venerdì, gennaio 17, 2020

Secondo album de Gli Aliante

Dopo il sorprendente Forme Libere (2017) e aver fatto aspettare forse un tantino più del necessario i loro non pochi apprezzatori, Gli Aliante se ne sono usciti, due anni dopo, con questa prova - anch'essa prettamente strumentale -  che a tratti sembra un tour de force meccanizzato da una certa urgenza, in altri un'opera meditata, ragionata, programmata con attenzione. Fatto sta che, così come per il primo album, abbiamo anche qui un misto di rock progressivo e jazzrock, tra pastelli un po' più relaxed - quasi ambient - e pennellate che virano verso il tempestoso.




Il disco si divide in due parti: "Sul confine" (a sua volta suddiviso in sette parti, che sono comunque vere e proprie canzoni a sé stanti e non frammenti di una suite) e "Nel cielo", che, con i suoi "appena" 4 minuti e rotti - è un finale degno dell'album.





Troviamo qui il trio toscano alle prese con motivi vari ("La rana"... "Cigno nero"... quadretti fortemente impressionistici) che, tutti insieme, sembrano momenti e istantanee di un viaggio. È un viaggio, e, se l'album reca l'appellativo Sul confine, è proprio perché viene tematizzata una condizione - descritta come felice - tra due sponde, tra due terre, tra due o più culture. Vedere le note di copertina per approfondire. Non è difficile, ad ogni modo, ipotizzare anche un senso traslato del titolo: la musica stessa è musica di frontiera, con passaggi, transits, tra più mondi sonori, narrati dall'hammond e dal synth (Filippi), ben rincalzati dalla sezione ritmica (Giusti & Capasso). Cambi di tonalità ed effetti sonori ad hoc decorano le melodie portanti, e uno o più brani vengono sublimati grazie a gocce pianistiche (anche da new cool jazz).





Opera seconda da assaporare a lungo... andando a rispolverare magari Forme libere per capire appieno dove sono le corrispondenze e quale elaborazione ulteriore Gli Aliante si sono addossati per cercare di deliziare le orecchie amiche nonché i critici, sviluppando la propria arte in coerente progressione.


Brani preferiti da noi: "Metzada" e - davvero vertiginoso! - "Il quadrato"




Tracklist

  1 Sul confine 48:08

  1a Viaggio nel vento 8:50
1b Metzada 8:49
1c Ai confini del mondo 6:39
1d La rana 5:49
1e Cigno nero 7:00
1f Il quadrato 6:15
1g Tenente Drogo 4:46

  2 Nel Cielo 4:17

 Distributed By – G.T. Music Distribution

***

Gli Aliante sono:
Jacopo Giusti (batteria, percussioni)
Alfonso Capasso (basso, effetti)
Enrico Filippi (keyboards, pianoforte)

 Il violino presente nella traccia 1c, "Ai confini del mondo", è suonato da Marianna Vuocolo

Producer: Vannuccio Zanella


***


Sul blog Topolàin, in un "vecchio" post c'è un accenno a Forme libere e l'annuncio per il nuovo album


Gli Aliante su Amazon:





P.S.: Ammettiamo la nostra ignoranza! È stato necessario "googlare" le  parole "tenente Drogo" (vedi scaletta dei brani, brano 1g) per apprendere/ricordarsi che si tratta del personaggio principale del capolavoro letterario di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.
                                            (-:

sabato, gennaio 11, 2020

Per la ricorrenza della morte di "Faber"

Coraggioso, anarchico. Irriverente. Giusto. Sempre dalla parte dei disagiati, degli ultimi della società.



Quarant'anni di attività artistica per 14 album in studio. Molte sue canzoni, considerate esempi di poesia, vennero inserite in varie antologie scolastiche già nei primi Anni Settanta. Esponente della Scuola Genovese insieme a Bruno Lauzi, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Gino Paoli, collaborò con personalità della cultura e con importanti artisti della scena musicale e culturale italiana, tra cui Mina, Nicola Piovani, la Premiata Forneria Marconi, Ivano Fossati, Mauro Pagani, Massimo Bubola, Álvaro Mutis, Fernanda Pivano e Francesco De Gregori.



“Pensavo: è bello che dove finiscano le mie dita debba, in qualche modo, incominciare una chitarra.”





