Take one
Appoggiò i polpastrelli sui tasti che conosceva in ogni incavatura. HAL, a quei tempi ancora un'architettura
486 a 33 MHz e con 240 MB di spazio su disco fisso, troneggiava nell'angolo migliore del suo soggiorno. Pochi ancora possedevano un computer: era un'apparecchiatura troppo costosa e complicata. Anzi, i conoscenti gli
domandavano che diavolo ci facesse lui con un aggeggio simile. Era un patito dell'elettronica, vabbe', ma... addirittura un calcolatore? «E che vuoi
calcolare tu?» gli rideva in faccia Schmidt, suo vicino di casa.
Con pazienza, spiegava a quell'odioso gnomo e agli altri dileggiatori che non si trattava di fare calcoli. Non precisamente. Raccontava di essere cresciuto
in mezzo ai computer o pseudo tali. Nei suoi 17 anni di vita era passato per Vic20, Spectrum, C128, C64, Plus4, Amiga, 386... Per amore dei giochini, sicuro, ma non solo. Era la dedizione al programming, alla sperimentazione, a una creatività allora definibile solo con termini inglesi dal suono futuristico. Le persone non stavano a sentirlo. Non capivano. Si
rivelavano ottuse nei confronti di questa specie di febbre delle paludi che prendeva lui e l'insieme degli accoliti quando sedevano davanti alla sfera di cristallo. Sacerdoti di una setta dedita a chissà quali pratiche.
Eccoli lì, fusi alla macchina e ai suoi codici. Avevano impiegato poco per entrare in simbiosi con il PC e non lesinavano soldi e tempo per potenziarlo, perfezionarlo, corredandolo di nuovi elementi, schede video e
audio... e un modem.
A quell'epoca i modem più veloci erano a 14.400 bit e costavano sui 500 marchi, o 500.000 lire. Internet era ancora di là da venire, ma ci si collegava con le mailbox,
che inizialmente funzionavano solo su piattaforma MS-DOS. Serviva una certa competenza tecnica per usare il BBS, cioè il Bulletin Board System. Stiamo parlando degli albori della telematica. I messaggi che ci si scambiava
apparivano su schermo nero... Lui era iscritto alla 'Blue Box' gestita dall'amico Richard, che abitava in piena campagna bavarese, in un villaggio di autentici contadini. Richard medesimo era un contadino, ma viveva
secondo il motto ''progress oblige!''
Si mandavano dispacci di questo tenore:
Ho smontato il congegno, ho fatto una pulizia accurata, la polvere era =
ovunque, e per quanto concerne la memoria RAM, l'aggiorner=F2 quando i =
prezzi ridiscenderanno. Qu=EC a Trostberg per un SIMM di 8 MB pretendono 200 marchi. Tu sai dove posso trovarne di piu' convenienti? Cmq poi ti =dir=F2, sar=E0 stata la
polvere, ma sembra che ora la scatola giri meglio.
Ci volle qualche annetto perché arrivasse il più agevole Win 3.1 di Bill Gates & Co. Per far funzionare bene quell'arcaica versione
di Windows era d'obbligo mettere mano al config.sys e all'autoexec.bat... E finalmente arrivò anche in Europa internet, versione pubblica della rete militare statunitense Arpanet. L'unico provider affidabile
era quello di Compuserve, con sede nell'Ohio. I primi forum erano tutti in inglese. franc’O doveva allacciarsi a un nodo distante un centinaio di chilometri da Mühlwaldshausen e perciò la sua bolletta
telefonica toccava cifre astronomiche. Ma l'avvento del web rappresentò per lui, che era straniero – sia pure allogeno –, il superamento di ogni confine. Era un territorio di caccia, ampio, virtualmente
aperto a tutti. Unica prerogativa: la conoscenza dell'inglese. Ma c'era chi, come Richard, ne faceva a meno e andava lo stesso a caccia. A ogni modo, presto la Rete si internazionalizzò e, in un futuro non lontano,
persino nanerottoli spirituali del rango di Schmidt si sarebbero vantati di essere provetti ''navigatori''.
Chiuse per qualche secondo gli occhi arrossati, massaggiandosi la mano destra. Il suo musculus palmaris longus era innaturalmente gonfio, e non per l'eccessiva masturbazione. Da fuori provenivano voci in tutti gli idiomi: i bambini che giocavano sotto casa. Il
russare che arrivava da un'altra stanza era invece causato da Benno, il suo coinquilino italiano. Benno: un gigantesco insetto; tanto ingombrante quanto puerile.
