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venerdì, aprile 05, 2024

Thriller in eBook: 'L'Agonia convulsa ovvero: L'Esodato'

e-Book Amazon

Su Amazon:
 'L'agonia convulsa (L'esodato)'
di franc'O'brain

(Amazon Kindle)

             Alcuni stralci del romanzo

La crisi. C'è stato chi non capiva e chi capiva a metà. Ci hanno costretti a indossare non solo una mascherina ma pure i guanti, nella speranza di poter arginare il diffondersi del flagello.

E ora io sono costretto a indossare non soltanto i guanti ma, occasionalmente, persino una maschera. Poiché per me è tuttora recessione, dissesto. Défaillance.

 

 

Wolf mi ha dato alcune lezioncine sul da farsi. Lo so, lo so: anch'io ho guardato e letto thriller a volontà. Mai lasciare DNA in giro e quindi: stare attenti a non perdere neanche un capello! Ricordarsi inoltre che una singola gocciolina di saliva potrebbe far risalire a noi. Normalmente.

"Nei casi di vecchi che crepano" mi ha assicurato Wolf tramite Telegram (o è WhatsApp?), "nessun inquirente si disturberà a ficcanasare sulla scena del crimine se le cause sono state abilmente simulate."

Durante le nostre conversazioni (che effettuo grazie al telefonino ritoccato riservato a questa mia "seconda occupazione"), per lui io sono, in ogni caso, "Orso". "Orso" e non "Bear". La forma inglese la preferirei di più...

Lui rimane "Wolf" per me. Pronunciato alla tedesca, non all'inglese. "Wolf" e non "Lupo", anche se, singolarmente, io ho la tendenza a usare la versione italiana.

Ci sarebbero domande a sufficienza che Orso vorrebbe rivolgere a lui, Lupo o meglio Wolf. Oltre ad avanzare pesanti obiezioni. Ma mi servono i soldi. E allora: "Garde ton souffle, Ours!" (Tieni la bocca chiusa! Risparmia il fiato, Orso!)

In un messaggio, il capo mi ha scritto: "Gli obiettivi da noi prescelti appositamente per voi sono una barzelletta". E così, quelle che ci riservano sono facili prede? "Li si può spingere per la rampa delle scale od oltre il davanzale: sembrerà un suicidio oppure una disgrazia."

Ho cercato di figurarmi le scene cruenti e, parola mia, mi è risultato difficoltoso vedermi nei panni di esecutore materiale.

"Se c'è del sangue dove non dovrebbe esserci" ha continuato il subdolo maestro, "sarà indispensabile servirsi del tauene, una sostanza usata dai meccanici."

"È utile per ripulire il sangue?" ho digitato, sbagliando due volte a pigiare i tasti.

"Lo è. Sia come sia, i da-noi-prescelti li si può eliminare con una metodologia multivaria. Avrai già sentito parlare delle fughe di gas. Sono frequenti, eh?"

"Sì..." Ho distolto gli occhi dal display e mi sono scrollato da capo a piedi, mentre fotogrammi di fiamme e carne bruciata mi si stagliavano sulle pupille. "Però" ho evidenziato "una fuga di gas solitamente causa una carneficina. Tanti che non c'entrano per nulla, gli innocenti, possono rimetterci le penne."

"D'accordo, c'è la variante dell'eliminazione pulita. A medio o breve termine. Ad esempio, causando forti allergie. Dei nostri soggetti abbiamo le cartelle cliniche. Logico, no? Non è fondamentale che la Fine sopraggiunga subito. Si può aspettare anche un paio di settimane o qualche mesetto. Cosa posso aggiungere? Ah, sì. Non meno importante: per nessun motivo servirsi di un'arma da fuoco, di un coltello o, che so io, di uno sparachiodi! Deve apparire - lo ripeto - un incidente o un exitus medico-biologico. Occorre essere creativi, inventivi."

Nelle ore successive a questa specie di briefing online, mi sono documentato di mia sponte. Apprendendo, da curiosi manuali reperibili su vari server non solo italiani, trucchi e stratagemmi a iosa. Si può inserire, attraverso una siringa, dell'aria in una certa vena del collo. O soffocare il malcapitato con un cuscino, che poi in ogni caso bisognerà portare con sé e gettare via. Con il veleno per topi si fa fuori una persona in una manciata di minuti... Giusto sulle sostanze tossiche, sui veleni, mi sono applicato con zelo: sono decisamente efficaci. In molti casi di avvelenamento - sempre che arrivi il rapporto di un patologo forense a certificarli -, gli eventuali ficcanaso crederanno a una morte volontaria, a un colpo di pazzia. In mancanza di moventi plausibili.

"È scontato che vi manderemo in posti diversi. Non agirete mai nella vostra città o, ad ogni modo, non troppo vicino a casa vostra" ha spiegato Lupo / Wolf. "Prerogativa essenziale è che rimaniate invisibili o non identificabili. È meglio che nessuno vi noti sostare troppo a lungo in un angolo o entrare e uscire da un edificio."

Sicuro. Improbabile che nel caso di facce nuove apparse improvvisamente si possa trattare di parenti lontani, amici o conoscenze dei vecchi. I vecchi sono esseri solitari e debbono restare indisturbati nel loro isolamento, nella loro mesta disperazione. Se ricevono visite, i vicini si allarmano. Pensano: "Un po' troppa socialità alla loro età!" Ai vecchi tocca rimanere appartati e dimenticati. La follia è sempre una risposta plausibile a tante domande. Ci sono pillole che uccidono entro un quarto d'ora. Ma si può anche strangolare la vittima e, successivamente, inscenare il suicidio: ad esempio, impiccandone il cadavere. Provocare una fuga di gas... No, questo metodo lo abbiamo già valutato e: meglio di no, troppo devastante.

Le lezioni del Lupo si svolgono, come detto, su svariate piattaforme di messaggistica e mio compito è cancellare i dispacci subito dopo averli letti o dopo aver ascoltato le registrazioni vocali.

"L'insulina. Mettila semplicemente nel loro caffè. Nell'eventualità che se ne somministri una dose massiccia, gli effetti sono potenzialmente letali. Non in tutti, ma in un congruo numero di soggetti."


***


A ogni momento di partire, Max si sfrega le mani: «Andiamo a fare sciambola!»

A far baldoria, vuol significare.

Lui si applica così bene da darmi i bruioli. Oh, pardon: i brividi, intendo. A qualche povera donna senile dedica attenzioni indecorose mentre altre le lascia all'asciutto («L'è minga semper festa!»), pur non lesinando neanche a loro osservazioni e gesti volgari, lascivi.