Era un giovane di famiglia altolocata. Ma non felice. Ribelle, indisciplinato. L'incontro decisivo con la musica avvenne con l'ascolto di Georges Brassens. Incise le sue prime canzoni a partire dal 1960. ("La canzone di Marinella" è del 1964.) A quel punto De Andrè era già sposato e aveva un figlio, Cristiano.
Gli anni più proficui come cantautore furono quelli che vanno dal 1968 al 1973, tra esistenzialismo e contestazione. Intanto tra i suoi numi ispiratori c'eranoo anche i cantautori americani - Bob Dylan e Leonard Cohen su tutti.

Più volte la sua strada si incrociò con quella della PFM. Il gruppo di rock progressive realizzò nuovi arrangiamenti dei brani più noti del Nostro e nel 1978 partì una tournée che oggi definire "storica" non è sbagliato.




La collaborazione originò due album live, rispettivamente nel 1979 e nel 1980. Alcuni degli arrangiamenti realizzati dalla PFM saranno poi utilizzati dal cantautore fino alla fine della sua carriera, come nei casi di "Bocca di Rosa", "La canzone di Marinella", "Amico fragile", "Il pescatore".





(Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999)




domenica, gennaio 05, 2020

Cielo grigio...

Eh sì! Il cielo è grigio. Molto.

"When Skies are Grey"




#DakotaSuite #pop #music #sadsongs #ballads

sabato, gennaio 04, 2020

Capitolo 2 e Capitolo 3 di 'Transits'

 Da: Transits, romanzo (quanto?) distopico


2

Il plico con dentro il contratto definitivo d'assunzione mi arrivò via UPS.
«Non firmare!» mi esortò Allen.
Come al solito il mio compare sedeva in mutande su un tappetino lercio, sotto la lampada che penzolava nuda dal soffitto, in mezzo alla folta vegetazione che conferiva all'appartamento le sembianze di una serra. Era ben pasciuto ma, come me, eternamente affamato. Nonostante ciò, si incaponiva a non voler ingerire carne, ovvero "ciccia e tessuti animali", come diceva lui. La flora che gli cresceva tutt'intorno costituiva praticamente la base della sua alimentazione.
«Se firmi», aggiunse, «vendi l'anima al diavolo.»
Lo guardai incuriosito. La sua non poteva essere una psicosi da trip. Allen non si faceva mai di pillole. Per quanto possa sembrare strano, lui era nato così. A meno che... «Hai bevuto?» gli chiesi.
Effettivamente negli ultimi tempi aveva sviluppato un'insana attrazione per i superalcolici. Ci assomigliavamo anche in questo.
«Ho cannato qualcosa», rispose in maniera vaga. Poi m'investì: «Che intenzioni hai? Cambiare fronte? Prostituirti? Entrare nei meandri di affari oscuri, pacchetti azionari di dubbia provenienza e capitali riciclati?»
«Smettila di sclerare. Ho solo l'intenzione di lavorare, né più, né meno. Qualcuno deve pur pensare all'affitto, no? Ti assicuro che si tratta di un posto comodo e pulito. Sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Mi pagheranno per giocare al computer e chattare con i colleghi.»
«La Kosmos Enterprise è un'opera di Satana!» incalzò lui. «Dietro la facciata delle attività economiche, questa multinazionale esercita un rigido controllo su tutto e tutti. Tut-ti. Anche su chi si illude di rimanere fuori dal gioco. E, scientemente, influisce sul nostro rapporto con la gente e con il potere. Intanto, nel caso tu non te ne fossi accorto, ha già ridefinito i concetti di proprietà privata, ricchezza, povertà... oltre ai valori morali.»
«Beh, allora possiede poteri divini!» dissi ridendo. «Ma tu che puoi saperne, amigo?»
Allen sollevò il suo triplo mento, accennando al laptop. «Lo so, invece. Monitorizzo la realtà, io: tramite Hypernet e alcuni contatti. Contatti telematici ma pure in carne e ossa.» E soggiunse, al di sopra della musica (Jimi Hendrix vibrava colpi d'ascia all'impazzata): «Avrei preferito apprendere che lavi i cessi del MacDonald's, piuttosto! Anche se, in sostanza, ogni ditta è una filiale della Kosmos, ormai. Tutta un'unica organizzazione. Ma non ti chiedi come mai hanno preso te, te che sei un picchio di nessuno?»
«Forse apprezzano le mie qualità.»
«Attento, Pat. Attento, ragazzo mio. Con quelli non si scherza! È un organismo troppo grosso.»
«Quelli? Hanno dunque un'identità precisa? E chi sarebbero, secondo te?»
Anziché rispondermi subito, Allen si accese la pipa, con i gesti ponderati che sempre accompagnavano tale rito. Emise un paio di sbuffi verdastri prima di riprendere a parlare. «Alla guida della K.E.-Europe risulta essere un certo "Mister Info", spalleggiato da alcuni vecchi hacker. Gli hacker occupano posti preminenti nell'intelaiatura mondiale della Kosmos. Dopo essere stati assunti, e dunque risucchiati dal sistema, questi ex ribelli ed ex fricchettoni sono diventati dei cybersauri. Persino le strutture inferiori... i sottopalchi, per così dire... sono sostenute da rivoluzionari della prima ora che hanno scelto di stare al gioco: gente che un tempo era come noi e che oggi si gongola nel nuovo ruolo. Traditori che si sono venduti in cambio di automobili veloci, ville con giardinieri e ferie ai tropici.»
La luce se ne andò, ma si riaccese subito. Un fenomeno naturale, nei nostri fetidi bassifondi.
Allen sbirciò nervosamente verso il frigorifero, dove conservava i suoi preziosi libri, e quando l'elettrodomestico, con un sospiro, un sibilo e un peto si rimise in funzione, tornò a squadrarmi con aria di sfida. «Nient'altro che dei venduti», rimarcò.
Scossi piano la testa. Venduti, già. Auto veloci, vacanze ai tropici... ma non è quello che desiderano tutti? Allen litigava sempre con mezzo mondo. Purtroppo per lui, era il mezzo mondo ad avere ragione. Avrebbe dovuto smetterla una volta per tutte di ripetere come un pappagallo le astrazioni di fanzine illegali, molte delle quali (stampate su plastotables, chiaramente, non su cellulosa) stavano sparpagliate sul pavimento, disposte a corona intorno al suo tappetino da yogi.
Impugnai la biro, dicendo: «La tua è una lotta controvento, amigo. Mettiti nella cabeza che gli anni Settanta non torneranno più. È vero, quello fu un periodo speciale, in cui anche i loser e i solitari si muovevano come fossero i protagonisti di un film. Almeno così mi è stato raccontato, dato che, come sai, io sono nato più tardi. Buon per te che hai potuto vivere di persona quell'Età dell'Oro. Il Terzo Millennio però è cominciato da un pezzo». E, detto ciò, scrissi il mio nome in calce al contratto: Patrizio Ferroni. Con tanto di svolazzi.