Con un sospiro rialzò le palpebre e tornò a smanettare spostando il mouse e pigiando sui tasti. Dai due altoparlantini situati ai lati
del monitor giunse il brusio della linea. Bit sparsi, caratteri su caratteri su caratteri che probabilmente sarebbero andati a finire su qualche nastro di backup della NSA, per essere conservati qualora contenessero qualcosa
di succoso per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti... ''Le mie innocenti paranoie archiviate in un rifugio blindato, con piantoni annoiati e un impiegato all'interno che si prende la briga di passare in rassegna
ogni cosa: l'ultimissima copia delle nostre e-mail, dei nostri siti, dei miei posting, che tra cinquant'anni saranno distrutti, perentoriamente cancellati...'' Si rivolse mentalmente a Schmidt: ''Mi
chiedevi e mi chiedi perché. Semplice: perché l'informatica è eccitante. C'è sempre qualcosa da risolvere, ci sono continuamente rogne e rognette da grattare...''
Tanto, disse a se stesso, osservando l'immagine di Gina sul desktop, ovvero della sua ex ragazza, che lo aveva mollato
poche settimane prima perché si sentiva trascurata, tanto, si disse con lo sconforto cinico, quasi allegro, che caratterizza parecchi diciassettenni, tanto che cosa abbiamo da perdere, se non la vita? E quella è persa comunque.
Voglio – concluse trionfalmente – che questo divenga il mio mestiere!
1
Qui Babilonia, vi parla franc'O'brain. Oggi è – finalmente! – scoppiato il sole, sun, Ra, soleil. Sto a sudare nel mio pullover di lana. E pensare che soltanto fino a dodici ore fa la temperatura si aggirava sui meno tre gradi! Sono solo, solo malgrado la folla di fantasmi
tutt'attorno. Sono solo ed è gennaio.
Se l'Italia fu un incubo ben riuscito, la Germania è una fiaba alquanto sbilenca. Ma dove altro poteva quagliare la mia malinconia, se non nel
purgatorio di un paese di intese precarie, prati di silenzio e nevi di rimpianto?
Là fuori, ora, boschi gocciolanti. E tu, amore, non qui; o io non lì, da te. Ci resta questo sguardo sghembo sulla retroguardia depressa della natura. Vorremmo andare
incontro a quegli alberi... e montiamo sull'automobile che, intirizzita, ci ha attesi dentro il garage. Che disdetta! Tutti vogliono tornare alla natura, ma nessuno a piedi. Le strade, pertanto, non conducono certo a distese
verdi.
Ricordo le campagne lunari e lunatiche del Sud, e le brulicanti cittadi... È il Nepal, la mia alma mater.
E tu, Gina, il mezzo di trasmissione per cui riesco ancora a volare.
So di avere le sembianze di un picchiato picchiatore (non ho più vent'anni, del resto: ne ho ventuno) e non poche ragazze, e nemici, fremono all'appressarsi delle mie
spalle carnose, dei miei bicipiti di ferro e della mia pancia a barile. Ignorano che, a onta delle apparenze, anch'io necessito di calore, di affetto; come un bimbo. Necessito amore: percettibile, plausibile, più
speziato di qualsivoglia pasticcio commestibile. E invece che cosa ho? Che cosa mi rimane?
Mi rimane la tua cartolina dal Portogallo, che mi tocca custodire come un briciolo d'oceano.
Dunque eccomi in auto mentre mi accingo a raggiungere un posto isolato – il buco del culo del mondo. Durante il tragitto (risibile, la cosiddetta carreggiata
carreggiabile che si apre davanti al parabrezza: i buchi! i buchi!... Appena stamani, fuori dalla mia tana, ho udito la bambinaglia irridere – me? –: ''Il cu-cu-u-u-lo senza bu-u-uco... hi hi hi!''),
spengo l'autoradio e, nel silenzio della meccanica, canticchio una vecchia canzone ispirata al tema dell'Aprés midi d'un faune. Canzone a tratti schioccante, a tratti suasiva e afosa; umido stornello: melodia del bacio. Il bacio della mamma, della prima amata, della prima moglie... La melodia diventa stonata, in sintonia con la condizione
del manto stradale (buchi buchi bu'): il bacio alla russa, il bacio a tradimento di una checca (la linguaccia dapprima nell'orecchio e poi in fondo alla gola), il bacio di Giuda, il bacio di cavallo... I miei, di cavalli,
muoiono sul limitare di una selva oscura, al cospetto di stalattiti e stalagmiti che rifulgono a un sole sempre più vago.
