franc'O'brain
V I A D I A B O L I
Giudicate voi se questa è una storia d'amore,
una tragedia o una farsa popolata da maschere anche perfide.
A Mary
1
Era il primo di ottobre e il cielo era nuvolo, ma l'autunno – quello vero – non era ancora arrivato.
Me ne andavo in giro sbarbato e con indosso un vestito nuovo, comprato grazie ai soldi della buonuscita, o liquidazione che dir si voglia. La fabbrica in cui avevo lavorato per oltre dieci anni aveva chiuso i battenti e d'un
tratto mi ritrovavo, poco più che trentenne, disoccupato.
Non si può dire che la cosa mi dispiacesse. Avevo trentamila euro in banca, il che significa che tenevo in mano lo scontrino della mia vita. Per la prima volta da quando ero
venuto al mondo, potevo considerarmi veramente libero.
Fischiettando "Free Falling" di Tom Petty, filavo insieme alla città. C'era un che di catastrofico nell'aria, qualcosa che non poteva essere ascritto alle
condizioni meteorologiche. A quell'ora (erano da poco scoccate le dieci del mattino) le strade di Monaco di Baviera pullulavano di gente.
Palesemente ero l'unico che esternava un bel sorriso. Oh, yes: tutto okay… per me. La mia passeggiata era una specie di caduta orizzontale in un mondo allo sfascio, un mondo con il quale – per fortuna! – non ero in sintonia.
And I'm free, free fallin'
Yeah I'm free, free fallin'
Il traffico ronzava come cento stuka. E sì che i media si ostinavano a parlare della crisi del mercato dell'auto! Io camminavo osservando con blando interesse le frenetiche
molecole che mi circondavano: un meticciato di razze e volti tra i più disparati dai quali, qua e là, affiorava un rappresentante del vero "Deutschtum", essenza stessa della germanicità. Tutti
quanti, ad ogni modo, occupati da pensieri frenetici. Avevano certi occhi da Caino...! Ma in questi giorni – mi chiesi – non si svolge la celebre Oktoberfest? Sì. Eppure ecco queste espressioni cupe, ecco quest'aria da "fate largo ché ho tanto da fare"...
Incrociai naturalmente anche molte persone che non avevano un bel nulla da fare e non lo nascondevano. Persino loro però sbandieravano la tetraggine che internamente li sconvolgeva,
e il paradosso era che di sicuro provavano invidia per gli altri, per gli occupati, per gli eternamente indaffarati. Si sarebbe detto che lo spirito della Festa della Birra avesse dovuto sciogliere i problemi della gente come
neve al sole, affratellando tutti, rendendoli più miti, ma evidentemente non era così. La sera andavano a ubriacarsi ai Wies'n (la spianata su cui si svolgeva l'annuale manifestazione) simili a una mandria
impazzita e il giorno dopo si dannavano l'anima come al solito: chi per lo stress lavorativo e chi, viceversa, perché spiantato cronico o inguaribile senzasperanze.
Si vede che la birra non sempre giova. E, al fin della licenza, la vera seccatura non era forse il lavoro o la mancanza del medesimo, e neppure la mal sopportazione dell'alcol.
Chissà quali drammi tempestavano l'esistenza di quegli individui! Provai quasi pietà per i loro tortuosi, oscuri destini, pur non potendo evitare di continuare a sentirmi bene.
Trentamila euro! Mai posseduti tanti soldi in vita mia.
Perseveravo a zufolare allegramente il motivetto di Tom Petty... sebbene anch'io ora facessi parte dei circa sei milioni di disoccupati in Germania. Un altro, al posto del sottoscritto,
un giovanotto con la testa realmente sulle spalle, si sarebbe preoccupato e non poco. Io invece ero fiducioso. Inoltre, come molti che non avevano ancora superato
la mia età, a me interessava il presente, o tutt'al più l'immediato. Il futuro poteva aspettare.
