisire questo o quel bene di consumo che finora era stato fuori dalla loro portata: interi caschi di banane, un videoregistratore, un’automobile
potente e scintillante... Intanto però la loro paga rimaneva modesta, mentre i prezzi si catapultavano alle stelle.
La Cortina di Ferro era caduta sei mesi prima, causando la chiusura di molte fabbriche dell’ex DDR. L’oste del Testa di leone (già Taverne Marx & Engels) non concedeva più crediti, e non è che la birra avesse un sapore migliore solo perché Grimma apparteneva ora alla Repubblica Federale Tedesca. Così, gli amici di Hans finivano spesso
con lo stancarsi delle consuete fantasticherie e, amareggiati, stavano a rimuginare in silenzio tra i fumi dell’alcol, prima di tornarsene a casa: chi a piedi, chi in bici e chi col Trabant.
Il Trabant è l’unico veicolo che fu prodotto nella Germania Orientale, e per decenni rappresentò il fondamentale oggetto di culto di quello che fu, per autodefinizione,
il "socialismo realmente esistente“.
Per Hans, gli incontri al Testa di leone si andavano vieppiù trasformando in un’esperienza triste e tormentosa. Quei volti grigi, affranti, depressi! E gli scambi di battute senza cuore, scolorite!
«Buonasera.»
«Forse.»
La tavolata, un tempo spensierata e rumorosa fino a sfiorare l’osceno, assomigliava ormai a un’adunata di becchini a lutto. Voglia di parlare, confidarsi, sfogarsi.
Ma spesso le bocche rimanevano chiuse. Volevo dire... Sì, continua! No, di’ tu! Dica lei! Non volevi...? Pensavo che fossi tu, che fosse lei, che... Con sfumature di imbarazzo.
L’oste si spazientiva: «Ehi! Nessuno ordina un’altra birra? Non avete sete nemmeno stasera, eh?»
Poteva capitare, ovviamente, che ogni tanto si sviluppasse una conversazione normale, o l’abbozzo di una conversazione:
«Sapete chi ho incontrato? Il Dieter. È tornato ieri con la moglie. Ora vivono a Brema. Staranno qui tre giorni e poi se la squaglieranno di nuovo. Sono venuti in BMW...»
«Ma va’ là. Com’è che il Dieter ci ha il biemmevù, che l’è via solo da sei mesi?»
«Lo sappiamo tutti che l’è via solo da sei mesi, che stai a contarcela? Ma io non ci ho mica le patate sugli occhi e l’ho visto bene il Dieter dentro il
suo biemmevù . Ci ho parlato pure!»
«Beh, e a noi che ce ne cala del biemmevù?» interloquiva Hans.
Occhiate incredule si posavano su di lui. «Che ce ne cala, dici? Quella sì che l’è una signora macchina, mica i nostri Trabbi!»
“Trabbi“: diminuitivo di Trabant.
«Ma finitela, che il Trabbi l’è proprio ottimo e ci ha pure la pelle più dura di tutte quelle automobili “dell’altra parte“», perorava Hans.
Un circolo di facce diventava un circolo di facce che si scuotevano da destra a sinistra a destra a sinistra a. «Hansi, caro Hansi, sùzzati mo' un’altra bionda
che così ci fai un piacere al Leone e ci lasci in pace pure a noi con le tue strullate.»
E “Hansi“, ubbidiente, suzzava la sua bionda e non aggiungeva altro.
A lui il Trabbi non dispiaceva punto. Benché a quest’automobilina affibbiassero di continuo epiteti offensivi
(“elettrocartone“ era solo uno dei numerosi nomignoli), era fiero di possederne una.
Per chi non ha mai avuto la ventura di imbattersi in un Trabant, spiegheremo qui che si trattava di una piccola utilitaria dall’aspetto austero e nel contempo sbarazzino,
una scatoletta le cui intercapedini erano imbottite di matasse di cotone e altro materiale non bene identificato. Quando nella Repubblica Democratica Tedesca fu avviata la produzione in serie del “modello popolare“,
le strade dell’emisfero occidentale erano solcate da quattroruote altrettanto minuscole: i maggiolini della Volkswagen, le Cinquecento con gli sportelli che si aprivano controvento, Mini Morris, Messerschmidt e persino
BMW dall’abitacolo angusto e la linea breve. Nella forma e nelle dimensioni, dunque, il Trabant rispecchiava lo standard di quegli anni (il primo satellite sovietico aveva appena cominciato a gravitare intorno all’orbita
terrestre... “Trabant“ significa, appunto, “satellite“). Il suo design veniva giudicato «elegante e armonioso».
Ma l’epoca del maggiolino, della duecavalli e di altre vetture a formato ridotto era tramontata da un pezzo, e intanto il Trabbi non mutava di un iota. Certo, la vetturetta della DDR vantava eccellenti valori di frenata e di accelerazione, ma non offriva nessunissimo comfort; per tacere del fattore sicurezza, che era uguale a zero: uno scontro frontale a 40 km/h bastava perché si fracassasse completamente.
A partire dagli anni Ottanta, voci maligne provenienti dalla Germania Ovest imputarono al Trabant addirittura la responsabilità maggiore per i malanni che affliggono la natura.
Comunque fosse, Hans Aberle rimaneva indifferente alla congerie di chiacchiere. E, ora che la Guerra Fredda era finita, era più che mai deciso a lasciarsi alle spalle la Turingia e la Sassonia. A bordo del suo Trabant.
Le ferie arrivarono e lui, come annunciato, si mise in viaggio. Imboccata l’autostrada nei pressi di Karl-Marx-Stadt
(una città che era in procinto di riacquistare il suo antico nome: Chemnitz), si diresse per prima cosa a Gera. Gera rappresentò una sorta di bivio: da lì avrebbe potuto continuare per Jena, Gotha e Eisenach,
e invece preferì l’altra soluzione, quella che lo portava a Hof e che era anche la via più breve per accedere alla Germania Occidentale dal vecchio territorio della DDR.
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