Da: Transits, romanzo (quanto?) distopico
2
Il plico con dentro il contratto definitivo d'assunzione mi arrivò via UPS.
«Non firmare!» mi esortò Allen.
Come al solito il mio compare sedeva in mutande su un tappetino lercio, sotto la lampada che penzolava nuda dal soffitto, in mezzo alla folta vegetazione che conferiva all'appartamento
le sembianze di una serra. Era ben pasciuto ma, come me, eternamente affamato. Nonostante ciò, si incaponiva a non voler ingerire carne, ovvero "ciccia e tessuti animali", come diceva lui. La flora che gli
cresceva tutt'intorno costituiva praticamente la base della sua alimentazione.
«Se firmi», aggiunse, «vendi l'anima al diavolo.»
Lo guardai incuriosito. La sua non poteva essere una psicosi da trip. Allen non si faceva mai di pillole. Per quanto possa sembrare strano, lui era nato così. A meno che...
«Hai bevuto?» gli chiesi.
Effettivamente negli ultimi tempi aveva sviluppato un'insana attrazione per i superalcolici. Ci assomigliavamo anche in questo.
«Ho cannato qualcosa», rispose in maniera vaga. Poi m'investì: «Che intenzioni hai? Cambiare fronte? Prostituirti? Entrare nei meandri di affari oscuri,
pacchetti azionari di dubbia provenienza e capitali riciclati?»
«Smettila di sclerare. Ho solo l'intenzione di lavorare, né più, né meno. Qualcuno deve pur pensare all'affitto, no? Ti assicuro che si tratta
di un posto comodo e pulito. Sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Mi pagheranno per giocare al computer e chattare con i colleghi.»
«La Kosmos Enterprise è un'opera di Satana!» incalzò lui. «Dietro la facciata delle attività economiche, questa multinazionale esercita
un rigido controllo su tutto e tutti. Tut-ti. Anche su chi si illude di rimanere fuori dal gioco. E, scientemente, influisce sul nostro rapporto con la gente e con
il potere. Intanto, nel caso tu non te ne fossi accorto, ha già ridefinito i concetti di proprietà privata, ricchezza, povertà... oltre ai valori morali.»
«Beh, allora possiede poteri divini!» dissi ridendo. «Ma tu che puoi saperne, amigo?»
Allen sollevò il suo triplo mento, accennando al laptop. «Lo so, invece. Monitorizzo la realtà, io: tramite Hypernet e alcuni contatti. Contatti telematici ma
pure in carne e ossa.» E soggiunse, al di sopra della musica (Jimi Hendrix vibrava colpi d'ascia all'impazzata): «Avrei preferito apprendere che lavi i cessi del MacDonald's, piuttosto! Anche se, in
sostanza, ogni ditta è una filiale della Kosmos, ormai. Tutta un'unica organizzazione. Ma non ti chiedi come mai hanno preso te, te che sei un picchio di nessuno?»
«Forse apprezzano le mie qualità.»
«Attento, Pat. Attento, ragazzo mio. Con quelli non si scherza! È un organismo troppo grosso.»
«Quelli? Hanno dunque un'identità precisa? E chi sarebbero, secondo te?»
Anziché rispondermi subito, Allen si accese la pipa, con i gesti ponderati che sempre accompagnavano tale rito. Emise un paio di sbuffi verdastri
prima di riprendere a parlare. «Alla guida della K.E.-Europe risulta essere un certo "Mister Info", spalleggiato da alcuni vecchi hacker. Gli hacker occupano posti preminenti nell'intelaiatura mondiale
della Kosmos. Dopo essere stati assunti, e dunque risucchiati dal sistema, questi ex ribelli ed ex fricchettoni sono diventati dei cybersauri. Persino le strutture inferiori... i sottopalchi, per così dire... sono sostenute
da rivoluzionari della prima ora che hanno scelto di stare al gioco: gente che un tempo era come noi e che oggi si gongola nel nuovo ruolo. Traditori che si sono venduti in cambio di automobili veloci, ville con giardinieri
e ferie ai tropici.»