3

Entrai nella mensa con passo deciso. Dietro al banco c'erano alcune servitrici con cresta e grembulino bianco che si preoccuparono di caricarmi il vassoio di vivande: farfalle allo zafferano con gamberetti, beefsteak e torta alla crema e pinoli. Tutta roba marca Fruity Shock, ma dall'aspetto appetitoso. Cercando con lo sguardo una sedia vuota, notai con stupore che qualcuno mi faceva dei cenni: un tizio con la chioma selvaggia e il pizzetto da moschettiere. Mi appressai al suo tavolo, che era occupato da un campionario di quelli che si potrebbero definire "eterni teen-ager". Mentre ancora appoggiavo il vassoio sul ripiano di teflon, cominciarono a presentarsi: Adriano, Enrico, Anna, Celestina... E i loro cognomi! Niente di più banale: Vasapolli, Pagnotti, Mantovan... Per fortuna tra di loro usavano soltanto i nomignoli: Pussyboy, Fool, Johnny Blue, Colgate... Quest'ultimo apparteneva a una brunetta tuttacurve alla quale sorrisi estasiato.
«Salve, Patrizio!» esordì Colgate, come se fossimo amici di vecchia data. «Superato il momento difficile?»
Arrossii, mentre scivolavo su una sedia. Come facevano a...? Si vedeva? In effetti, dire che mi sentivo insicuro sarebbe un semplice eufemismo. Se devo essere esplicito, l'angoscia mi divorava. Non riuscivo a capacitarmi che la Kosmos Enterprise mi avesse accettato e temevo che da un momento all'altro qualcuno si accorgesse dell'errore e mi scaraventasse fuori. Boccheggiai in preda all'imbarazzo, ma i presenti si affrettarono a rassicurarmi: «All'inizio è stato lo stesso anche per noi. Io per esempio, dopo essere stato assunto», mi disse Pussyboy, ovvero il tizio con il pizzetto, «ho sofferto di cefalea di tensione, crampi addominali e così via».
«A chi lo dici!» intervenne Protia, una ragazza con il viso incorniciato da un caschetto di capelli neri e con un inconfutabile problema di girovita. «In me, l'ansia di sapermi una novellina si è manifestata con difficoltà a prendere sonno e spiccata tendenza all'ipocondria.»
Coro di risolini.
«E questo perché ignoravamo in che cosa consistessero le nostre mansioni», concluse Colgate.
La guardai. Aveva un corpo impeccabile e gli occhi velati da un leggero make-up. «E ora invece lo sapete?» inquisii, afferrando le posate.
«Più o meno. Ma presto lo saprai anche tu.»

