Questo è uno dei capitoli del mio libro Doktor Wolf - Storia di Hitler e del nazismo, che prossimamente renderò disponibile come eBook. Vi si parla di Hitler (in uno dei suoi periodi di prima che diventasse Führer e dunque "guida" della Germania) nonché di Albert Einstein.
Su Einstein - come sanno i miei lettori più fedeli - ho già pubblicato un lavoro. Per chi volesse leggerlo, si intitola Einsteiniana.
EINSTEINIANA (essay) collana unQuartino
Contiene:
***************** 'Einsteiniana',
**** 'Einstein, la biografia speciale'
******* e il videogramma 'Genius!'
... e quindi ecco, di seguito, il capitolo tratto da Doktor Wolf.
E=m·c²
«E non tralasci di parlare della teoria della relatività» mi raccomanda Rudnicki.
Ludwig Ludwig approva solennemente: «Ja, ja. Eisenstein».
«Quello era un regista russo» ride Paola.
«Esenin?»
«Un poeta. Esenin era un poeta.»
«Kalinstein» dico, cercando di partecipare allo scherzo. Ma così riesco solo a mandare su tutte le furie il Grande Vecchio.
E dunque: si era nel 1905 quando un ometto dai capelli folti e crespi, ebreo (ma ebrei erano anche Marx e Freud...), rese pubblica un'ipotesi di lavoro che nientificava tutto
quello che, nella meccanica tradizionale, aveva attinenza con il problema del movimento. Sotto il titolo di Teoria della Relatività, quegli studi resero famoso il loro autore. Il quale cercò di evitare i bagni nella torma: piegato sulle sue carte, continuò a fare conti
– si trattava di fisica? di pura matematica? – sobbalzando ogni qual volta un rumore giungeva dall'esterno. A quel punto tirava fuori il suo orologio da tasca senza catena e con coperchio a scatto, scrutava
con preoccupazione il quadrante e la sua fronte si imperlava.
Il lavoro di uno scienziato non deve tener conto della morale; ma quanto più tranquillamente esso potrebbe svolgersi se i capi di governo non cercassero incessantemente di
venire in possesso di qualche arma micidiale! Quanto più tranquillamente, se i magnati della finanza (Rockefeller, Rothschild, Montefiore, Hirsch, Guggenheim, Morgan) la smettessero di pressare e spolpare l’ingegno,
sfruttandolo per i propri profitti!
Albert Einstein ricacciava nel panciotto l'orologio e tornava ai suoi manoscritti.
Fin da Newton, l'esistenza di una massa costante non era mai stata messa in discussione. La teoria dei quanti di Planck, insieme alle conclusioni tratte dal danese Niels Bohr
circa l'autentica struttura degli atomi (e avvalorate da test in laboratorio), sbugiardarono lo scienziato inglese. Per Newton, la massa "definisce" anche l'energia cinetica. Ora, in seguito alle moderne
conoscenze, ogni sistema possiede in sé, insieme all'energia cinetica, anche quella termica. Ambedue le energie sono inseparabili. Ciò considerato, se la massa viene rappresentata dall'energia pura, in
rapporto alla condizione termodinamica essa non può risultare costante.
Con la teoria della relatività Einstein andò oltre. Basandosi sugli esperimenti di Michelson, che dimostrarono che la velocità della luce non si lascia influenzare
dai movimenti dei corpi attraversati, negò la concezione di tempo assoluto. D'ora in poi, grazie anche alla matematica di Lorentz e Minkowski – che ricorre a unità di tempo immaginarie – (ormai pure i fondamenti del calcolo infinitesimale posti da Newton e Leibnitz non reggevano più), non esistono né lunghezze assolute, né
corpi perfettamente statici. Viene a mancare anche la possibilità di determinazioni quantitative e quindi la nozione classica di massa quale rapporto costante tra forza e accelerazione.
Vista nel suo insieme, la teoria della relatività è una combinazione di arte matematica, intuizione fisica e profondità filosofica. Appaiono tuttora straordinari
il cinismo e l'avventatezza di queste ipotesi, che ammettono addirittura casi in cui i termini "prima" e "dopo" possono capovolgersi. Differentemente dalle scoperte di Max Planck, conosciute solo da
un ristretto circolo di esperti, la teoria della relatività fu uno dei temi colloquiali prediletti anche dai "non addetti". Niente riesce a catalizzare la mente umana più degli assiomi sullo spazio
e sul tempo, tanto più se questi assiomi sono rivoluzionari. Era stato così anche all'epoca di Galilei e Copernico, quando il sistema astronomico venne mutato completamente.
Al subentrare del XX secolo il mondo fisico si presentava strettino. Einstein fece saltare le barriere visive, aprendo lo sguardo su nuovi territori, dilatando gli orizzonti. Contamporaneamente
però smentiva gli assertori di un universo infinito: il firmamento aveva adesso un raggio di soli 108 anni-luce.