Telegiornali, notiziari radio e quotidiani cartacei e online cercavano di richiamarmi al senso del dovere: Krise! Krise! Krise! avvertivano. E io lì a fischiettare beato. Nelle lande tedesche, così come negli altri Paesi occidentali, era in corso una catastrofe sociale,
d'accordo, ma sentivo che non mi riguardava direttamente. Il sostanzioso "premio d'addio" della ditta Schuuf mi poneva in una posizione avvantaggiata persino nei confronti di chi un impiego ce l'aveva.
Ero giovane, in ottima salute e, come detto, ciò che mi interessava non era precisamente un domani remoto. Sapevo bene come avrei trascorso il resto della mattinata e questo
mi bastava. Prima cosa, comprai un fascicolo delle avventure di Rajabdo, un personaggio dei fumetti che mi aveva accompagnato per buona parte della gioventù.
Curioso che negli ultimi dieci-dodici anni non avessi più pensato a lui! Rajabdo non era il classico supereroe: era un uomo come tanti che viveva in un mondo analogo al nostro
(mondo che, quando la serie uscì la prima volta, voleva essere un insieme di scenari futuristici). Le avventure che Rajabdo si ritrovava a vivere nascevano tutte da semplici casualità e – ovvio! –
solitamente si trattava di dover salvare un'ancella in pericolo.
Guardai la cover sorridendo: ecco lì l'eroe, o antieroe, che lottava, tra automobili sospese a mezz'aria, contro alieni vampireschi...
Rabjabdo era tutto ciò che io da adolescente avrei voluto essere: il suo modo di vivere così spensierato, tutt'altro che impegnativo; il suo rapporto con le donne
fondato su un dare e ricevere fuggevole e spontaneo; il suo campare alla giornata, senza curarsi del domani, senza angosce e senza inutili problemi per la testa se non quello di dover eliminare i fantomatici extraterrestri
succhiasangue…
Oggi, finalmente, sentivo di assomigliargli.
Con il fumetto in mano mi diressi alla Trinkstall. Era un edificio di forma rigorosamente parallelepipeda nei pressi della Münchner Freiheit, apparentemente costruito con lastroni di cemento: una specie di scatola a vetri dalle pareti sconnesse, come tante
ve ne sono nei cosiddetti quartieri del divertimento di ogni grande città.
Salutai uno dei baristi-camerieri, che conoscevo discretamente anche se non gli avevo mai chiesto come si chiamasse, mi inoltrai attraverso due file di tavoli semivuoti e andai a
sedermi in fondo, accanto a una lampada a stelo. Ordinai un cappuccino e una ciabatta-con-prosciutto-emmenthal-e-maionese, quindi sfogliai amorevolmente il fascicolo fresco di stampa. Dovevano aver sostituito il disegnatore:
oggi Rajabdo aveva una corporatura più squadrata – anche se non era necessariamente più muscoloso di prima – e l'espressione di tranquilla superiorità che lo aveva contraddistinto all'inizio
delle sue imprese era stata sostituita da un'aria vagamente ombrosa, dovuta forse alle sopracciglia più folte e a una ruga che gli percorreva verticalmente la radice del naso. Uhm... Fisicamente non eravamo tanto diversi. Oppure io avevo finito per diventare simile a lui, crescendo? Il paesaggio che si intravedeva in svariate vignette era
quello consueto: rispecchiava il cosmo urbano a me e a noi tutti familiare e si prestava pertanto come palcoscenico ideale per ambientarci le vicissitudini del Nostro. Soltanto i mezzi di trasporto avevano conservato la tipologia
"avveniristica" voluta dagli ideatori della serie (alcune auto sembravano elicotteri privati...). Le tavole non erano firmate, notai.
Stavo mettendomi a cercare l'impressum, per vedere chi era adesso l'artista e chi scriveva le sceneggiature, quando la mia attenzione fu distolta da un movimento poco lontano.
Un uomo sulla quarantina si era acceso una Marlboro con gesti bruschi. Davanti a lui, un bicchiere di Helles Bier già mezzo vuoto. Inquieto e smanioso, l'uomo pareva interrogare con lo sguardo l'angolo di strada che si stagliava al di là del finestrone, come
se attendesse qualcuno. Agitava nervosamente una gamba, di tanto in tanto cambiava posizione sulla sedia, lanciava nella sala uno sguardo circolare e tornava a osservare verso l'esterno, fremente.