     

                       




Iniziai a mangiare, rimuginando su quest'ultima asserzione.
«Già», disse un altro tizio, uno con la pronuncia gallica. Era alto e dinoccolato e aveva sulla mascella tracce di barba mal rasata. «E lo saprai grazie ad Aleph.»
«Aleph? E chi è?» chiesi a bocca piena.
«Il computer centrale», rispose Fool (cravatta infallibilmente perpendicolare e jeans comprati al Sisley Twenty-Twenty).
Colgate tornò a sorridermi. «Aleph. Hai colto l'allusione letteraria? Secondo Borges, Aleph è il punto "dove si raccolgono senza confondersi tutti i luoghi della terra".»
«Beh, sì, Hypernet», dissi con un'alzata di spalle.
«Punto it, punto com, punto org...» si mise a enumerare Protia, e gli altri risero.
«No, Hypernet è ancora niente», mi spiegò Fool. «Aleph, "the blessed machine" come dicono qui, ha ben altre funzioni.»
«A proposito di funzioni», feci, un po' irritato: «sono proprio ansioso di scoprire come si giustifica la mia presenza in questo luogo».
«Non hai una laurea e neppure aderenze sosciali, vero?» intervenne il tizio dinoccolato.
«Uhm. Io veramente...»
«Non devi mica vergognarti», tornò a rivolgermisi Colgate. «Siamo tutti nelle medesime condizioni, credimi.»
Lanciai un'occhiata circolare. E così, anche loro erano dei pivelli. Mi era parso infatti che fossero un po' strambi, e certamente inadatti a un lavoro di rilievo presso una company come la Kosmos. Ma la mensa sembrava pullulare di gente simile: neo-yuppies che indossavano abiti "vintage" ed esibivano capigliature singolari o altre particolarità discordanti. Un ammasso multirazziale, peraltro. C'era una ragazza di colore molto carina qualche tavolo più in là che stava a dialogare con un discendente dei vichinghi. E, in fondo alla sala, individuai Marilinda, in compagnia di altre impiegate o segretarie che fossero (quasi tutte bionde come lei). Notai che si era tinta le unghie dei piedi a tutti frutti, in neon. Beh, d'altronde cos'altro poteva fare per tutto il santo giorno la dipendente di un "boss" come me?
«Prima di entrare qui», ricominciò Colgate, «eravamo quel che comunemente si dice dei "falliti al cubo". Prendi il mio caso. Non facevo che bighellonare per tutte le orge della città.»
«Io invece ero presente a ogni party technorock», spiegò Fool.
«Mentre io non facevo un bel nulla», ammise candidamente Protia, la mora.
«Io idem», dichiarò Pussyboy. «Ero il classico segaiolo. Ma mi ha salvato la K.E. Accadde in una lontana estate densa di umori, di provocazioni femminili, di mutande stese al sole...»
La sua teatralità suscitò qualche altra risatina.
«E tu?» domandai al dinoccolato dall'accento francese.
L'uomo mi rivolse un'occhiata stanca prima di decidersi a sbottonarsi: «Insegnavo alle écoles moyennes. Alle scuole medie. Matematica».
Lo guardammo tutti con aria di commiserazione.
«Henri è, a conti fatti, il più qualificato di noi», osservò Colgate.
«E anche quello dal passato più squallido», commentò lo stesso Henri.
«Ma allora», insistei, «se la nostra matrice comune è essere nati perdenti, perché ci troviamo qui?»
Fu Johnny Blue a rispondermi: «La mia teoria... ma è solo una teoria, bada bene... è che fungiamo da materiale di sperimentazione».
Sussultai. «In che senso?»
«Siamo cavie, più o meno. Attraverso noi viene misurato l'eventuale grado di resistenza nelle Paludi del Non-Tempo... almeno a quanto mi pare di avere inteso.»