La luce se ne andò, ma si riaccese subito. Un fenomeno naturale, nei nostri fetidi bassifondi.
Allen sbirciò nervosamente verso il frigorifero, dove conservava i suoi preziosi libri, e quando l'elettrodomestico, con un sospiro, un sibilo e un peto si rimise in
funzione, tornò a squadrarmi con aria di sfida. «Nient'altro che dei venduti», rimarcò.
Scossi piano la testa. Venduti, già. Auto veloci, vacanze ai tropici... ma non è quello che desiderano tutti? Allen litigava sempre con mezzo mondo. Purtroppo per
lui, era il mezzo mondo ad avere ragione. Avrebbe dovuto smetterla una volta per tutte di ripetere come un pappagallo le astrazioni di fanzine illegali, molte delle quali (stampate su plastotables, chiaramente, non su cellulosa)
stavano sparpagliate sul pavimento, disposte a corona intorno al suo tappetino da yogi.
Impugnai la biro, dicendo: «La tua è una lotta controvento, amigo. Mettiti nella cabeza che gli anni Settanta non torneranno più. È vero, quello fu un
periodo speciale, in cui anche i loser e i solitari si muovevano come fossero i protagonisti di un film. Almeno così mi è stato raccontato, dato che, come sai, io sono nato più tardi. Buon per te che hai
potuto vivere di persona quell'Età dell'Oro. Il Terzo Millennio però è cominciato da un pezzo». E, detto ciò, scrissi il mio nome in calce al contratto: Patrizio Ferroni. Con tanto
di svolazzi.
3
Entrai nella mensa con passo deciso. Dietro al banco c'erano alcune servitrici con cresta e grembulino
bianco che si preoccuparono di caricarmi il vassoio di vivande: farfalle allo zafferano con gamberetti, beefsteak e torta alla crema e pinoli. Tutta roba marca Fruity Shock, ma dall'aspetto appetitoso. Cercando con lo
sguardo una sedia vuota, notai con stupore che qualcuno mi faceva dei cenni: un tizio con la chioma selvaggia e il pizzetto da moschettiere. Mi appressai al suo tavolo, che era occupato da un campionario di quelli che si potrebbero
definire "eterni teen-ager". Mentre ancora appoggiavo il vassoio sul ripiano di teflon, cominciarono a presentarsi: Adriano, Enrico, Anna, Celestina... E i loro cognomi! Niente di più banale: Vasapolli, Pagnotti,
Mantovan... Per fortuna tra di loro usavano soltanto i nomignoli: Pussyboy, Fool, Johnny Blue, Colgate... Quest'ultimo apparteneva a una brunetta tuttacurve alla quale sorrisi estasiato.
«Salve, Patrizio!» esordì Colgate, come se fossimo amici di vecchia data. «Superato il momento difficile?»
Arrossii, mentre scivolavo su una sedia. Come facevano a...? Si vedeva? In effetti, dire che mi sentivo insicuro sarebbe un semplice eufemismo. Se devo essere esplicito, l'angoscia mi divorava. Non riuscivo a capacitarmi che la Kosmos
Enterprise mi avesse accettato e temevo che da un momento all'altro qualcuno si accorgesse dell'errore e mi scaraventasse fuori. Boccheggiai in preda all'imbarazzo, ma i presenti si affrettarono a rassicurarmi:
«All'inizio è stato lo stesso anche per noi. Io per esempio, dopo essere stato assunto», mi disse Pussyboy, ovvero il tizio con il pizzetto, «ho sofferto di cefalea di tensione, crampi addominali
e così via».
«A chi lo dici!» intervenne Protia, una ragazza con il viso incorniciato da un caschetto di capelli neri e con un inconfutabile problema di girovita. «In me, l'ansia
di sapermi una novellina si è manifestata con difficoltà a prendere sonno e spiccata tendenza all'ipocondria.»