Alcune e alcuni li vedo afflosciarsi e spegnersi davanti a Talpa senza emettere più di un "Ah!" soffocato. E intuisco - senza dover controllare - quale arma usa in tali casi: me l'ha già sfoggiata a sufficienza durante uno dei nostri tragitti.

«Si chiama misericordia.»

Ho osservato l'oggetto tra le sue mani: un pugnale finemente lavorato, dal manico intagliato e con una lama sottilissima.

«Uno stiletto» ho detto.

«Ma bravo! Allora ne capisci. Sai perché si chiama misericordia?»

«Perché la vittima se ne va presto, immagino. Non soffrendo tanto.»

«È così. Noi usiamo ancora un altro nome: saccàgn. Allora: infili la saccàgn tra la seconda e la terza costola. Esce poco sangue. Pochissimo. Così eviti questa seccatura. Avrai meno spruzzi e tutto l'ambaradan. La pozza si formerà poi. Pian piano. Soltanto dopo che te la sarai svignata.»

Inutile aggiungere che lui ha cercato di appiopparmi - a prezzo di favore, dice - un coltello uguale o simile. Ma io nisba.

Io nisba nonostante che il concetto di misericordia, di compassione, calzi a pennello con il mio modo di essere. Se è il sottoscritto a esercitare il comando (cosa che purtroppo accade sempre più di rado), c'è spesso un tocco di classe nel modo in cui lascio trapassare i nostri clienti. Una delle vecchie, che difficilmente dimenticherò perché era una gran dama, si è spenta bevendo champagne. Dentro il calice le ho messo le gocce KO.

Una sostanza che per me rappresenta una scoperta non da poco. Altresì nota come droga da stupro. Me ne sono valso in un paio di casi. Riguardo alla lady di cui sopra, ho aspettato finché lei non ha perso i sensi e poi l'ho soffocata con il cuscino. Converrete che questo è un atto misericordioso. Probabile che potevo anche sparagnarmi il cuscino: la dose che le ho rifilata era alta. A una certa età, non si respira più quando l'organismo assume troppe gocce di knockout. Persino le più scafate girls, in discoteca, possono lasciarci le penne se alla loro bevanda viene mischiata una quantità eccessiva di GHB. E per "eccessiva" si intende da uno ai due grammi.

Gamma-idrossibutirrato: così gli esperti chiamano la droga. Astenetevi però dall'andare a cercarla in farmacia.

 

 


A casa mi adagio nel sarcofago a sognare carreggiate color cenere ai fianchi delle quali confusamente crescono alberi. Anch'io sono un rudere cadente come loro, come le case e gli alberi, e spesso, quando lavoro nel mio "studio" (sì sì, la stanza del terzo figlio che io ed Elena non riuscimmo mai ad avere; ma, tanto, due bastano e avanzano), vesto in pigiama, alla maniera di molti di quei pezzi da museo. Non posso fare a meno di rivederli, seduti sul ciglio del talamo, con il cuore in tumulto a origliare il ticchettio di una sveglia la cui suoneria loro non useranno più, a breve. O non usano già più. Hanno qualche guizzo di vivacità mentre discutono di scempiaggini con la propria moglie o con i coinquilini e poi tacciono, pieni di punti interrogativi, quando si rimettono sotto il lume elettrico della cucina.

I volti sfatti, le gocce succhiate da vespe e da formiche. Soggetti un tantino meno giovani di me (una piccola parte di costoro precede di cinque o sette anni; in buona percentuale, però, di quindici o diciassette: un'enormità) e alcuni mi guardano dritto nel passamontagna o attraverso il mio casco da motociclista con drammatica gratitudine, alcuni altri invece hanno remore a sollevare gli occhi (quasi temendo che sotto il travestimento non ci sia il diavolo bensì qualcuno di loro conoscenza) e si fissano sulle mie mani guantate, illudendosi che siano quelle di un operatore sanitario.

Ho imparato a domare pacatamente l'estremo sforzo di ribellione scansando le braccia di chi si dibatte cercando di colpirmi. Fin dall'inizio, per loro dev'essere esplicito che io sono il messaggero di Thanatos e, in ciò, il passamontagna nero (con una piccola alce bianca ricamata su) mi è utile. Non lascio loro mai abbastanza tempo per riflettere, fuorché quei minuti o secondi residui concessi loro dal veleno o richiesti dalla tecnica di soffocamento. A parte qualche eccezione, non desidero conoscerli troppo a fondo, tra l'altro perché intuisco che mi deluderebbero. Qualcuno cerca di confessarsi per così dire sul letto di morte, nientemeno, di liberarsi dal peso di qualche colpa grave, ma io gli tappo la bocca. "Non venite a lordare me con le vostre meschinità."

Sono convinto, ormai, o mezzo convinto, di compiere un'opera pietosa.

Gli italiani tra i miei clienti, nello stesso modo dei giovani connazionali bacchettoni, si palesano assai sospettosi nei confronti degli immigrati. E apostrofano il sottoscritto come si fa con uno straniero. «Tu che fare? Come essere entrato? Cosa volere?»

«Non sono straniero» ho spiegato un paio di volte e, quando mi hanno snervato battendo sul medesimo tasto, ho voluto indagare: «Perché mai credete che lo sia?» A dire di questi rincitrulliti rugosi, sono gli immigrati a fare cose simili, cioè scassare serrature, svaligiare, rapinare la brava gente. Annuisco, comprensivo. Si stanno riparando dietro il muro della xenofobia per non dover credere che sia giunta la loro ora. Vedono in me il romeno o l'albanese o vattelappesca che li deprederà, magari strapazzandoli e menandoli prima di andare via. Mi spiegano che sono gli stranieri a "rubare il pane". «Ma insomma, si sa!» Mentre in realtà sono ben consci di essere loro i primi furfanti, loro vecchi, loro pensionati: giacché stanno a pesare, e tanto, sulle tasche dei contribuenti.

Io, in fondo, li sollevo dal noioso andazzo della terza o quarta età. Immaginarsi: ogni giorno uguale. Aprire un occhio con la cataratta sullo stesso cuscino, raschiarsi la gola mentre si cerca dolorosamente di scendere dal letto, con ossa che scricchiolano, pantofole dentro cui si è formata una colonia di scarafaggi... Tranquilli: ora qui c'è Azrael!