Dopo una pausa relativamente lunga, che mi servì a finire la torta, confessai di non aver capito un tubo.
«Capiremo meglio, tutti quanti, quando passeremo alla Fase Due. Per te ciò significa un'attesa di... vediamo... di circa tre anni.»
«La Fase Due di che cosa? Dell'esperimento?»
«Mais oui», rispose Henri. «Aleph però lo chiama in un altro modo. La denominazione ufficiale è: Codice Untergang.»
Scossi la testa, esausto ed esasperato, e ingollai dell'aranciata. Sorbole! Proprio buona. C'era la polpa e tutto. Sembrava vera.
Colgate mi sfiorò un braccio. «Sta' a sentire, Patrizio-baby: alla K.E. appartiene praticamente ogni cosa. Tutto quel che vedi, in qualsiasi parte del mondo, è proprietà esclusiva della ditta.»
«Eccetto forse i distributori di preservativi in Africa», gettò là Fool.
«No», lo contraddisse Colgate. «Anche quelli. La corporation non ha difficoltà ad arrivare addirittura fino ai boscimani. Quando si dice "mondo", si intende il mercato globale. La K.E. si occupa di cose grandi e piccole, di transgenetica così come di gomme da masticare. E del tempo.»
«Del nostro», opinai.
«Di quello di tutti quanti. Il tempo in generale.»
«E, per riflesso, anche della storia», intervenne Henri. Che proseguì: «Lo scopo di Codice Untergang è quello di procrastinare il futuro. La fisica moderna ci insegna che ogni cosa sottostà all'irrefragabile legge del tempo irreversibile. Et donc: Aleph, il computer centrale, ha varato un programma che tende ad accelerare il corso degli eventi... con un contemporaneo rallentamento del progresso. A proprio vantaggio, chiaro: così lui - Aleph - può inseguire il sogno dell'immortalità. Ma ciò va anche a vantaggio del genre humain».
«E rallentare il progresso tu lo definisci un vantaggio?» domandai nervosamente, dando un colpettino al mio vassoio. «No, smettetela! Mi state prendendo in giro. Cavie, Codice Untergang, gomme da masticare, preservativi... Non ci credete neppure voi. Sebbene...»
All'improvviso pensai all'amico Allen ed ebbi come una visione.
«Ma certo!» proruppi. «La Kosmos Enterprise si è comprata il mondo... l'universo... per poter stabilire il corso della storia! Ora comincio ad afferrare. Il vero potere non è conferito dall'accumulo di capitali, ma dal controllo sul divenire. La parola d'ordine è: no future. Già mezzo secolo fa William Burroughs si domandava: "Dove accidenti sono gli elicotteri individuali che ci avevano promesso?" E anch'io, da bambino, credevo che appena dopo il Duemila avrei preso la metropolitana a Mosca per poter sbucare un'ora dopo in una strada di Manhattan. Invece... Abbiamo oltrepassato da vent'anni... no, trenta... la soglia del Millennio e ancora non abbiamo il governo mondiale, non abbiamo né città su Marte né colonie sottomarine, e neppure automi che ci stirano le camicie o apparecchi di teleportazione. Abbiamo però i cloni, il genoma, l'intelligenza artificiale, i nanorobot: tutti fenomeni invisibili. Il domani è microcosmico. E presto lo sarà anche il presente. Noi umani siamo bestie troppo grosse: perciò, qualcos'altro dovrà nascere al posto nostro.»
I miei commensali si erano già alzati. Esibivano un'aria sconcertata. «Vieni, Pat», mi disse Colgate, sfiorandomi una spalla. «È ora di rientrare.»



(CONTINUA)

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venerdì, gennaio 03, 2020

Scriviamo l'anno MMXX. Ma quando cominciò questo schifo?



Siamo ancora vivi, a Terzo Millennio abbondantemente iniziato. E siamo addirittura nel MMXX!