Guardava l'orologio; e forse si sentiva un pizzico colpevole. "Ancora quanto?" si chiedeva. E, mentre studiava e pensava, nell'Africa sud-occidentale tedesca erompeva la rivolta degli Ottentotti. L'esercito colonizzatore di Guglielmo II
riusciva a tenerla a bada fino a spegnerne del tutto i focolari... In occidente la gente si spostava sempre meno in omnibus (il tram trainato da cavalli) e "scopriva" l'automobile. Per il suo dipinto Il Bacio, che mostra una ragazza nuda, Klimt dovette trascorrere tre mesi in gattabuia. Il Simplicissimus, un periodico umoristico la cui mordace ironia non risparmiava nessuno dei personaggi della politica e del costume sociale, raggiungeva tirature altissime. (La censura
sapeva dove colpire e dove, all'opposto, chiudere un occhio o entrambi.)
Mentre Einstein/Nietsnie sudava sul quadrante dell'orologio, il nuovo secolo lasciava intravvedere quel che sarebbe diventato: un'era funesta, piena di colpi di scena e colpi
di maglio, di lampi di genio e lampi di morte. La chiave meccanica e il bisturi raccoglievano i primi trionfi. Nel 1909 fu dato l'annuncio della scoperta di un medicamento contro la sifilide: il 'Salversan'. Un
decreto governativo stabilì che in Germania i bambini dai nove anni in su potevano lavorare in turni diurni; ciascun turno durava dieci ore. Il Kaiser ricevette a Potsdam la visita dello zar Nicola II. Nel 1911 vi fu
la crisi del Marocco, per risolvere la quale il Reich inviò la nave da guerra Panther. Nel 1912-13 si svolsero le guerre balcaniche. "Ancora quanto?" si chiedeva l'omino. Poi, davanti allo specchio, si mostrava una lingua lunga lunga. "Ma sì, tanto il tempo non è
che la quarta dimensione dello spazio!"
Il tempo è la quarta dimensione dello spazio. Ciò implica diverse conseguenze per la nostra percezione della realtà, dato che non possiamo limitarci a prendere
atto delle novità sulla struttura dell'universo e sulla posizione del mondo e poi relegarle nell’archivio della nostra mente. Giorno per giorno facciamo esperienze che non sono analizzabili con il metodo scientifico,
esperienze che non risultano comprensibili alla ragione. Il fatto è che, essendo per così dire prigionieri dentro una rete fenomenica, ci sfuggono i processi che avvengono al di fuori di essa. Tutt'intorno
a noi regna la metafisica. (Gli esponenti della Scuola di Vienna credevano di essersi congedati definitivamente dalla metafisica, con due significative eccezioni: Wittgenstein e Karl Popper. Il primo, in special modo, limitò
il mondo dello scientificamente esplicabile.) La realtà in sé non ha una struttura tale da essere intesa con i procedimenti della ricerca tradizionale...
"Finora gli scienziati hanno creduto che la realtà è come loro la percepiscono. Ma che ora è?"
La scienza è costretta a "tagliare" tranci di realtà e studiarli singolarmente. Ma non si può conoscere il tutto esaminandone piccole porzioni. È
la fine dell'evo cartesiano: dobbiamo accettare il fatto che non tutto può essere posto sul vetrino del microscopio, che chiunque di noi può avere intuizioni non comunicabili, e perciò non catalogabili,
e che queste intuizioni hanno uguale importanza di qualsiasi scoperta verificata.
"Ancora quanto?"
Oltre a ciò, nel momento in cui diciamo che il futuro è incerto, sottintendiamo una verità elementare e a un tempo sbalorditiva: che la Creazione... è
tuttora in corso. E dove accade la Creazione? Dovunque: anche con l'uomo e nell'uomo. È lo stesso divenire – alcuni la chiamano "evoluzione" –, e il divenire non si svolge nel tempo: è il tempo!
E mentre Nietsnie/Einstein faceva scattare il coperchio dell'orologio da tasca senza catena e sudava, il giovanotto Adolf Hitler si trovava a Vienna, ospite di un asilo per uomini
il cui titolare risultava essere un certo Schlomo H., ebreo.
Malaticcio e sprovvisto di mezzi, Adolf raccontò a Schlomo H. di essere orfano; di aver fatto parte, a quindici anni, di un coro, in qualità di baritono; di aver letto
appassionatamente i romanzi di Karl May (il Salgari di Sassonia). E si mise prontamente in luce quale disprezzatore della razza ebrea (non gli giovava affatto stare in compagnia di questi "mangiatori d'aglio"),
individuo supernevrotico, potenziale suicida. Aprì le sue cartelle mostrandone il contenuto a quegli altri disgraziati che abitavano lì (mendicanti, alcolizzati, studenti squattrinati): acquerelli nello stile
di un "realismo radicale", per definizione dello stesso Hitler.
I pezzenti facevano: «Oooh, aaah». Solo Schlomo H. si mostrava scettico.
«Forse ti trovi al cospetto di un genio e lo ignori!» gli diceva il giovanotto, risentito.
E l'anziano ribatteva, sorridente come una sfinge: «L'aglio è una pianta molto salutare. Il botanico svedese Carl von Linné l'ha classificata sotto
le liliacee, insieme al giglio, al giacinto, al colchico. I celti chiamavano l'aglio 'leek', che significa qualcosa come 'spezie gustose'. Per i francesi è l' 'ail commun' o anche 'perdrix
de Gascogne'. Per gli inglesi 'common garlic'. Nel Ticino lo chiamano 'ai'...»