E adesso? Dovrò davvero scendere e, nudo, privo del rivestimento di latta, proseguire a piedi? Cavallo di San Francesco... Esito. È utopico credere che in questi sperduti
paraggi ci si possa imbattere in qualcuno dal quale ricevere soccorso. Ogni cosa tace. E, se riaccendo la radio di bordo, curiosamente mi giungono alle orecchie le voci di fiere straziate, irose e contagiate di mondo, che
dimorano nella foresta dei Grimm. No, no. Che ogni cosa rimanga muta. Preferisco il silenzio.
Intanto il sole scompare. E ripiomba l'inverno. Inverno eterno. Per sentirsi veramente un po' di calore sulla pelle, in questa stagione e a questi meridiani occorre entrare
in un solarium. Ci si ritrova svestiti nella cabina, sdraiati in un sarcofago, con le lampade a UV che ci bruciano le labbra.
Freddonia. Flash di annichilamento, di sfacelo. Come un brutto videogioco. Molti se ne scappano nella Repubblica Dominicana per segregarsi in hotel-lager edificati da ditte euroamericane
a ridosso di lidi prima incontaminati, e in quei bunker di lusso arieggiano i loro prosciuttoni mentre servetti bruni pescano schifezze dall'acqua della piscina. Poi, vestiti nelle uniformi stile "tipo da spiaggia",
questi tedescacci (inglesacci, svedesacci, italianacci) marciano sbronzi verso i bordelli dove, per un pugno di dollari, possono sodomizzare fanciulle e fanciulli e corrispettive madri...
Quanta pace tutt'intorno! Uàaaaah! (Sbadiglio.)
Vado. L'azione è molto meglio di un crepare freudiano.
Apro la portiera e scendo. Brrr. (È il vento a farmi tremare.)
Se almeno qui con me ci fosse l'amico Manu Kyohto! Nelle nostre urbi, Manu si muove come un gorilla, impacciato, contorto. Soltanto davanti a un jardin public riesce a trovarsi a suo agio: sale sugli alberi, segue orme di animaletti e si ferma a sniffare sapientemente l'aria – robusti peli protendentisi come antenne
sensitive dalle sue nari. A Manu Kyohto piacerebbe questo bosco selvaggio. Lui saprebbe guidarmi per un sentiero a me invisibile attraverso la muraglia di pioppi e abeti rantolanti perché cardiolatenti. Ma forza, forza!
Al di là della selva attendono, forse, un'alba o un tramonto liberatori.
Avanzo nella giugla siberiana: pavido, nicotinante relitto, eccitato; rettile birrasciancato. Scivolo su lastre di ghiaccio. Striscio, zampetto; ratto drogato.
A ogni secondo sul punto di giravoltarmi e tornare sui miei passi di corsa – le mutande smerdate –, saltando sterpi e inciampando su radici sporgenti.
In qualità di Homo metropolis sono avvezzo a determinati microclimi: il salotto con i suoi schermi e le sue tastiere, le botteghe e gli uffici luminosi, camere da letto con il riscaldamento e/o l'aria condizionata, l'abitacolo dell'automobile
con i magici auto(s)parlanti... insomma, le comode nicchie della civiltà. Qua all'opposto c'è un silenzio che ruggisce, un'umidità che corrode. Una selva, appunto. Viva, reale, affatto meccanologica.
Foresta = fiaba. L'equazione si offre spontanea. Mi viene l'idea di una favola "riadattata" al nostro habitat: il Principe Dalle Labbra Di Fuoco (perché ama
i cibi piccanti) bacia la Principessa Di Ghiaccio (in tanti l'hanno accusata di essere frigida, finché lei non si è convinta di esserlo). L'ardore del bacio "risveglia" la principessa e la coppia
decide di andare in pizzeria. Ma la via è disseminata di ostacoli. Un nano idrocefalo, cattivissimo, perseguita i due incessantemente (hallo, Schmidt!). C'è un ruscello di ammoniaca che loro riescono a guadare
cavalcando un sovradimensionale cybercigno... c'è un gufo parlante con un marcapasso d'uranio quale batteria... e altri elementi del genere. Un fantasy attuale.