BUY


Esodati: una realtà italiana  


  

sabato, febbraio 09, 2019

Prova d'assaggio - lettura gratis. 'I dolori di Cyberius'

   Prova d'assaggio gratis



I dolori di Cyberius






Take one



Appoggiò i polpastrelli sui tasti che conosceva in ogni incavatura. HAL, a quei tempi ancora un'architettura 486 a 33 MHz e con 240 MB di spazio su disco fisso, troneggiava nell'angolo migliore del suo soggiorno. Pochi ancora possedevano un computer: era un'apparecchiatura troppo costosa e complicata. Anzi, i conoscenti gli domandavano che diavolo ci facesse lui con un aggeggio simile. Era un patito dell'elettronica, vabbe', ma... addirittura un calcolatore? «E che vuoi calcolare tu?» gli rideva in faccia Schmidt, suo vicino di casa.
Con pazienza, spiegava a quell'odioso gnomo e agli altri dileggiatori che non si trattava di fare calcoli. Non precisamente. Raccontava di essere cresciuto in mezzo ai computer o pseudo tali. Nei suoi 17 anni di vita era passato per Vic20, Spectrum, C128, C64, Plus4, Amiga, 386... Per amore dei giochini, sicuro, ma non solo. Era la dedizione al programming, alla sperimentazione, a una creatività allora definibile solo con termini inglesi dal suono futuristico. Le persone non stavano a sentirlo. Non capivano. Si rivelavano ottuse nei confronti di questa specie di febbre delle paludi che prendeva lui e l'insieme degli accoliti quando sedevano davanti alla sfera di cristallo. Sacerdoti di una setta dedita a chissà quali pratiche. Eccoli lì, fusi alla macchina e ai suoi codici. Avevano impiegato poco per entrare in simbiosi con il PC e non lesinavano soldi e tempo per potenziarlo, perfezionarlo, corredandolo di nuovi elementi, schede video e audio... e un modem.
A quell'epoca i modem più veloci erano a 14.400 bit e costavano sui 500 marchi, o 500.000 lire. Internet era ancora di là da venire, ma ci si collegava con le mailbox, che inizialmente funzionavano solo su piattaforma MS-DOS. Serviva una certa competenza tecnica per usare il BBS, cioè il Bulletin Board System. Stiamo parlando degli albori della telematica. I messaggi che ci si scambiava apparivano su schermo nero... Lui era iscritto alla 'Blue Box' gestita dall'amico Richard, che abitava in piena campagna bavarese, in un villaggio di autentici contadini. Richard medesimo era un contadino, ma viveva secondo il motto ''progress oblige!''
Si mandavano dispacci di questo tenore:


Ho smontato il congegno, ho fatto una pulizia accurata, la polvere era =
ovunque, e per quanto concerne la memoria RAM, l'aggiorner=F2 quando i =
prezzi ridiscenderanno. Qu=EC a Trostberg per un SIMM di 8 MB pretendono 200 marchi. Tu sai dove posso trovarne di piu' convenienti? Cmq poi ti =dir=F2, sar=E0 stata la polvere, ma sembra che ora la scatola giri meglio.


Ci volle qualche annetto perché arrivasse il più agevole Win 3.1 di Bill Gates & Co. Per far funzionare bene quell'arcaica versione di Windows era d'obbligo mettere mano al config.sys e all'autoexec.bat... E finalmente arrivò anche in Europa internet, versione pubblica della rete militare statunitense Arpanet. L'unico provider affidabile era quello di Compuserve, con sede nell'Ohio. I primi forum erano tutti in inglese. franc’O doveva allacciarsi a un nodo distante un centinaio di chilometri da Mühlwaldshausen e perciò la sua bolletta telefonica toccava cifre astronomiche. Ma l'avvento del web rappresentò per lui, che era straniero – sia pure allogeno –, il superamento di ogni confine. Era un territorio di caccia, ampio, virtualmente aperto a tutti. Unica prerogativa: la conoscenza dell'inglese. Ma c'era chi, come Richard, ne faceva a meno e andava lo stesso a caccia. A ogni modo, presto la Rete si internazionalizzò e, in un futuro non lontano, persino nanerottoli spirituali del rango di Schmidt si sarebbero vantati di essere provetti ''navigatori''.
Chiuse per qualche secondo gli occhi arrossati, massaggiandosi la mano destra. Il suo musculus palmaris longus era innaturalmente gonfio, e non per l'eccessiva masturbazione. Da fuori provenivano voci in tutti gli idiomi: i bambini che giocavano sotto casa. Il russare che arrivava da un'altra stanza era invece causato da Benno, il suo coinquilino italiano. Benno: un gigantesco insetto; tanto ingombrante quanto puerile.
Con un sospiro rialzò le palpebre e tornò a smanettare spostando il mouse e pigiando sui tasti. Dai due altoparlantini situati ai lati del monitor giunse il brusio della linea. Bit sparsi, caratteri su caratteri su caratteri che probabilmente sarebbero andati a finire su qualche nastro di backup della NSA, per essere conservati qualora contenessero qualcosa di succoso per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti... ''Le mie innocenti paranoie archiviate in un rifugio blindato, con piantoni annoiati e un impiegato all'interno che si prende la briga di passare in rassegna ogni cosa: l'ultimissima copia delle nostre e-mail, dei nostri siti, dei miei posting, che tra cinquant'anni saranno distrutti, perentoriamente cancellati...'' Si rivolse mentalmente a Schmidt: ''Mi chiedevi e mi chiedi perché. Semplice: perché l'informatica è eccitante. C'è sempre qualcosa da risolvere, ci sono continuamente rogne e rognette da grattare...''
Tanto, disse a se stesso, osservando l'immagine di Gina sul desktop, ovvero della sua ex ragazza, che lo aveva mollato poche settimane prima perché si sentiva trascurata, tanto, si disse con lo sconforto cinico, quasi allegro, che caratterizza parecchi diciassettenni, tanto che cosa abbiamo da perdere, se non la vita? E quella è persa comunque.
Voglio – concluse trionfalmente – che questo divenga il mio mestiere!