Coro di risolini.
«E questo perché ignoravamo in che cosa consistessero le nostre mansioni», concluse Colgate.
La guardai. Aveva un corpo impeccabile e gli occhi velati da un leggero make-up. «E ora invece lo sapete?» inquisii, afferrando le posate.
«Più o meno. Ma presto lo saprai anche tu.»
Iniziai a mangiare, rimuginando su quest'ultima asserzione.
«Già», disse un altro tizio, uno con la pronuncia gallica. Era alto e dinoccolato e aveva sulla mascella tracce di barba mal rasata. «E lo saprai grazie
ad Aleph.»
«Aleph? E chi è?» chiesi a bocca piena.
«Il computer centrale», rispose Fool (cravatta infallibilmente perpendicolare e jeans comprati al Sisley Twenty-Twenty).
Colgate tornò a sorridermi. «Aleph. Hai colto l'allusione letteraria? Secondo Borges, Aleph è il punto "dove si raccolgono senza confondersi tutti i luoghi della terra".»
«Beh, sì, Hypernet», dissi con un'alzata di spalle.
«Punto it, punto com, punto org...» si mise a enumerare Protia, e gli altri risero.
«No, Hypernet è ancora niente», mi spiegò Fool. «Aleph, "the blessed machine" come dicono qui, ha ben altre funzioni.»
«A proposito di funzioni», feci, un po' irritato: «sono proprio ansioso di scoprire come si giustifica la mia presenza in questo luogo».
«Non hai una laurea e neppure aderenze sosciali, vero?» intervenne il tizio dinoccolato.
«Uhm. Io veramente...»
«Non devi mica vergognarti», tornò a rivolgermisi Colgate. «Siamo tutti nelle medesime condizioni, credimi.»
Lanciai un'occhiata circolare. E così, anche loro erano dei pivelli. Mi era parso infatti che fossero un po' strambi, e certamente inadatti a un lavoro di rilievo
presso una company come la Kosmos. Ma la mensa sembrava pullulare di gente simile: neo-yuppies che indossavano abiti "vintage" ed esibivano capigliature singolari o altre particolarità discordanti. Un ammasso
multirazziale, peraltro. C'era una ragazza di colore molto carina qualche tavolo più in là che stava a dialogare con un discendente dei vichinghi. E, in fondo alla sala, individuai Marilinda, in compagnia
di altre impiegate o segretarie che fossero (quasi tutte bionde come lei). Notai che si era tinta le unghie dei piedi a tutti frutti, in neon. Beh, d'altronde cos'altro poteva fare per tutto il santo giorno la dipendente
di un "boss" come me?
«Prima di entrare qui», ricominciò Colgate, «eravamo quel che comunemente si dice dei "falliti al cubo". Prendi il mio caso. Non facevo che bighellonare
per tutte le orge della città.»
«Io invece ero presente a ogni party technorock», spiegò Fool.
«Mentre io non facevo un bel nulla», ammise candidamente Protia, la mora.
«Io idem», dichiarò Pussyboy. «Ero il classico segaiolo. Ma mi ha salvato la K.E. Accadde in una lontana estate densa di umori,
di provocazioni femminili, di mutande stese al sole...»
La sua teatralità suscitò qualche altra risatina.
«E tu?» domandai al dinoccolato dall'accento francese.
L'uomo mi rivolse un'occhiata stanca prima di decidersi a sbottonarsi: «Insegnavo alle écoles moyennes. Alle scuole medie. Matematica».
Lo guardammo tutti con aria di commiserazione.
«Henri è, a conti fatti, il più qualificato di noi», osservò Colgate.
«E anche quello dal passato più squallido», commentò lo stesso Henri.
«Ma allora», insistei, «se la nostra matrice comune è essere nati perdenti, perché ci troviamo qui?»
Fu Johnny Blue a rispondermi: «La mia teoria... ma è solo una teoria, bada bene... è che fungiamo da materiale di sperimentazione».