In un'occasione i nostri occhi si incrociarono: i suoi erano blu trasparenti, pressappoco ittici. Nel suo viso di forma allungata, improntato di lineamenti energici, c'era
una specie di bellezza devastata. Devastata da chi o da che cosa? Innanzitutto dal trascorrere del tempo, certamente: come già menzionato, non era più giovane, e del resto l'irrequietezza che lo distingueva
era conforme al malessere della città, della nazione, del pianeta intero. Ma forse c'entrava, con questa tempesta interiore che gli aveva segnato anche la carne, l'amore.
Infatti. Mentre io prendevo a morsi la ciabatta riccamente imbottita, innaffiandola con il cappuccino bollente, l'espressione dei suoi occhi si raddolcì e le labbra sottili
si atteggiarono a un'allegria quasi tenera. Una ragazza attraversò lo scorcio che era distinguibile dalla vetrata e, curvandosi come se volesse celarsi, si affrettò a girare l'angolo della facciata principale
della Trinkstall. Per i pochi secondi che lei scomparve dalla vista, l'uomo rimase ritto all'impiedi, tutta la sua attenzione concentrata
sull'entrata. Quando la ragazza tornò visibile (circondata dall'alone di luce giallastra della giornata ottobrina), lui agitò vistosamente le braccia, per segnalarle dove si trovava.
La ragazza coprì il tragitto che li separava con un sorriso stanco sul volto, che era straordinariamente pallido, e, mentre le loro bocche si avvicinavano, sbirciò
in mia direzione. Il loro non fu un bacio vero e proprio: probabilmente – ipotizzai – sono io a infastidirla.
Mentre prendevano posto l'una di fronte all'altro, aprii il fascicolo di Rajabdo e iniziai a leggere:
Figura 1: Rajabdo cammina lungo la strada di una metropoli senza nome, solcando con calma una folla eterogenea e poco amichevole.
La didascalia diceva: "Fare cose, vedere gente. Una perduta fissazione".
Hmmm... sì, i toni poetici erano come me li ricordavo. Una poesia della disillusione.
Ci fu dell'agitazione al tavolo vicino. Volsi gli occhi: piegato in avanti, il quarantenne parlava alla ragazza con aria implorante. La sua sigaretta, dimenticata nel posacenere,
stava morendo in una spirale bluastra. La Trinkstall era uno dei pochi ritrovi che ancora tolleravano il vizio del fumo: una spiaggia per relitti alla deriva. Lei se ne stava con le spalle appoggiate allo schienale e taceva, sempre bianca in volto. O-oh. Qui finisce
un amore, pensai.
Figura 2: Rajabdo entra in un locale che un'insegna indica come il "Cement Rose". Strano. Sembra la Trinkstall...
Figura 3: Rajabdo saluta il cameriere-barista... che è lo stesso della Trinkstall, sputato!… e che inforca persino lenti paragonabili a fondi di bottiglie, come il cameriere reale… e pronuncia queste parole: "Come la butta, Johnny?"
Johnny? Si chiama così? Rizzai il capo proprio mentre Johnny (sì, era uguale! Gli stessi occhiali...) si
appressava ai miei vicini di tavolo e chiedeva alla ragazza che cosa dovesse portarle. Lei tentennò la testa, e allora il presunto Johnny venne da me e prese in mano la tazza e il piatto vuoti.
«Ah!» esclamò, con un leggero cenno del mento. «Rajabdo.» Rise annuendo. «Una volta lo leggevo... da bambino.»
Ridacchiai anch'io. «Non è propriamente una lettura per bambini, Johnny» dissi, mentre mi accorgevo che la ragazza stava di nuovo sbirciando verso di me.
«Na ja, insomma...» disse lui. Rise, con occhi luccicanti sotto le lenti penosamente spesse. Non so come
dovevo interpretare la sua risata: lo divertiva il fatto che io lo avessi chiamato con quel nome, Johnny, che apparteneva al suo sosia del fumetto, o per qualche altro motivo?
