giovedì, gennaio 28, 2021

La prima volta al Teatro dell'Opera: un racconto di G. Alù

COME OGNI SERA

 (La Bohème)


di Giuseppe Alù


Era l’inverno del 1950 e Roma era scura e lucida di pioggia. Il mio compagno di scuola, Claudio, aveva una casa accogliente, una madre giovane e carina e una nonna simpatica come non se ne trovavano in giro e per questo andavo volentieri a fare i compiti da lui. Si scriveva, si chiacchierava, si faceva merenda - avevamo 14 anni, 14 anni del 1950 ! - e poi tornavo a casa contento e sereno. A casa mia, per la verità, non c’era un’aria molto diversa, ma era sempre la solita e quindi la casa di Claudio mi attirava di più. Tornato, cenavo con i miei, poi ripassavo un’ultima volta le lezioni per l’indomani e infine tiravo giù il letto, che di giorno sembrava un mobile, stretto e appoggiato alla parete più lunga della stanza, e mi coricavo. Ma non dormivo subito. O leggevo Salgari oppure accendevo la piccola radio vicino alla mia testa e la sintonizzavo sui programmi che trasmettevano le opere.



Perché fin da bambino in casa mia e dei miei nonni si erano sentite e cantate arie di opere e quindi mi piaceva riascoltarle quante più volte potevo. Conoscevo i nomi dei cantanti, li riconoscevo appena iniziavano a cantare, insomma mi crogiolavo nel mio rifugio notturno.

Un pomeriggio la nonna di Claudio ricevette la visita di una parente e siccome io e il mio amico facevamo i compiti sul tavolo della saletta da pranzo dove c’era, oltre alla macchina da cucire, anche il divano, mentre scrivevamo non potevamo non sentire i discorsi che le due donne, sedute sul divano, facevano. La parente parlava, abbastanza infuriata, del marito perché lui, con la scusa di lavorare di notte, sembrava frequentasse qualche altra... come dire... be’ insomma avevamo capito. E perché lavorava di notte ? Dai discorsi venne fuori che lavorava come elettricista al Teatro dell’Opera.

Smisi di pensare ad altro ! Lavorava al Teatro dell’Opera. Che fortuna ! Poteva entrare al teatro quando voleva, poteva assistere alle prove, anzi era lui che regolava le luci secondo gli ordini del regista ! Poteva conoscere i cantanti, sentirli parlare, vederli da vicino. Chissà com’era il Teatro dell’Opera nella realtà : dalle fotografie in bianco e nero dei giornali sembrava una meraviglia... Che fortuna poter fare un lavoro simile, che altro si poteva desiderare ?  Quando la signora si alzò per andar via, presi il coraggio a due mani e le domandai : “E’ vero che suo marito lavora all’Opera ?” Lo sapevo ma lo volevo sentire ancora. “Sì” mi rispose “perché ?” “Dico che è fortunato ad incontrare i cantanti, vederli da vicino, voglio dire, assistere alle prove, deve essere fantastico. Sarà contento di fare questo lavoro, non è vero ?” “A te piace l’opera ?” “Moltissimo”. “Vorresti vederne una ?” “In che senso, scusi ?” “Vedere un’opera al teatro”. Sorrisi e chinai gli occhi. “Mettiti d’accordo con Claudio e venerdì prossimo venite all’Opera e mio marito vedrà di farvi entrare”.



Non era possibile. Non lo dissi a casa perché non ci credevo del tutto. Mancavano quattro giorni al venerdì e chissà quante cose sarebbero successe perché io non andassi all’Opera. Mi potevo ammalare, si poteva ammalare Claudio, si poteva ammalare il marito della parente, insomma poteva succedere di tutto ; era meglio non pensarci e far trascorrere il tempo come non si attendesse niente. Facile a dirsi ! Intanto mi informai su quale opera davano venerdì : era “La Bohème”. La conoscevo bene, era la mia preferita, ma non ero mai riuscito ad immaginare in che modo poteva essere rappresentata sulla scena la storia dei quattro amici e di Mimì e Musetta.  Per me era solo musica e parole, la più accorata ed esaltante musica mai inventata e le più tristi e dolci parole mai cantate.