Sussultai. «In che senso?»
«Siamo cavie, più o meno. Attraverso noi viene misurato l'eventuale grado di resistenza nelle Paludi del Non-Tempo... almeno a quanto mi pare di avere inteso.»
Dopo una pausa relativamente lunga, che mi servì a finire la torta, confessai di non aver capito un tubo.
«Capiremo meglio, tutti quanti, quando passeremo alla Fase Due. Per te ciò significa un'attesa di... vediamo... di circa tre anni.»
«La Fase Due di che cosa? Dell'esperimento?»
«Mais oui», rispose Henri. «Aleph però lo chiama in un altro modo. La denominazione ufficiale
è: Codice Untergang.»
Scossi la testa, esausto ed esasperato, e ingollai dell'aranciata. Sorbole! Proprio buona. C'era la polpa e tutto. Sembrava vera.
Colgate mi sfiorò un braccio. «Sta' a sentire, Patrizio-baby: alla K.E. appartiene praticamente ogni cosa. Tutto quel che vedi, in qualsiasi parte del mondo, è proprietà esclusiva della ditta.»
«Eccetto forse i distributori di preservativi in Africa», gettò là Fool.
«No», lo contraddisse Colgate. «Anche quelli. La corporation non ha difficoltà ad arrivare addirittura fino ai boscimani. Quando si dice "mondo",
si intende il mercato globale. La K.E. si occupa di cose grandi e piccole, di transgenetica così come di gomme da masticare. E del tempo.»
«Del nostro», opinai.
«Di quello di tutti quanti. Il tempo in generale.»
«E, per riflesso, anche della storia», intervenne Henri. Che proseguì: «Lo scopo di Codice Untergang è quello di procrastinare il futuro. La fisica
moderna ci insegna che ogni cosa sottostà all'irrefragabile legge del tempo irreversibile. Et donc: Aleph, il computer centrale, ha varato un programma che tende ad accelerare il corso degli eventi... con un contemporaneo rallentamento del progresso. A proprio vantaggio, chiaro: così lui - Aleph -
può inseguire il sogno dell'immortalità. Ma ciò va anche a vantaggio del genre humain».
«E rallentare il progresso tu lo definisci un vantaggio?» domandai nervosamente, dando un colpettino al mio vassoio. «No, smettetela! Mi state prendendo in giro.
Cavie, Codice Untergang, gomme da masticare, preservativi... Non ci credete neppure voi. Sebbene...»
All'improvviso pensai all'amico Allen ed ebbi come una visione.
«Ma certo!» proruppi. «La Kosmos Enterprise si è comprata il mondo... l'universo... per poter stabilire il corso della storia!
Ora comincio ad afferrare. Il vero potere non è conferito dall'accumulo di capitali, ma dal controllo sul divenire. La parola d'ordine è: no future. Già mezzo secolo fa William Burroughs si domandava: "Dove accidenti sono gli elicotteri individuali che ci avevano
promesso?" E anch'io, da bambino, credevo che appena dopo il Duemila avrei preso la metropolitana a Mosca per poter sbucare un'ora dopo in una strada di Manhattan. Invece... Abbiamo oltrepassato da vent'anni...
no, trenta... la soglia del Millennio e ancora non abbiamo il governo mondiale, non abbiamo né città su Marte né colonie sottomarine, e neppure automi che ci stirano le camicie o apparecchi di teleportazione.
Abbiamo però i cloni, il genoma, l'intelligenza artificiale, i nanorobot: tutti fenomeni invisibili. Il domani è microcosmico. E presto lo sarà anche il presente. Noi umani siamo bestie troppo grosse: perciò, qualcos'altro dovrà nascere al posto nostro.»
I miei commensali si erano già alzati. Esibivano un'aria sconcertata. «Vieni, Pat», mi disse Colgate, sfiorandomi una spalla. «È ora di rientrare.»
(CONTINUA)
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