Hitler si metteva a menare colpi alla cieca. «Largo! Fate largo! Lasciatemi respirare, razza di giuda!» I cenciosi fuggivano in tutte le direzioni per tornare poi verso
le rispettive brandine. «Bavosi ignoranti! Non insozzatemi! E via dai miei disegni!»
Placidamente, Schlomo H. seguitava ad alitargli: «Anche i tedeschi ne mangiano in abbondanza. Erroneamente lo chiamavano in passato 'Lauch', dunque 'porro'.
In Altdeutsch si chiama 'Clofolauh', che deriva da 'clobo' (spaccare, dividere; un riferimento agli spicchi scindibili). Nel Waldeck dicono 'Knuflook',
in Vestfalia 'Knuflaw', nella Boemia settentrionale 'Knóbluch', in Baviera e in Austria, come sai, 'Knofel'. Nella Svizzera dicono 'Chnoblach' mentre in Alsazia è il 'Knöblich'...»
«Basta...» rantolava Hitler, gettandosi sul suo giaciglio, piangente, esausto.
«Generalmente vale la denominazione 'Knoblauch': persino per noi ebrei. Universalmente valido rimane comunque il latino 'Alium sativum'» proseguì
Schlomo, alzando la voce e chinandosi fino al pavimento, sgualcendo senza ritegno gli acquerelli sparpagliati: con le mani, con le ginocchia, con i piedi.
Il giovane artista cercava disperatamente distrazione uscendosene la sera. Con le ombre si tramutava in un lupo... in un Wolf. Ma Vienna lo stancava e lo deprimeva. La capitale austriaca confermava la nomea di città allegra e dal sesso facile.
Un giorno lasciò lo scarno rifugio e si diresse dritto filato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo scopo: ottenere uno stipendio. Il responso degli esaminatori fu peggio
di una doccia fredda: «Caro signore» gli dissero, «a lei dovrebbe essere interdetto di dipingere tutto quanto non sia una parete di cucina».
L'avvilimento, insieme alla tbc, lo mise al tappeto. E chi si prese cura di lui? Schlomo H., titolare di uno di quegli ospizi dove si gela d'inverno e si arde d'estate.
Il piccolo uomo dall'alto Q.I. fu scortato fuori dal suo studiolo. I rappresentanti della stampa riempivano la sala delle conferenze; in mezzo a loro c'erano già gli
sgherri della NSDAP.
«Ma non dovevo parlare alle sedici?»
Il gorilla che lo affiancava lo informò: «Ora sono le quattro».
«Del pomeriggio. Dunque le sedici...»
«Dobbiamo rimandare? Facciamo alle sedici e trenta?»
«Vuol dire... le quattro e mezza?»
La guardia del corpo non aggiunse altro. Einstein, dal suo pulto, guardò i portavoci del mondo scientifico (non numerosissimi), i professori interessati e i lacchè,
i segretari, i contabili, i tecnici, fiduciari del governo e del capitale.
Qualcuno si mostrò stupito che lui non avesse appunti con sé. Come mai?
Tutti volevano sapere cose assurde. «Non ne ho idea. Voi volete sapere da me l'ora...»
In realtà non glielo aveva chiesto nessuno.
«... e io posso rispondervi solo che tutti quanti siamo nuovamente con un piede dentro le caverne, all'Età della Pietra.»
«Nervoso?» gli chiese un professore.
«Normale! C'è la guerra.»
«Ma dove?»
«Laggiù. Là dietro. In Turchia... mi sembra.» E anche da noi, ribadì mentalmente.
Principiò la sua lezione, andando alla lavagna. No, non aveva bisogno di appunti. Mozart si scriveva in testa concerti interi...
Scribacchiò un paio di formule, pensando: "Vogliono sapere quant'è relativo il loro tempo. Io l'ho capito, ma come spiegarglielo? Se non lo capiscono da sé... Bevono e non realizzano che l'acqua è composta da due gas".
Il gesso scricchiolò, lui si asciugò il sudore.
«Nell'Oceano Pacifico» rifletté a voce alta «c'è il meridiano... una linea invisibile, dunque... presso cui cambia la data.» Era difficile.
Era come in Hölderlin: l'abisso tra il mondo dell'esperienza sensibile e quello dei concetti e delle parole è invalicabile. Si ricordò allegramente di qualcosa che aveva letto pochi giorni prima
su un giornale: uno scienziato teorizzava che la Terra, vista dal cosmo, deve apparire rossiccia. E questo perché la sua atmosfera assorbirebbe l'azzurro dello spettro di luce.
Bislacca prospettiva...
"Che ora è?" tornò a chiedersi. "È già l'ora? O c'è tempo?"
Peter Patti – Doktor Wolf – Storia di Hitler e del nazismo.
Presto disponibile in formato eBook su Amazon. Ai primi che me ne faranno richiesta, manderò il file completo gratis nella casella di posta.
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