1


Qui Babilonia, vi parla franc'O'brain. Oggi è – finalmente! – scoppiato il sole, sun, Ra, soleil. Sto a sudare nel mio pullover di lana. E pensare che soltanto fino a dodici ore fa la temperatura si aggirava sui meno tre gradi! Sono solo, solo malgrado la folla di fantasmi tutt'attorno. Sono solo ed è gennaio.
Se l'Italia fu un incubo ben riuscito, la Germania è una fiaba alquanto sbilenca. Ma dove altro poteva quagliare la mia malinconia, se non nel purgatorio di un paese di intese precarie, prati di silenzio e nevi di rimpianto?
Là fuori, ora, boschi gocciolanti. E tu, amore, non qui; o io non lì, da te. Ci resta questo sguardo sghembo sulla retroguardia depressa della natura. Vorremmo andare incontro a quegli alberi... e montiamo sull'automobile che, intirizzita, ci ha attesi dentro il garage. Che disdetta! Tutti vogliono tornare alla natura, ma nessuno a piedi. Le strade, pertanto, non conducono certo a distese verdi.
Ricordo le campagne lunari e lunatiche del Sud, e le brulicanti cittadi... È il Nepal, la mia alma mater.
E tu, Gina, il mezzo di trasmissione per cui riesco ancora a volare.
So di avere le sembianze di un picchiato picchiatore (non ho più vent'anni, del resto: ne ho ventuno) e non poche ragazze, e nemici, fremono all'appressarsi delle mie spalle carnose, dei miei bicipiti di ferro e della mia pancia a barile. Ignorano che, a onta delle apparenze, anch'io necessito di calore, di affetto; come un bimbo. Necessito amore: percettibile, plausibile, più speziato di qualsivoglia pasticcio commestibile. E invece che cosa ho? Che cosa mi rimane?
Mi rimane la tua cartolina dal Portogallo, che mi tocca custodire come un briciolo d'oceano.
Dunque eccomi in auto mentre mi accingo a raggiungere un posto isolato – il buco del culo del mondo. Durante il tragitto (risibile, la cosiddetta carreggiata carreggiabile che si apre davanti al parabrezza: i buchi! i buchi!... Appena stamani, fuori dalla mia tana, ho udito la bambinaglia irridere – me? –: ''Il cu-cu-u-u-lo senza bu-u-uco... hi hi hi!''), spengo l'autoradio e, nel silenzio della meccanica, canticchio una vecchia canzone ispirata al tema dell'Aprés midi d'un faune. Canzone a tratti schioccante, a tratti suasiva e afosa; umido stornello: melodia del bacio. Il bacio della mamma, della prima amata, della prima moglie... La melodia diventa stonata, in sintonia con la condizione del manto stradale (buchi buchi bu'): il bacio alla russa, il bacio a tradimento di una checca (la linguaccia dapprima nell'orecchio e poi in fondo alla gola), il bacio di Giuda, il bacio di cavallo... I miei, di cavalli, muoiono sul limitare di una selva oscura, al cospetto di stalattiti e stalagmiti che rifulgono a un sole sempre più vago.
E adesso? Dovrò davvero scendere e, nudo, privo del rivestimento di latta, proseguire a piedi? Cavallo di San Francesco... Esito. È utopico credere che in questi sperduti paraggi ci si possa imbattere in qualcuno dal quale ricevere soccorso. Ogni cosa tace. E, se riaccendo la radio di bordo, curiosamente mi giungono alle orecchie le voci di fiere straziate, irose e contagiate di mondo, che dimorano nella foresta dei Grimm. No, no. Che ogni cosa rimanga muta. Preferisco il silenzio.
Intanto il sole scompare. E ripiomba l'inverno. Inverno eterno. Per sentirsi veramente un po' di calore sulla pelle, in questa stagione e a questi meridiani occorre entrare in un solarium. Ci si ritrova svestiti nella cabina, sdraiati in un sarcofago, con le lampade a UV che ci bruciano le labbra.
Freddonia. Flash di annichilamento, di sfacelo. Come un brutto videogioco. Molti se ne scappano nella Repubblica Dominicana per segregarsi in hotel-lager edificati da ditte euroamericane a ridosso di lidi prima incontaminati, e in quei bunker di lusso arieggiano i loro prosciuttoni mentre servetti bruni pescano schifezze dall'acqua della piscina. Poi, vestiti nelle uniformi stile "tipo da spiaggia", questi tedescacci (inglesacci, svedesacci, italianacci) marciano sbronzi verso i bordelli dove, per un pugno di dollari, possono sodomizzare fanciulle e fanciulli e corrispettive madri...
Quanta pace tutt'intorno! Uàaaaah! (Sbadiglio.)
Vado. L'azione è molto meglio di un crepare freudiano.
Apro la portiera e scendo. Brrr. (È il vento a farmi tremare.)
Se almeno qui con me ci fosse l'amico Manu Kyohto! Nelle nostre urbi, Manu si muove come un gorilla, impacciato, contorto. Soltanto davanti a un jardin public riesce a trovarsi a suo agio: sale sugli alberi, segue orme di animaletti e si ferma a sniffare sapientemente l'aria – robusti peli protendentisi come antenne sensitive dalle sue nari. A Manu Kyohto piacerebbe questo bosco selvaggio. Lui saprebbe guidarmi per un sentiero a me invisibile attraverso la muraglia di pioppi e abeti rantolanti perché cardiolatenti. Ma forza, forza! Al di là della selva attendono, forse, un'alba o un tramonto liberatori.
Avanzo nella giugla siberiana: pavido, nicotinante relitto, eccitato; rettile birrasciancato. Scivolo su lastre di ghiaccio. Striscio, zampetto; ratto drogato. A ogni secondo sul punto di giravoltarmi e tornare sui miei passi di corsa – le mutande smerdate –, saltando sterpi e inciampando su radici sporgenti.
In qualità di Homo metropolis sono avvezzo a determinati microclimi: il salotto con i suoi schermi e le sue tastiere, le botteghe e gli uffici luminosi, camere da letto con il riscaldamento e/o l'aria condizionata, l'abitacolo dell'automobile con i magici auto(s)parlanti... insomma, le comode nicchie della civiltà. Qua all'opposto c'è un silenzio che ruggisce, un'umidità che corrode. Una selva, appunto. Viva, reale, affatto meccanologica.
Foresta = fiaba. L'equazione si offre spontanea. Mi viene l'idea di una favola "riadattata" al nostro habitat: il Principe Dalle Labbra Di Fuoco (perché ama i cibi piccanti) bacia la Principessa Di Ghiaccio (in tanti l'hanno accusata di essere frigida, finché lei non si è convinta di esserlo). L'ardore del bacio "risveglia" la principessa e la coppia decide di andare in pizzeria. Ma la via è disseminata di ostacoli. Un nano idrocefalo, cattivissimo, perseguita i due incessantemente (hallo, Schmidt!). C'è un ruscello di ammoniaca che loro riescono a guadare cavalcando un sovradimensionale cybercigno... c'è un gufo parlante con un marcapasso d'uranio quale batteria... e altri elementi del genere. Un fantasy attuale.
Affascinante. Annota tutto, e subito!
Mi siedo su un tronco caduto e mi frugo addosso, ma scopro di non avere con me penna e taccuino. Peccato. Un'altra canzone che andrà perduta... Intanto la foresta rinuncia al suo ostinato silenzio e prende a intonare il proprio, di canto. Ogni cosa intorno a me starnazzafrullafrusciastride. Non so se rallegrarmene o se rimpiangere lo strano iato sonoro di poco fa. Poi qualcosa (qualcuno?) strepita nelle mie orecchie. Un urlo come di pazzo o sordomuto che mi raggela definitivamente il sangue. Roteo sul mio asse, le pupille strabuzzate. Finché arguisco che a urlare sono stato io. (Ma chi è, io?) E adesso qualcos'altro mi tallona...
''Raphèl mai amèch zabì almì'' mormoro a mo' di esorcismo, prima di tornare a procedere, perduto, tremante e scacazzante, nella foresta nordica che, impazzita, ride in tutte le lingue e tutti i dialetti dell'Orbe.
 