Affascinante. Annota tutto, e subito!
Mi siedo su un tronco caduto e mi frugo addosso, ma scopro di non avere con me penna e taccuino. Peccato. Un'altra canzone che andrà perduta...
Intanto la foresta rinuncia al suo ostinato silenzio e prende a intonare il proprio, di canto. Ogni cosa intorno a me starnazzafrullafrusciastride. Non so se rallegrarmene o se rimpiangere lo strano iato sonoro di poco fa.
Poi qualcosa (qualcuno?) strepita nelle mie orecchie. Un urlo come di pazzo o sordomuto che mi raggela definitivamente il sangue. Roteo sul mio asse, le pupille strabuzzate. Finché arguisco che a urlare sono stato io.
(Ma chi è, io?) E adesso qualcos'altro mi tallona...
''Raphèl mai amèch zabì almì'' mormoro a mo' di esorcismo, prima di tornare a procedere, perduto, tremante e scacazzante, nella foresta
nordica che, impazzita, ride in tutte le lingue e tutti i dialetti dell'Orbe.
2
«Maledetto gringo!» mi accoglie Benno. «Dove sei stato?»
Gli passo accanto trattenendo il respiro: lui è il Sultano di Bacteria, non so ogni quanto si lava... se mai decide di farlo.
Ein Italiener. Come me, in qualche modo. Proviene dalla Brianza: un pulènt quindi, mentre mio padre è uomo
del Sud. Il mio genitore, sì, è un terrone, se volete. E per riflesso lo sono anch'io. È mia madre che è tedesca, ma il parentume mi giura che ho preso maggiormente da papà.
Benno mi tallona fino all'"angolo soggiorno", che sarebbe la mia stanza.
«Ti devo parlare, señor.»
«Mmpf.»
«Solo dieci minuti!» implora.
Dieci minuti preziosi della mia vita.
«Occhèi, sputa. Ma presto!»
Lui ride annuendo. Si vede che è compiaciuto. Ha gli occhi stellati per la contentezza.
«Ho conosciuto una squaw...»
Da quando Toni, un emigrato italiano, gli ha regalato la sua enorme collezione di Tex prima di rimpatriare, Benno si esprime come gli eroi di quel celebre fumetto. Il mondo per lui è diventato il Selvaggio West e Kit Carson è il suo Zingarelli o
la sua Treccani.
«Uhm» faccio, accendendo la Scatola Magica e buttandomi sulla seggiola girevole. «Bella?»
«Stupenda. Dobbiamo festeggiare! Dove hai nascosto quella bottiglia di bruciagola?»
A casa devo sempre nascondere ogni cosa. Davanti a Benno non si salva nulla. Non ha il minimo senso del risparmio. Forse non si rende conto che siamo praticamente poveri... Inoltre
quest'abitazione è, obiettivamente, troppo minuscola per due della nostra stazza.
Mi spiego: l'appartamento – intestato al sottoscritto – è una piccola barca. L'ingresso è a poppa, mentre a prua c'è il cucinino. A dritta
(o tribordo, se amate Salgari) sono piazzati il mio letto e quel rottamaio di plastica e metallo che ho assemblato con un lavoro certosino, e a sinistra (babordo) l'apparecchio televisivo e l'impianto stereofonico.
Sempre a sinistra, mimetizzata mediante carta da parati, c'è la porticina che introduce al loculo di Benno, uno spazio che, osservato dalla strada, si presenta come un bovindo sulla facciata settentrionale della
casa o, per attenersi all'immagine marinaresca, come una scialuppa attaccata allo scafo.
Sciaguratamente, lui nello stanzino non ci rimane quasi mai. Trascorre una cospicua parte del suo Dasein sul ponte del battello, tra tivù e frigorifero...
Certo, oltre al cesso abbiamo un bagno con tanto di vasca, adiacente al suo minivano, ma Benno Bamba sembra misconoscerne l'esistenza.
«Il whisky?» gli dico. «L'ho regalato a Manu quando ha fatto il compleanno.»
«... e bisogna pure comprare qualcosa da mettere sotto i denti, señor» blatera lui insistentemente.