Eccoci qua. Ancora vivi: chi a casa dei propri, infelice anche se vezzeggiato o comunque con un letto e due pasti al giorno a disposizione; e chi dislocato lontano, impegnato a conquistarsi giorno per giorno ciò che un essere umano di regola dovrebbe avere gratis, e cioè un tetto sulla testa e qualcosa da mettere sotto i denti.


Il mondo è un cimitero. Eterno novembre… 

Ci salvano solo l’Amore… e l’Arte.



Una mia “vecchia” opera: Villa Sunshine
“The future is unwritten” sosteneva Joe Strummer: “Il futuro non è stato ancora scritto”… Eppure gli Anni Ottanta – il decennio di Ronald Reagan – sono stati una sorta di pietra angolare per quello che è il nostro presente. È come se qualcuno, o un gruppo di persone, avesse allora deciso di “spezzare le gambe” ai movimenti libertari, alla coscienza di classe, e allo Stato sociale, seminando panico, terrore e inaugurando – istituzionalizzandolo! – il concetto di “vita precaria”. 

Sono del parere che la tragedia dell’11 Settembre 2001 (l’attacco alle Twin Towers, nel cuore di New York) affondi le sue radici negli Anni Ottanta.
Un decennio invero malaugurato: dopo almeno trent’anni di creatività ad alti livelli (e perciò una creatività spesso “sovversiva”), ecco sopraggiungere il declino della musica, della letteratura, del cinema.
Anche per quanto riguarda la moda trattasi di un periodo a dir poco strano (!)…
                        1987: A group of ‘goths’ in Trafalgar Square, London. (Photo by Keystone/Getty Images)
   Il romanzo Villa Sunshine  (su Amazon per Kindle) ha un’ambientazione rigorosamente italiana, e più precisamente nord-italiana: si svolge infatti tra il Lago di Como e Milano, e a raccontare è Hermann Schmidt.
   Ermanno, come lo chiamano gli amici, lavora in un istituto di ricerca genetica. Una sera, mentre fa la vivisezione di alcune cavie, viene sopraffatto dalla stanchezza e la mente gli gioca uno strano scherzo: nell’atmosfera tetra del laboratorio, egli si ritrova a rievocare il fantasma di Mara, la sua ragazza di una volta, “perduta” a un capriccio giovanile di lei o al carisma indecifrabile di un tale letteralmente piovuto dal cielo e che risponde al nome di Venceslao Pilleschi.
   All’apoteosi del suo solipsismo, il dottore si augura fortemente di rivedere l’antica fiamma, che nel frattempo dev’essere una donna matura. Non solo: Hermann auspica persino di rincontrare l’individuo che gliel’ha soffiata… Perché quel tale, quel Vence, era anche suo amico, e l’amicizia ha un ruolo fondamentale nella sua vita (così come è fondamentale per tutti i personaggi che conosceremo in seguito).
   Ermanno Schmidt nutre dunque un nostalgico desiderio; ma la sua è anche vera e propria precognizione. Per quanto lo riguarda, lui dà per scontato che rivedrà presto entrambi (Mara e Venceslao), che li ritroverà… Semplicemente perché loro gli stanno mandando segnali telepatici, comunicandogli che vogliono farsi ritrovare.
   A cavallo delle memorie di Hermann o Ermanno Schmidt, ci vediamo ricatapultati a diversi anni prima: più precisamente, alla data dell’incontro della coppia Hermann-Mara con il misterioso Vence(slao) Pilleschi. L’atmosfera è quasi onirica; come nel ricordo di una mente stanca e confusa (quale in effetti è lo spirito del ricercatore genetico). L’incontro (quasi scontro) si svolge in circostanze surreali, ed è arricchito da elementi e fenomeni improbabili, simboleggianti i segni di una stravolgente svolta (geofisica, più che sociale) della Terra.
                              ***
   “Mi chiamo Venceslao Pilleschi”, si presenta lo sconosciuto – l’alieno – a lui e a Mara.