2


«Maledetto gringo!» mi accoglie Benno. «Dove sei stato?»
Gli passo accanto trattenendo il respiro: lui è il Sultano di Bacteria, non so ogni quanto si lava... se mai decide di farlo.
Ein Italiener. Come me, in qualche modo. Proviene dalla Brianza: un pulènt quindi, mentre mio padre è uomo del Sud. Il mio genitore, sì, è un terrone, se volete. E per riflesso lo sono anch'io. È mia madre che è tedesca, ma il parentume mi giura che ho preso maggiormente da papà.
Benno mi tallona fino all'"angolo soggiorno", che sarebbe la mia stanza.
«Ti devo parlare, señor
«Mmpf.»
«Solo dieci minuti!» implora.
Dieci minuti preziosi della mia vita.
«Occhèi, sputa. Ma presto!»
Lui ride annuendo. Si vede che è compiaciuto. Ha gli occhi stellati per la contentezza.
«Ho conosciuto una squaw...»
Da quando Toni, un emigrato italiano, gli ha regalato la sua enorme collezione di Tex prima di rimpatriare, Benno si esprime come gli eroi di quel celebre fumetto. Il mondo per lui è diventato il Selvaggio West e Kit Carson è il suo Zingarelli o la sua Treccani.
«Uhm» faccio, accendendo la Scatola Magica e buttandomi sulla seggiola girevole. «Bella?»
«Stupenda. Dobbiamo festeggiare! Dove hai nascosto quella bottiglia di bruciagola?»
A casa devo sempre nascondere ogni cosa. Davanti a Benno non si salva nulla. Non ha il minimo senso del risparmio. Forse non si rende conto che siamo praticamente poveri... Inoltre quest'abitazione è, obiettivamente, troppo minuscola per due della nostra stazza.
Mi spiego: l'appartamento – intestato al sottoscritto – è una piccola barca. L'ingresso è a poppa, mentre a prua c'è il cucinino. A dritta (o tribordo, se amate Salgari) sono piazzati il mio letto e quel rottamaio di plastica e metallo che ho assemblato con un lavoro certosino, e a sinistra (babordo) l'apparecchio televisivo e l'impianto stereofonico. Sempre a sinistra, mimetizzata mediante carta da parati, c'è la porticina che introduce al loculo di Benno, uno spazio che, osservato dalla strada, si presenta come un bovindo sulla facciata settentrionale della casa o, per attenersi all'immagine marinaresca, come una scialuppa attaccata allo scafo.
Sciaguratamente, lui nello stanzino non ci rimane quasi mai. Trascorre una cospicua parte del suo Dasein sul ponte del battello, tra tivù e frigorifero...
Certo, oltre al cesso abbiamo un bagno con tanto di vasca, adiacente al suo minivano, ma Benno Bamba sembra misconoscerne l'esistenza.
«Il whisky?» gli dico. «L'ho regalato a Manu quando ha fatto il compleanno.»
«... e bisogna pure comprare qualcosa da mettere sotto i denti, señor» blatera lui insistentemente.
Roteo su me stesso e lo squadro. Ha la faccia butterata e, in generale, la sua figura non è propriamente quella del bamboccio ben nutrito. In effetti non sbaglia quando afferma che dovremmo andare a fare la spesa: aprendo la credenza, ho visto sgusciare fuori un topo con le lacrime agli occhi per la fame. Ma possibile che dobbiamo acquistare tutto con i miei quattrini? Ovvero, con i quattrini che mi mandano i miei?
Torno a rivolgermi al monitor, dove pian piano si sta caricando Windows.
«Corri al Lidl» gli dico con nonchalance. «Prendi anche del pane... e un paio di birre, così brindiamo al tuo incontro con quella... con quella.»
«Corpo di mille bufali, sìiii!» esclama Benno girandosi e correndo via. Sento intanto che si conta gli spiccioli in tasca. «Si chiama Anna» aggiunge gridando. Attende per un po' sulla soglia che io contribuisca all'acquisto di roba mangereccia porgendogli qualche banconota, poi desiste e sbatte la porta, prima di scendere le scale a rompicollo.
Facendo scorrere le dita sul quadrante della tastiera, scuoto la testa. «Anna?» mormoro. «Semmai "Hanna"...» Al pari di molti stranieri, il mio bizzarro coinquilino non fa uso dell'acca aspirata.
Avrà due-tre anni più di me, ma, per quel che riguarda intelligenza e maturità, potrebbe essere il mio fratello minore. Minorato. I suoi genitori lo hanno mandato qui, Oltralpe, nella speranza che si dimentichi dell'eroina e di tutte le altre schifezze che a casa sua si iniettava sniffava fumava e via mastuprando.
Non si può dire che tra noi due corra buon sangue, eppure siamo amici. O meglio: amigos. Difficile da spiegare ma è così. La spesa lui non la fa quasi mai, ma versa abbastanza puntualmente la sua parte di affitto (suo padre è un industriale di medio calibro, a quanto ho capito: il grano, a questi meneghini, non manca...) e il suo apporto è di notevole sollievo sia a me sia soprattutto a mia madre.
Certo che mandarlo in Germania nell'illusione che si allontani dalla droga è quasi un paradosso! Finora comunque lo stratagemma sembra funzionare: a quanto ne so, oggi Benno si fa solo di spinelli e... di Tex.

"Figlio di cento puma! Manigoldo!"
Direi che l'aria puzza di linciaggio.
"Puah! Che postaccio!"
Sgozzavitelli!
Pezzo di carciofo!
"Cameron ha la faccia dello smargiasso."
All'inferno quel demonio!
"Non perdiamoci in piagnistei."
Il ranger non era solo, che il diavolo se lo bruci!