Roteo su me stesso e lo squadro. Ha la faccia butterata e, in generale, la sua figura non è propriamente quella del bamboccio ben nutrito. In effetti non sbaglia quando afferma
che dovremmo andare a fare la spesa: aprendo la credenza, ho visto sgusciare fuori un topo con le lacrime agli occhi per la fame. Ma possibile che dobbiamo acquistare tutto con i miei quattrini? Ovvero, con i quattrini che
mi mandano i miei?
Torno a rivolgermi al monitor, dove pian piano si sta caricando Windows.
«Corri al Lidl» gli dico con nonchalance. «Prendi anche del pane... e un paio di birre, così brindiamo al tuo incontro con quella... con quella.»
«Corpo di mille bufali, sìiii!» esclama Benno girandosi e correndo via. Sento intanto che si conta gli spiccioli in tasca. «Si chiama Anna» aggiunge gridando. Attende per un po' sulla soglia che io contribuisca all'acquisto di roba mangereccia porgendogli qualche banconota, poi desiste e sbatte la porta,
prima di scendere le scale a rompicollo.
Facendo scorrere le dita sul quadrante della tastiera, scuoto la testa. «Anna?» mormoro. «Semmai "Hanna"...» Al pari di molti stranieri, il mio bizzarro
coinquilino non fa uso dell'acca aspirata.
Avrà due-tre anni più di me, ma, per quel che riguarda intelligenza e maturità, potrebbe essere il mio fratello minore. Minorato. I suoi genitori lo hanno mandato
qui, Oltralpe, nella speranza che si dimentichi dell'eroina e di tutte le altre schifezze che a casa sua si iniettava sniffava fumava e via mastuprando.
Non si può dire che tra noi due corra buon sangue, eppure siamo amici. O meglio: amigos. Difficile da spiegare ma è così. La spesa lui non la fa quasi mai, ma versa abbastanza puntualmente la sua parte di affitto (suo padre è un industriale
di medio calibro, a quanto ho capito: il grano, a questi meneghini, non manca...) e il suo apporto è di notevole sollievo sia a me sia soprattutto a mia madre.
Certo che mandarlo in Germania nell'illusione che si allontani dalla droga è quasi un paradosso! Finora comunque lo stratagemma sembra funzionare: a quanto ne so, oggi Benno
si fa solo di spinelli e... di Tex.
"Figlio di cento puma! Manigoldo!"
“Direi che l'aria puzza di linciaggio.”
"Puah! Che postaccio!"
“Sgozzavitelli!”
“Pezzo di carciofo!”
"Cameron ha la faccia dello smargiasso."
“All'inferno quel demonio!”
"Non perdiamoci in piagnistei."
“Il ranger non era solo, che il diavolo se lo bruci!”
Smetto di pensare all'amico-Bimbo e mi immergo nel mondo virtuale. Che è, in concreto, il mondo vero, e non un universo parallelo come sostengono tanti. Accanto alla tastiera
c'è un flacone di aranciata, mezzo vuoto, risalente alla settimana scorsa o a un paio di settimane fa, e briciole di pane costellano la scrivania e gli interstizi degli stessi tasti. Ormai mangio là dove
lavoro, con il busto piegato verso i caratteri alfanumerici che ingolfano il terminal. Sono considerevolmente alto per la mia età, uno e ottanta circa, e tanto scaltro da fare movimento a sufficienza ("la pancia
non c'è più!"), così evito di diventare come una di quelle enormi palle di grasso che contraddistinguono i maniaci del computer: veri e propri geni, ma agli occhi della gente solo sudici pulcinella
con qualche turba psichica.
Apro Netscape, il mio browser di fiducia e, dopo aver dato una scorsa alle news, compio un giro sulla pagina dei link di www.ljubo-love.mk. Mi guardo i videoclip gratuiti: degli "assaggi"
per così dire, che dovrebbero invogliare gli erotomani più accaniti (quelli con la carta di credito) a iscriversi e sganciare una o più manciate di dollari al mese.
Già la sola pagina di benvenuto di questi siti assomiglia a una cloaca. Tu clicchi sul primo dei tre o quattro minifilmati e già sai a che tipo di avventura assisterai.
E ti poni il dilemma, mentre liberi la verga dalla sua gabbia, di quanti altri, nello stesso istante, si stanno sollazzando guardando il medesimo porno.