Il cameriere veleggiò via e io sollevai con decisione il mento. La ragazza ora mi osservava apertamente, infischiandosene del quarantenne (forse quarantacinquenne) che le
parlava con disperazione arruffandosi i pochi capelli che gli rimanevano.
Era bella. Non bellissima ma bella. Aveva i tratti minuti e gli occhi chiari. Chiari ma non azzurri: probabilmente verde bosco (difficile appurarlo, con quelle condizioni di luce).
Ancora una volta non riuscii a sostenere il suo sguardo e distolsi il viso, facendo dunque il contrario di quanto avrebbe fatto Rajabdo in una tale situazione.
Figure 4 e 5: Rajabdo va a sedersi proprio in fondo al Cement Rose. No, la lampada a stelo non è la stessa e l'oggetto di lettura che tiene tra le mani non è un fumetto bensì un libro: Gli inquilini di Moonbloom, di Edward Lewis Wallant. Però a uno dei tavoli accanto al suo chi c'è? Sì, proprio lui: il quarantenne. La somiglianza è
vaga se non del tutto assente, ammettiamolo (il quarantenne del fumetto è ancora più pelato e ha il naso rincagnato), ma i dettagli (il nervosismo, la sigaretta, gli sguardi impazienti alla strada) corrispondono.
Sfogliai pagina: ecco che ora entra in scena la ragazza…
Misi giù il fascicolo e inspirai con forza. Un momento. Qui qualcosa non quadra. I personaggi della storia erano identici a...
Io sono un tipo razionale. Sempre stato. Sono arciconvinto che non esistono fenomeni inesplicabili. Per ogni cosa basta trovare la chiave logica d'interpretazione. Dunque: riflettiamo...
«Vedo che sta leggendo Rajabdo.»
Sussultai. Era stata la ragazza a parlare. Quella vera, non quella dei comics.
«Mmm, sì.»
Mi guardò intentamente. E anche l'uomo mi fissò, aggrappato al suo tavolino e girato di sguincio. Lei sorrise, mentre lui sembrava volermi uccidere con gli occhi.
«E...?» insisté la ragazza.
«Molto interessante» dissi.
«Cazzate!» esplose l'uomo. Si alzò, gettò sul ripiano di formica dieci euro (di birre ne
aveva bevute due) e si infilò il soprabito, il tutto sempre guardandomi con ostinazione. «Solo cazzate» ribadì, avvicinandosi. Diede un colpetto all'albo con il dorso della mano, facendomelo mezzo
scivolare dalle dita. E se ne andò con l'andatura di un bufalo sfiancato.
Lo seguii con lo sguardo, a bocca aperta, finché la risata cristallina di lei non me la fece richiudere, la bocca. Anch'io abbozzai una risata, pur se non avevo ancora
superato il momento di sconcerto. «Che… che gli è preso?» chiesi. «È forse per questo?» aggiunsi, sollevando il fumetto. Sulla copertina a colori, il profilo di Rajabdo segava lo
skyline della città in fiamme, mentre diversi veicoli erano impegnati in una sorta di guerra aerea.
La ragazza si sollevò dal suo posto, afferrò la borsetta e mi si appressò. «Le spiace... ?» Indicò la sedia di fronte alla mia.
«No, certo che no.»
«Non deve prendersela» mi suggerì, mettendosi comoda. «L'ho appena abbandonato.» Aveva un'espressione tutt'altro che contrita. Anzi: sfoggiava
uno splendido, imperturbabile sorriso. I suoi occhi, come potei constatare, erano davvero glauchi, con una sfumatura cenerina. Sedeva ritta e sottile.
«Un brutto colpo per lui» osservai educatamente. «Ma...? Aspetti.» Ritrovai in fretta la pagina che la riguardava e la girai per mostrargliela.
«Mi assomiglia ma non sono io» mi informò senza guardare. «Quella lì si chiama Lilla. Un nome assurdo, non le pare? Io invece sono Margarita.»
«Ciao, Margarita» dissi.
[Continua]
INDICE
Via Diaboli - 1 (Capitolo 1)
Via Diaboli - 2 (Capitoli 2 e 3)
Via Diaboli - 3 (Capitoli 4 e 5)
Via Diaboli - 4 (Capitolo 6)
(...)
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