Smetto di pensare all'amico-Bimbo e mi immergo nel mondo virtuale. Che è, in concreto, il mondo vero, e non un universo parallelo come sostengono tanti. Accanto alla tastiera c'è un flacone di aranciata, mezzo vuoto, risalente alla settimana scorsa o a un paio di settimane fa, e briciole di pane costellano la scrivania e gli interstizi degli stessi tasti. Ormai mangio là dove lavoro, con il busto piegato verso i caratteri alfanumerici che ingolfano il terminal. Sono considerevolmente alto per la mia età, uno e ottanta circa, e tanto scaltro da fare movimento a sufficienza ("la pancia non c'è più!"), così evito di diventare come una di quelle enormi palle di grasso che contraddistinguono i maniaci del computer: veri e propri geni, ma agli occhi della gente solo sudici pulcinella con qualche turba psichica.
Apro Netscape, il mio browser di fiducia e, dopo aver dato una scorsa alle news, compio un giro sulla pagina dei link di www.ljubo-love.mk. Mi guardo i videoclip gratuiti: degli "assaggi" per così dire, che dovrebbero invogliare gli erotomani più accaniti (quelli con la carta di credito) a iscriversi e sganciare una o più manciate di dollari al mese.
Già la sola pagina di benvenuto di questi siti assomiglia a una cloaca. Tu clicchi sul primo dei tre o quattro minifilmati e già sai a che tipo di avventura assisterai. E ti poni il dilemma, mentre liberi la verga dalla sua gabbia, di quanti altri, nello stesso istante, si stanno sollazzando guardando il medesimo porno.
Spesso l'eiaculazione arriva prima del culmine filmico. Richiudi la patta, sentendoti buffamente offeso, depredato. Non hai speso un centesimo ma hai perduto di nuovo una breve ma preziosa parte della tua giornata. Per tacere della dignità. Ora che sei più pacato, e più vuoto nel vero senso della parola, ti chiedi, truce, come mai così tante donne (tutte carine) sono disposte a fare... quel che hai visto. Per i dollari? Non soltanto "mature casalinghe vogliose", ma per giunta "appena diciottenni": davvero le donne arrivano ad autodegradarsi in questa maniera per mera pecunia? Oppure ritengono la sessualità un misto di mercimonio e passione sincera?
Ripenso a Gina, l'unica con la quale ho consumato l'atto d'amore. Se oggi avessi almeno lei... Poi provo a immaginare come può essere la "squaw" cui ha accennato Benno. Ma quale ragazza decide di mettersi con un pivello del genere? Ha forse ragione Manu Kyohto nel sostenere che le donne sono tutte puttane? (Lui, Manu, uomo di colore, dice questo perché avrà avuto le sue brave esperienze... o, viceversa, perché ne avrà avute troppo poche.)
Basta rimuginare sul sesso! Cancello i cookies, ovvero le tracce del mio passaggio sulla website erotica, e cerco aria più salubre in un forum sui linguaggi di programmazione, dove i geek prendono in giro i nerd.


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Gina non ha mai compreso il mio attaccamento alla macchina. Inequivocabilmente lo ritiene un legame morboso, pensa che la mia sia una fissazione tipo quella dei malati del gioco d'azzardo o dei depravati che sperperano la vita nelle sale dei video game. Perciò mi ha lasciato.
Una delle nostre ultime discussioni (o forse proprio l'ultima) è stata discretamente accesa.
«Tu non hai un cervello» mi ha detto: «hai un cervello elettronico!»
«L'elettronica è in ogni caso la disciplina che aiuterà l'umanità a guizzare in avanti, a migliorarsi.»
«Lo pensi davvero?» Mi sembra di rivederla, con i capelli sciolti e formosa da inebriare, mentre tende un dito accusatore contro il Personal Computer. «Non ti accorgi di sciupare gli anni? Che mi trascuri per... per questo ammasso di cavi e ferraglia?»
«Questo sarà... anzi, è il mio lavoro! Un giorno fonderò una ditta. Noi freak, come ci chiamate voi, non viviamo solo per il presente. E non pensiamo nemmeno in dimensioni storiche. Noi... almeno quelli che come me hanno delle visioni... agiamo nel rispetto delle prossime due-tre generazioni, ma proiettati ancora più in là. Noi non pensiamo in millenni: pensiamo in eoni
«Ts-ts...»
«...Tutti dicono No nukes!, come i tuoi strani amici...»
«Non toccare i miei amici...»
«… e invece noi puntiamo decisamente sull'energia atomica. Perché un giorno il sole si oscurerà e sarà grazie all'energia atomica che riusciremo a sopravvivere.» Mi sto scaldando oltremodo, ma non posso farci nulla. Mai come adesso ho sentito di avere grandi idee e sono sicuro di stare esprimendole in maniera logica e comprensibile. Sono un profeta della Nuova Era. «No nukes? Our mind works in a different way. Lasceremo questo pianeta a bordo di razzi a fissione nucleare. La Terra, del resto, è solo la prima tappa di un lungo viaggio. E che cosa sono duemila anni? O cinquemila? O diecimila?!»
Gina mi è venuta più vicino. «franc'O, guardami: io non sono un ologramma. Fai un sacco di chiacchiere ma la verità è che non mi prendi più in considerazione. O forse, per davvero, credi che io sia uno di quei giochini, di quei fantasmi o... come dici tu... sprite? franc'O, fammi parlare! Noi non viviamo in un film di fantascienza e la vita non è basata sulla matematica binaria. Le persone non sono come i bit, non sono zero o uno...»
Al più tardi in quell'istante sarei dovuto tornare in me, rinsavire. Avrei dovuto prenderla tra le braccia, portarla fuori a divertirsi. Invece, cocciutamente le ho detto: «Ne parliamo dopo» per rivolgermi di nuovo al monitor.
Gina. Oggi il sole è una fiaccola di cobalto e tu mi corri nelle vene come il coniglietto della Duracell. Ma la tua carne è remota. Sciolta per sempre nell'acido del tempo.




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domenica, giugno 10, 2018

E=m·c²


Questo è uno dei capitoli del mio libro Doktor Wolf - Storia di Hitler e del nazismo,  che prossimamente renderò disponibile come eBook. Vi si parla di Hitler (in uno dei suoi periodi di prima che diventasse Führer e dunque "guida" della Germania) nonché di Albert Einstein.
Su Einstein - come sanno i miei lettori più fedeli - ho già pubblicato un lavoro. Per chi volesse leggerlo, si intitola Einsteiniana.




EINSTEINIANA (essay)   collana unQuartino




Contiene: 

 ***************** 'Einsteiniana', 
**** 'Einstein, la biografia speciale' 
******* e il videogramma 'Genius!'





... e quindi ecco, di seguito, il capitolo tratto da Doktor Wolf.