Non so come passarono quei giorni, giuro non lo so. Ma passarono. Lo dissi ai miei. Mia madre mi vestì con il vestito della domenica. Andai da Claudio (tutti fino ad allora stavano bene...) e con lui prendemmo il tram per il Teatro dell’Opera. Iniziava l’avventura. Claudio si presentò al marito della signora che ci aspettava all’ingresso e quello - un ometto piccolo, gentile, sorridente - ci disse di metterci vicino ad una delle uscite di sicurezza sul lato est del palazzo. Lì passammo più di mezz’ora, forse eravamo arrivati troppo in anticipo. Vedevamo auto nere arrivare, scendere uomini vestiti di nero (per fortuna il mio vestito era abbastanza scuro) con donne eleganti in abito lungo che si infilavano rapidamente nell’ingresso principale. Poi le macchine diradarono. Poi non venne più nessuno. In terra era bagnato perché a Roma in quel periodo pioveva tutti i giorni un po’ e le insegne luminose dei negozi si riflettevano colorate sull’asfalto. L’aria era fresca, umida e piacevole. Ma nessuno si faceva vivo. Improvvisamente vidi Claudio muoversi verso la porta (non mi ero accorto che si era aperta) e gli fui dietro. Ci attendeva una signora, una “maschera” vestita con un grembiule nero lucido (sembrava seta !) e un collettino candido, ci fece cenno di entrare ed entrammo. La seguimmo in silenzio e cominciammo a salire scale coperte da una passatoia di velluto rosso, si saliva senza fare il minimo rumore come su di un soffice cuscino d’aria. La “maschera” era una bella signora, bionda, con lo chignon alto, molto distinta e ci precedeva eretta nel busto. Salimmo e salimmo. Ad un certo punto ci trovammo davanti ad una pesante tenda di velluto, lei si fermò e ci fece segno di tacere. Il mio cuore batteva all’impazzata, mentre io ero di marmo. Rimanemmo lì qualche istante, poi si sentirono dall’altra parte della tenda degli applausi e fu allora che la signora scostò il tendone, ci fece passare e lo richiuse. Buio. Buio dovunque. Ci muovemmo a tentoni e capimmo di essere dietro ad una fila di sedili vuoti. A poco a poco gli occhi cominciarono a scorgere un chiarore che proveniva dal basso. Arrivammo al parapetto e guardammo in giù : cinque piani più in basso la luce bianca dei leggii dell’orchestra spandeva quel chiarore irreale. Ci sedemmo nella prima fila e poggiammo le braccia sul velluto del parapetto. E attendemmo. Era troppo per me per capire subito tutto. Rimasi passivo e incantato. Gli applausi che avevamo sentito erano per il direttore che stava facendo il suo ingresso in sala. Finiti gli applausi, il silenzio regnò sovrano.



Mi guardai attorno. Dove ero ? Mi sembrava tutto così strano, distinguevo poco, sentivo nel vuoto vibrare come un leggero fremito, una tensione indefinibile che si levava verso di noi ; forse era la presenza del pubblico, di tanta gente raccolta in attesa, di respiri, di movimenti impercettibili resi nitidi dall’acustica della sala, arrivava un che di vivente e di silenziosamente pulsante...  Il palcoscenico ci era di lato e molto in basso.

Si alzò il sipario. La mia anima seguì ciò che gli occhi vedevano e volò giù nella soffitta dove si trovavano Rodolfo e Marcello e da dove si scorgevano i cieli bigi e i mille comignoli di Parigi, e mi dimenticai di tutto. Quattro amici veri - incarnazione di un mio fanciullesco sogno ad occhi aperti - allegria, amore, vita... ogni cosa immersa in quella musica che ti graffia e accarezza l’anima. Ma dove la mia pelle dovette subire il brivido più crudele fu al momento supremo da me tanto atteso e temuto di quando Mimì, gaia fioraia, ci assicurò lieta che quando vien lo sgelo, il primo sole dell’aprile è il suo.

Mi riscossi con gli applausi di fine atto.  Potevamo applaudire anche noi ? o era meglio non dare nell’occhio, non farci notare ? Il sorvegliante del Teatro - sicuramente ce n’era uno da qualche parte - avrebbe potuto chiedersi : Ma chi sono quei due ? Mi accorsi però che accanto a noi, ma più verso il centro del piano, vi erano altre persone che applaudivano, e, sperando di confondermi con loro, applaudii forte anch’io.