Spesso l'eiaculazione arriva prima del culmine filmico. Richiudi la patta, sentendoti buffamente offeso, depredato. Non hai speso un centesimo ma hai perduto di nuovo una breve
ma preziosa parte della tua giornata. Per tacere della dignità. Ora che sei più pacato, e più vuoto nel vero senso della parola, ti chiedi, truce, come mai così tante donne (tutte carine) sono disposte
a fare... quel che hai visto. Per i dollari? Non soltanto "mature casalinghe vogliose", ma per giunta "appena diciottenni": davvero le donne arrivano ad autodegradarsi in questa maniera per mera pecunia?
Oppure ritengono la sessualità un misto di mercimonio e passione sincera?
Ripenso a Gina, l'unica con la quale ho consumato l'atto d'amore. Se oggi avessi almeno lei... Poi provo a immaginare come può essere la "squaw" cui ha
accennato Benno. Ma quale ragazza decide di mettersi con un pivello del genere? Ha forse ragione Manu Kyohto nel sostenere che le donne sono tutte puttane? (Lui, Manu, uomo di colore, dice questo perché avrà
avuto le sue brave esperienze... o, viceversa, perché ne avrà avute troppo poche.)
Basta rimuginare sul sesso! Cancello i cookies, ovvero le tracce del mio passaggio sulla website erotica, e cerco aria più salubre in un forum sui linguaggi di programmazione,
dove i geek prendono in giro i nerd.
01100110 01101001 01110011 01101000 01100101 01111001 01100101
Gina non ha mai compreso il mio attaccamento alla macchina. Inequivocabilmente lo ritiene un legame morboso, pensa che la mia sia una fissazione tipo quella dei malati del gioco d'azzardo
o dei depravati che sperperano la vita nelle sale dei video game. Perciò mi ha lasciato.
Una delle nostre ultime discussioni (o forse proprio l'ultima) è stata discretamente accesa.
«Tu non hai un cervello» mi ha detto: «hai un cervello elettronico!»
«L'elettronica è in ogni caso la disciplina che aiuterà l'umanità a guizzare in avanti, a migliorarsi.»
«Lo pensi davvero?» Mi sembra di rivederla, con i capelli sciolti e formosa da inebriare, mentre tende un dito accusatore contro il Personal Computer. «Non ti accorgi
di sciupare gli anni? Che mi trascuri per... per questo ammasso di cavi e ferraglia?»
«Questo sarà... anzi, è il mio lavoro! Un giorno fonderò una ditta. Noi freak, come ci chiamate voi, non viviamo solo per il presente. E non pensiamo nemmeno in dimensioni storiche. Noi... almeno quelli che come me hanno delle
visioni... agiamo nel rispetto delle prossime due-tre generazioni, ma proiettati ancora più in là. Noi non pensiamo in millenni: pensiamo in eoni.»
«Ts-ts...»
«...Tutti dicono No nukes!, come i tuoi strani amici...»
«Non toccare i miei amici...»
«… e invece noi puntiamo decisamente sull'energia atomica. Perché un giorno il sole si oscurerà e sarà grazie all'energia atomica che riusciremo
a sopravvivere.» Mi sto scaldando oltremodo, ma non posso farci nulla. Mai come adesso ho sentito di avere grandi idee e sono sicuro di stare esprimendole in maniera logica e comprensibile. Sono un profeta della Nuova
Era. «No nukes? Our mind works in a different way. Lasceremo questo pianeta a bordo di razzi a fissione nucleare. La Terra, del resto, è solo la prima
tappa di un lungo viaggio. E che cosa sono duemila anni? O cinquemila? O diecimila?!»
Gina mi è venuta più vicino. «franc'O, guardami: io non sono un ologramma. Fai un sacco di chiacchiere ma la verità è che non mi prendi più
in considerazione. O forse, per davvero, credi che io sia uno di quei giochini, di quei fantasmi o... come dici tu... sprite? franc'O, fammi parlare! Noi non viviamo in un film di fantascienza e la vita non è basata sulla matematica binaria. Le persone non sono come i bit, non sono zero
o uno...»
Al più tardi in quell'istante sarei dovuto tornare in me, rinsavire. Avrei dovuto prenderla tra le braccia, portarla fuori a divertirsi. Invece, cocciutamente le ho detto:
«Ne parliamo dopo» per rivolgermi di nuovo al monitor.
Gina. Oggi il sole è una fiaccola di cobalto e tu mi corri nelle vene come il coniglietto della Duracell. Ma la tua carne è remota.
Sciolta per sempre nell'acido del tempo.
franc'O'brain - I dolori di Cyberius, romanzo: Su Amazon
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