E=m·c²



«E non tralasci di parlare della teoria della relatività» mi raccomanda Rudnicki.
Ludwig Ludwig approva solennemente: «Ja, ja. Eisenstein».
«Quello era un regista russo» ride Paola.
«Esenin?»
«Un poeta. Esenin era un poeta.»
«Kalinstein» dico, cercando di partecipare allo scherzo. Ma così riesco solo a mandare su tutte le furie il Grande Vecchio.
E dunque: si era nel 1905 quando un ometto dai capelli folti e crespi, ebreo (ma ebrei erano anche Marx e Freud...), rese pubblica un'ipotesi di lavoro che nientificava tutto quello che, nella meccanica tradizionale, aveva attinenza con il problema del movimento. Sotto il titolo di Teoria della Relatività, quegli studi resero famoso il loro autore. Il quale cercò di evitare i bagni nella torma: piegato sulle sue carte, continuò a fare conti – si trattava di fisica? di pura matematica? – sobbalzando ogni qual volta un rumore giungeva dall'esterno. A quel punto tirava fuori il suo orologio da tasca senza catena e con coperchio a scatto, scrutava con preoccupazione il quadrante e la sua fronte si imperlava.
Il lavoro di uno scienziato non deve tener conto della morale; ma quanto più tranquillamente esso potrebbe svolgersi se i capi di governo non cercassero incessantemente di venire in possesso di qualche arma micidiale! Quanto più tranquillamente, se i magnati della finanza (Rockefeller, Rothschild, Montefiore, Hirsch, Guggenheim, Morgan) la smettessero di pressare e spolpare l’ingegno, sfruttandolo per i propri profitti!
Albert Einstein ricacciava nel panciotto l'orologio e tornava ai suoi manoscritti.
Fin da Newton, l'esistenza di una massa costante non era mai stata messa in discussione. La teoria dei quanti di Planck, insieme alle conclusioni tratte dal danese Niels Bohr circa l'autentica struttura degli atomi (e avvalorate da test in laboratorio), sbugiardarono lo scienziato inglese. Per Newton, la massa "definisce" anche l'energia cinetica. Ora, in seguito alle moderne conoscenze, ogni sistema possiede in sé, insieme all'energia cinetica, anche quella termica. Ambedue le energie sono inseparabili. Ciò considerato, se la massa viene rappresentata dall'energia pura, in rapporto alla condizione termodinamica essa non può risultare costante.
Con la teoria della relatività Einstein andò oltre. Basandosi sugli esperimenti di Michelson, che dimostrarono che la velocità della luce non si lascia influenzare dai movimenti dei corpi attraversati, negò la concezione di tempo assoluto. D'ora in poi, grazie anche alla matematica di Lorentz e Minkowski – che ricorre a unità di tempo immaginarie – (ormai pure i fondamenti del calcolo infinitesimale posti da Newton e Leibnitz non reggevano più), non esistono né lunghezze assolute, né corpi perfettamente statici. Viene a mancare anche la possibilità di determinazioni quantitative e quindi la nozione classica di massa quale rapporto costante tra forza e accelerazione.
Vista nel suo insieme, la teoria della relatività è una combinazione di arte matematica, intuizione fisica e profondità filosofica. Appaiono tuttora straordinari il cinismo e l'avventatezza di queste ipotesi, che ammettono addirittura casi in cui i termini "prima" e "dopo" possono capovolgersi. Differentemente dalle scoperte di Max Planck, conosciute solo da un ristretto circolo di esperti, la teoria della relatività fu uno dei temi colloquiali prediletti anche dai "non addetti". Niente riesce a catalizzare la mente umana più degli assiomi sullo spazio e sul tempo, tanto più se questi assiomi sono rivoluzionari. Era stato così anche all'epoca di Galilei e Copernico, quando il sistema astronomico venne mutato completamente.
Al subentrare del XX secolo il mondo fisico si presentava strettino. Einstein fece saltare le barriere visive, aprendo lo sguardo su nuovi territori, dilatando gli orizzonti. Contamporaneamente però smentiva gli assertori di un universo infinito: il firmamento aveva adesso un raggio di soli 108 anni-luce.
Guardava l'orologio; e forse si sentiva un pizzico colpevole. "Ancora quanto?" si chiedeva. E, mentre studiava e pensava, nell'Africa sud-occidentale tedesca erompeva la rivolta degli Ottentotti. L'esercito colonizzatore di Guglielmo II riusciva a tenerla a bada fino a spegnerne del tutto i focolari... In occidente la gente si spostava sempre meno in omnibus (il tram trainato da cavalli) e "scopriva" l'automobile. Per il suo dipinto Il Bacio, che mostra una ragazza nuda, Klimt dovette trascorrere tre mesi in gattabuia. Il Simplicissimus, un periodico umoristico la cui mordace ironia non risparmiava nessuno dei personaggi della politica e del costume sociale, raggiungeva tirature altissime. (La censura sapeva dove colpire e dove, all'opposto, chiudere un occhio o entrambi.)
Mentre Einstein/Nietsnie sudava sul quadrante dell'orologio, il nuovo secolo lasciava intravvedere quel che sarebbe diventato: un'era funesta, piena di colpi di scena e colpi di maglio, di lampi di genio e lampi di morte. La chiave meccanica e il bisturi raccoglievano i primi trionfi. Nel 1909 fu dato l'annuncio della scoperta di un medicamento contro la sifilide: il 'Salversan'. Un decreto governativo stabilì che in Germania i bambini dai nove anni in su potevano lavorare in turni diurni; ciascun turno durava dieci ore. Il Kaiser ricevette a Potsdam la visita dello zar Nicola II. Nel 1911 vi fu la crisi del Marocco, per risolvere la quale il Reich inviò la nave da guerra Panther. Nel 1912-13 si svolsero le guerre balcaniche. "Ancora quanto?" si chiedeva l'omino. Poi, davanti allo specchio, si mostrava una lingua lunga lunga. "Ma sì, tanto il tempo non è che la quarta dimensione dello spazio!"
Il tempo è la quarta dimensione dello spazio. Ciò implica diverse conseguenze per la nostra percezione della realtà, dato che non possiamo limitarci a prendere atto delle novità sulla struttura dell'universo e sulla posizione del mondo e poi relegarle nell’archivio della nostra mente. Giorno per giorno facciamo esperienze che non sono analizzabili con il metodo scientifico, esperienze che non risultano comprensibili alla ragione. Il fatto è che, essendo per così dire prigionieri dentro una rete fenomenica, ci sfuggono i processi che avvengono al di fuori di essa. Tutt'intorno a noi regna la metafisica. (Gli esponenti della Scuola di Vienna credevano di essersi congedati definitivamente dalla metafisica, con due significative eccezioni: Wittgenstein e Karl Popper. Il primo, in special modo, limitò il mondo dello scientificamente esplicabile.) La realtà in sé non ha una struttura tale da essere intesa con i procedimenti della ricerca tradizionale...
"Finora gli scienziati hanno creduto che la realtà è come loro la percepiscono. Ma che ora è?"
La scienza è costretta a "tagliare" tranci di realtà e studiarli singolarmente. Ma non si può conoscere il tutto esaminandone piccole porzioni. È la fine dell'evo cartesiano: dobbiamo accettare il fatto che non tutto può essere posto sul vetrino del microscopio, che chiunque di noi può avere intuizioni non comunicabili, e perciò non catalogabili, e che queste intuizioni hanno uguale importanza di qualsiasi scoperta verificata.
"Ancora quanto?"
Oltre a ciò, nel momento in cui diciamo che il futuro è incerto, sottintendiamo una verità elementare e a un tempo sbalorditiva: che la Creazione... è tuttora in corso. E dove accade la Creazione? Dovunque: anche con l'uomo e nell'uomo. È lo stesso divenire – alcuni la chiamano "evoluzione" –, e il divenire non si svolge nel tempo: è il tempo!