   Fin da subito, Venceslao/Vence si rivela essere un bambinone, completamente inadatto alla vita degli uomini; o, almeno, alla vita come essa è concepita nel paesino di provincia in cui vive la coppietta, che lo ha “adottato”. Ben presto, il biondo, irrequieto Vence si dice annoiato e decide di trasferirsi a Milano, dove – sorprendentemente – riesce a riscuotere successo in vari campi, imparando ad adattarsi in tanti ruoli; la sua specialità è di cambiare a piacimento maschere e costumi, come un attore mestierante. Ma anche nella metropoli la vita è dura, e Vence (che tra l’altro è mancino e inadeguato a svolgere la maggior parte dei lavori manuali) si vedrà costretto ad ammettere la debacle personale, per tornare infine al piccolo paese – presso i suoi tutori -, dove poter leccare le proprie ferite in santa pace. E lì, nella sperduta provincia dall’aura vagamente celtica, troverà consolazione nell’abbraccio della benevolente Mara…
   La ragazza è talmente innamorata di lui da abbandonare l’esterrefatto Hermann e sparire insieme all'”angelo biondo” risanato. Con il suo nuovo compagno, si inoltrerà nei meandri della grande città, mostruoso macchinario costruito apposta per inghiottire tante esistenze.
   Da questo punto in poi, il romanzo diventa più realistico, più concreto. I contorni non sono più sfumati, e gli elementi architettonici (in Villa Sunshine l’architettura occupa una posizione predominante) sono costituiti da oggetti ben tangibili, da spazi e corpi riconoscibili. Siamo nell’oggi: 1982, 1983. Mara, ormai una donna non più giovanissima, sta di continuo in attesa che qualcuno le riporti indietro il “suo uomo”: Vence. In tutti questi anni, Vence è rimasto infatti – almeno in spirito – il bambinone di una volta, e, irresponsabile com’è, latita: anche perché schiavo delle droghe sintetiche (dunque, continuamente “in ruota”).
   Attorno a Villa Sunshine (la casa in cui la coppia Mara-Vence si era illusa di poter fondare un nido d’amore) ruotano diversi personaggi, tutta gente che va verso la quarantina o l’ha già superata: lo sgangherato El Cato (un musicista rock dall’aspetto spagnoleggiante), un disastrato – e disonesto, bisogna aggiungere – uomo politico del Sud Italia, la sorella di Mara (un tempo reginetta di bellezza, oggi divenuta un’insopportabile matrona) e il marito di costei, che ha la passione dell’architettura. Proprio dall’architetto wannabé Mara deve sorbirsi valanghe di consigli sui cambiamenti che si potrebbero effettuare per migliorare esteticamente la villa… Ma lei è distratta, lei è interessata soltanto a un celere – quanto improbabile – ritorno del compagno. Si accorge di invecchiare, sente di star sciupando la propria vita, e, a più riprese (a volte con tono lievemente isterico), esorta i frequentatori della sua dimora a riportargli indietro il suo “uomo-bambino”…
   Per caso (o destino) sarà invece Hermann Schmidt, l’infelice dottorino di una volta, votatosi intanto al celibato, a “ripescare” Venceslao dai marciapiedi milanesi e a ricondurlo da Mara. Hermann Schmidt si vedrà pure messo nella situazione di dover indagare seriamente sulla vera provenienza di questo “idiota bello”, in quanto la ragione gli suggerisce che Vence non può essere né un Messo Celeste, né tantomeno un… marziano sperdutosi nel corso di una missione spaziale.
   Il romanzo sfuma in un’atmosfera di cupa malinconia, con la scomparsa definitiva di un umano-troppo-umano Vence(slao) Pilleschi e con la sempre più decrepita Villa Sunshine piena di persone (“amici” di Vence, ma anche amici l’un l’altro) che non fanno che vegetare sognando dei bei tempi andati. “Bei” perché vissuti all’insegna di una pseudomilitanza politica o quantomeno ideologica sotto la guida di un Venceslao Pilleschi allora brillante. Il sospetto che si insinua nel lettore, in queste ultime pagine del romanzo, è che Villa Sunshine sia in realtà una casa di riposo per esistenze derelitte, e che Mara sia una sorta di infermiera che deve prendersi cura di loro.
                                               ***
   Attraverso immagini metaforiche trasposte senza alcuna retorica, il romanzo vuole essere l’anamorfosi di un’Italia che riesce a mantenere la sua bellezza, la sua unicità, nonostante ogni turpitudine etica e sociale. È anche un romanzo “d’arte”, nel senso che, oltre che di architettura, vi si parla (attraverso le bocche dei vari personaggi) di musica, di pittura, e perfino di misteri archeologici.



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