Lo confesso: non conoscevo Departures, e solo tramite MyMovies ho appreso che ha vinto un Premio Oscar (!). Riconoscimento meritatissimo, giacché la pellicola ha valore addirittura didattico. Durante la visione (nel pieno della notte: in Italia questi film, se mai vengono trasmessi, vengono trasmessi a orari impossibili) ho riso e (soprattutto) pianto, e chi dice che quest'opera tradisce delle lungaggini ("... tempi di narrazione giapponesi..." sic!) parla di sicuro per ignoranza, oppure perché è ormai corrotto dalla vita folle che tutti noi siamo costretti a condurre; o, ancora, perché si è rifiutato di lasciarsi catturare dal caleidoscopio di eventi - semplici quanto essenziali - che tanto abilmente Yojiro Takita ha saputo costruire e montare insieme.
La sequenza iniziale ci mostra il giovane Daigo Kobayashi a un bivio esistenziale, a un crocevia dell'umano viaggio: alla guida di un'automobile, Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) sta a riflettere su quant'era vuota la sua vita a Tokyo, e su quella che sta conducendo adesso, in una sperduta provincia nipponica oppressa dall'inverno.
Ciò già serve a creare un'analogia, anzi un legame stretto, tra lui e noi - e, direi, anche tra Oriente e Occidente: tutti quanti, difatti, a prescindere da razza, nazionalità e credenza religiosa, siamo chiamati, una o più volte nel corso dei nostri anni terreni, a sciogliere ogni dubbio e prendere una decisione importante...
Ciò già serve a creare un'analogia, anzi un legame stretto, tra lui e noi - e, direi, anche tra Oriente e Occidente: tutti quanti, difatti, a prescindere da razza, nazionalità e credenza religiosa, siamo chiamati, una o più volte nel corso dei nostri anni terreni, a sciogliere ogni dubbio e prendere una decisione importante...
Le scene che seguono ci presentano il Nostro durante l'espletamento della sua professione: eccolo alle prese con un cadavere - il cadavere di una ragazza. Eh sì, perché lui di mestiere fa il "thanatos-estetista". Lo vediamo apprestarsi a ricomporre quel corpo inanimato prima dell'Ultimo Viaggio (un viaggio la cui prossima tappa è ancora tristemente prosaica: trattasi della fornace dove le spoglie umane sono destinate a bruciare insieme alla bara), quando ad un tratto si accorge di "una strana escrescenza" in mezzo alle gambe della defunta...
Gli elementi grotteschi, così cari a molti registi giapponesi, qui sono saggiamente ridotti al minimo necessario. Sarebbe assai facile, facendo leva sulla caducità della carne, strafare con dettagli raccapriccianti in grado di cagionare deliranti gridolini e-o risate di orrore. Intendiamoci: questa è una pellicola che narra anche - e soprattutto - di vita; ed è vita pura e autentica quella che ci investe insieme al subitaneo ed esauriente flash back, ove viene illustrato il divenire lavorativo del protagonista, originariamente un violoncellista.
Daigo Kobayashi è capitato solo per necessità economiche in quell'agenzia di N.K. (= Nekro-Kosmesis), dopo che l'orchestra in cui lui suonava è andata in fallimento. Per un po', riesce a nascondere la natura della sua nuova attività a Mika, l'innamoratissima mogliettina (l'attrice Ryoko Hirosue)... Perché, infatti, il suo è un mestiere di cui vergognarsi... O no?
Quando il vociferare alle spalle di Daigo si intensifica e la verità salta a galla, il giovane si sente come messo alla gogna dalla pubblica accusa. E Mika addirittura lo abbandona. E' con la forza della disperazione e dello spirito della natura, e anche con l'aiuto del suo esemplare maestro (interpretato dal celebre attore Tsutomu Yamazaki, già ammirato nella commedia Tampopo), che il ragazzo riuscirà a tirarsi fuori dal baratro psichico ed esistenziale: similmente al Dante della Divina Commedia e a tanti di noi che usano smarrirsi "nel mezzo del cammin di nostra vita".
La maschera vaga e offuscata del padre che, decenni prima, abbandonò la famiglia, e la musica suonata da Daigo al violoncello non solo dentro camere opprimenti e piene di ricordi, ma anche nel bel mezzo di un paesaggio che trabocca di agitazione faunesca, fanno da contrappunto al graduale scioglimento del nodo, di tutti i nodi; e all'abbattimento di un tabù - tabù che, come spesso accade, è stato generato dalla cecità mentale della gente.
Facit: un film da cineteca. Una meravigliosa opera di poesia che, addentrandosi in un tema tanto angoscioso come quello della morte, riesce a riconciliare lo spettatore... noi tutti... con la vita e il mondo.
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