E mentre Nietsnie/Einstein faceva scattare il coperchio dell'orologio da tasca senza catena e sudava, il giovanotto Adolf Hitler si trovava a Vienna, ospite di un asilo per uomini il cui titolare risultava essere un certo Schlomo H., ebreo.
Malaticcio e sprovvisto di mezzi, Adolf raccontò a Schlomo H. di essere orfano; di aver fatto parte, a quindici anni, di un coro, in qualità di baritono; di aver letto appassionatamente i romanzi di Karl May (il Salgari di Sassonia). E si mise prontamente in luce quale disprezzatore della razza ebrea (non gli giovava affatto stare in compagnia di questi "mangiatori d'aglio"), individuo supernevrotico, potenziale suicida. Aprì le sue cartelle mostrandone il contenuto a quegli altri disgraziati che abitavano lì (mendicanti, alcolizzati, studenti squattrinati): acquerelli nello stile di un "realismo radicale", per definizione dello stesso Hitler.
I pezzenti facevano: «Oooh, aaah». Solo Schlomo H. si mostrava scettico.
«Forse ti trovi al cospetto di un genio e lo ignori!» gli diceva il giovanotto, risentito.
E l'anziano ribatteva, sorridente come una sfinge: «L'aglio è una pianta molto salutare. Il botanico svedese Carl von Linné l'ha classificata sotto le liliacee, insieme al giglio, al giacinto, al colchico. I celti chiamavano l'aglio 'leek', che significa qualcosa come 'spezie gustose'. Per i francesi è l' 'ail commun' o anche 'perdrix de Gascogne'. Per gli inglesi 'common garlic'. Nel Ticino lo chiamano 'ai'...»
Hitler si metteva a menare colpi alla cieca. «Largo! Fate largo! Lasciatemi respirare, razza di giuda!» I cenciosi fuggivano in tutte le direzioni per tornare poi verso le rispettive brandine. «Bavosi ignoranti! Non insozzatemi! E via dai miei disegni!»
Placidamente, Schlomo H. seguitava ad alitargli: «Anche i tedeschi ne mangiano in abbondanza. Erroneamente lo chiamavano in passato 'Lauch', dunque 'porro'. In Altdeutsch si chiama 'Clofolauh', che deriva da 'clobo' (spaccare, dividere; un riferimento agli spicchi scindibili). Nel Waldeck dicono 'Knuflook', in Vestfalia 'Knuflaw', nella Boemia settentrionale 'Knóbluch', in Baviera e in Austria, come sai, 'Knofel'. Nella Svizzera dicono 'Chnoblach' mentre in Alsazia è il 'Knöblich'...»
«Basta...» rantolava Hitler, gettandosi sul suo giaciglio, piangente, esausto.
«Generalmente vale la denominazione 'Knoblauch': persino per noi ebrei. Universalmente valido rimane comunque il latino 'Alium sativum'» proseguì Schlomo, alzando la voce e chinandosi fino al pavimento, sgualcendo senza ritegno gli acquerelli sparpagliati: con le mani, con le ginocchia, con i piedi.
Il giovane artista cercava disperatamente distrazione uscendosene la sera. Con le ombre si tramutava in un lupo... in un Wolf. Ma Vienna lo stancava e lo deprimeva. La capitale austriaca confermava la nomea di città allegra e dal sesso facile.
Un giorno lasciò lo scarno rifugio e si diresse dritto filato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo scopo: ottenere uno stipendio. Il responso degli esaminatori fu peggio di una doccia fredda: «Caro signore» gli dissero, «a lei dovrebbe essere interdetto di dipingere tutto quanto non sia una parete di cucina».
L'avvilimento, insieme alla tbc, lo mise al tappeto. E chi si prese cura di lui? Schlomo H., titolare di uno di quegli ospizi dove si gela d'inverno e si arde d'estate.


Il piccolo uomo dall'alto Q.I. fu scortato fuori dal suo studiolo. I rappresentanti della stampa riempivano la sala delle conferenze; in mezzo a loro c'erano già gli sgherri della NSDAP.

«Ma non dovevo parlare alle sedici?»
Il gorilla che lo affiancava lo informò: «Ora sono le quattro».

«Del pomeriggio. Dunque le sedici...»
«Dobbiamo rimandare? Facciamo alle sedici e trenta?»
«Vuol dire... le quattro e mezza?»
La guardia del corpo non aggiunse altro. Einstein, dal suo pulto, guardò i portavoci del mondo scientifico (non numerosissimi), i professori interessati e i lacchè, i segretari, i contabili, i tecnici, fiduciari del governo e del capitale.
Qualcuno si mostrò stupito che lui non avesse appunti con sé. Come mai?
Tutti volevano sapere cose assurde. «Non ne ho idea. Voi volete sapere da me l'ora...»
In realtà non glielo aveva chiesto nessuno.
«... e io posso rispondervi solo che tutti quanti siamo nuovamente con un piede dentro le caverne, all'Età della Pietra.»
«Nervoso?» gli chiese un professore.
«Normale! C'è la guerra.»
«Ma dove?»
«Laggiù. Là dietro. In Turchia... mi sembra.» E anche da noi, ribadì mentalmente.

Principiò la sua lezione, andando alla lavagna. No, non aveva bisogno di appunti. Mozart si scriveva in testa concerti interi... Scribacchiò un paio di formule, pensando: "Vogliono sapere quant'è relativo il loro tempo. Io l'ho capito, ma come spiegarglielo? Se non lo capiscono da sé... Bevono e non realizzano che l'acqua è composta da due gas".
Il gesso scricchiolò, lui si asciugò il sudore.
«Nell'Oceano Pacifico» rifletté a voce alta «c'è il meridiano... una linea invisibile, dunque... presso cui cambia la data.» Era difficile. Era come in Hölderlin: l'abisso tra il mondo dell'esperienza sensibile e quello dei concetti e delle parole è invalicabile. Si ricordò allegramente di qualcosa che aveva letto pochi giorni prima su un giornale: uno scienziato teorizzava che la Terra, vista dal cosmo, deve apparire rossiccia. E questo perché la sua atmosfera assorbirebbe l'azzurro dello spettro di luce.
Bislacca prospettiva...
"Che ora è?" tornò a chiedersi. "È già l'ora? O c'è tempo?"




Peter Patti – Doktor Wolf – Storia di Hitler e del nazismo.

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