L’intervallo mi offrì il teatro in tutto il suo splendore. Claudio guardava fisso davanti a sé, ma non volevo chiedergli niente perché avevo paura che mi proponesse di andar via. Tante teste sotto di noi, palchi, alcuni occupati altri vuoti. Gente, colori, profumi. Ammiravo tutto. Tutto mi pareva ammirevole. L’intervallo fu lungo ma non per me. Si spensero di nuovo le luci. Il chiacchiericcio diffuso divenne brusio, il brusio si fece sempre più leggero, poi morì. Tornò il direttore e tornarono gli applausi.

Non dimenticherò mai la gioia grande che mi diede il secondo atto. Vista dall’alto, quella folla variopinta di bambini, di soldati, di studenti che  festeggiavano la vigilia di Natale per le strade del Quartiere Latino mi entusiasmò. Molto meglio che vista dal basso, ne ero sicuro ! Quando poi cantò Musetta andai letteralmente in estasi ! Mi stavo innamorando di lei. Ero sul punto di tradire Mimì alla quale avevo giurato amore nel primo atto. La musica era perfetta, come l’avevo sentita cento volte, i cantanti perfetti, le scene perfette ed in più quella volta potevo finalmente vedere Musetta, deliziosa civetta che mangia i cuori, cantare il suo incantevole valzer, ed ero in paradiso.

Altro intervallo - la gente si alzava, ma dove andava? - e poi il terzo e il quarto atto e Mimì che sta per morire ed ha freddo alle mani sempre intirizzite, e Musetta che le porta il manicotto, Colline che si priva della vecchia zimarra, nelle cui tasche - mi era rimasto sempre impresso - erano passati filosofi e poeti ; e Rodolfo (ormai me stesso) che alla fine domanda sconvolto  agli amici “Che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così ! ?” Effettivamente era troppo. Guardavo giù, appoggiato al parapetto, e sentivo un importuno groppo alla gola. Non potevo farci niente. Sapevo che di lì a poco si sarebbero accese le luci e guai a farmi vedere da Claudio con gli occhi lucidi... Spinsi la bocca contro la manica sulla quale poggiavo il mento. Sentivo l’odore della lana umida e un po’ pungente della giacca invernale. Per distrarmi alzai anche gli occhi dove il lampadario del teatro sembrava un’enorme medusa in attesa di risplendere. Ma la tragedia avanzava inarrestabile. La fine mi stringeva la gola. Mimì morì tra i singhiozzi di Rodolfo e, porca miseria !, piansi anch’io.



Aspettavamo il tram della notte per tornare a casa. Arrivò. “È stato bello”  fece ad un certo punto Claudio. “Sì” risposi evasivamente. Non si era accorto di nulla, meno male. Scendemmo alla nostra fermata, ci salutammo e rincasai. Avevo il cuore gonfio di musica, di tristezza e di felicità. Mia madre era ancora sveglia. Forse, anzi sicuramente mi aspettava. “Come è stato ?” mi chiese. “Incredibile !” risposi. “Ora va a dormire che domani devi andare a scuola. Poi mi racconti”. “Buonanotte”. “Buonanotte”.  Come ogni sera...

 






Giuseppe Alù (Caltanissetta 1936) ha pubblicato La contessa Marianna, Mondadori 1989 (Premio San Vidal – Venezia – 1989); Storia e storie del Risorgimento a Treviso, Edizioni Galleria 1987; Lo scritto e il sigilloRaccolta di poesie 1971-1981. E: Tedeschi. Quadretti di una esposizione, Asterios 2018 (disponibile qui).



2 commenti:

Alida ha detto...

Conoscevo questo racconto. L'ho riletto con vera gioia, riassaporandone la grazia e il pudore. Ciascuno scopre la musica a modo proprio, e quella scoperta conserva l'incanto della "prima volta".

peter patti ha detto...

Salve Alida. Grazie per il bel commento. Io conosco due persone, due spiriti intelligenti e che sanno vivere, che mi danno le sensazioni da te descritte: Giuseppe Alù e Alida Pardo. E non lo dico per incensarci. Siamo Grandi davvero!

ciao...

p.