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sabato, ottobre 01, 2022

Romanzo a puntate: 'Via Diaboli', di franc'O'brain. 1

 


franc'O'brain

 

V I A      D I A B O L I

 

 

Giudicate voi se questa è una storia d'amore,

una tragedia o una farsa popolata da maschere anche perfide.



 

 

A Mary

 

 

 

1

 

 

Era il primo di ottobre e il cielo era nuvolo, ma l'autunno – quello vero – non era ancora arrivato. Me ne andavo in giro sbarbato e con indosso un vestito nuovo, comprato grazie ai soldi della buonuscita, o liquidazione che dir si voglia. La fabbrica in cui avevo lavorato per oltre dieci anni aveva chiuso i battenti e d'un tratto mi ritrovavo, poco più che trentenne, disoccupato.

Non si può dire che la cosa mi dispiacesse. Avevo trentamila euro in banca, il che significa che tenevo in mano lo scontrino della mia vita. Per la prima volta da quando ero venuto al mondo, potevo considerarmi veramente libero.

Fischiettando "Free Falling" di Tom Petty, filavo insieme alla città. C'era un che di catastrofico nell'aria, qualcosa che non poteva essere ascritto alle condizioni meteorologiche. A quell'ora (erano da poco scoccate le dieci del mattino) le strade di Monaco di Baviera pullulavano di gente.

Palesemente ero l'unico che esternava un bel sorriso. Oh, yes: tutto okay… per me. La mia passeggiata era una specie di caduta orizzontale in un mondo allo sfascio, un mondo con il quale – per fortuna! – non ero in sintonia.

 

 

And I'm free, free fallin'

Yeah I'm free, free fallin'

 

 

Il traffico ronzava come cento stuka. E sì che i media si ostinavano a parlare della crisi del mercato dell'auto! Io camminavo osservando con blando interesse le frenetiche molecole che mi circondavano: un meticciato di razze e volti tra i più disparati dai quali, qua e là, affiorava un rappresentante del vero "Deutschtum", essenza stessa della germanicità. Tutti quanti, ad ogni modo, occupati da pensieri frenetici. Avevano certi occhi da Caino...! Ma in questi giorni – mi chiesi – non si svolge la celebre Oktoberfest? Sì. Eppure ecco queste espressioni cupe, ecco quest'aria da "fate largo ché ho tanto da fare"...

Incrociai naturalmente anche molte persone che non avevano un bel nulla da fare e non lo nascondevano. Persino loro però sbandieravano la tetraggine che internamente li sconvolgeva, e il paradosso era che di sicuro provavano invidia per gli altri, per gli occupati, per gli eternamente indaffarati. Si sarebbe detto che lo spirito della Festa della Birra avesse dovuto sciogliere i problemi della gente come neve al sole, affratellando tutti, rendendoli più miti, ma evidentemente non era così. La sera andavano a ubriacarsi ai Wies'n (la spianata su cui si svolgeva l'annuale manifestazione) simili a una mandria impazzita e il giorno dopo si dannavano l'anima come al solito: chi per lo stress lavorativo e chi, viceversa, perché spiantato cronico o inguaribile senzasperanze.

Si vede che la birra non sempre giova. E, al fin della licenza, la vera seccatura non era forse il lavoro o la mancanza del medesimo, e neppure la mal sopportazione dell'alcol. Chissà quali drammi tempestavano l'esistenza di quegli individui! Provai quasi pietà per i loro tortuosi, oscuri destini, pur non potendo evitare di continuare a sentirmi bene.

Trentamila euro! Mai posseduti tanti soldi in vita mia.

Perseveravo a zufolare allegramente il motivetto di Tom Petty... sebbene anch'io ora facessi parte dei circa sei milioni di disoccupati in Germania. Un altro, al posto del sottoscritto, un giovanotto con la testa realmente sulle spalle, si sarebbe preoccupato e non poco. Io invece ero fiducioso. Inoltre, come molti che non avevano ancora superato la mia età, a me interessava il presente, o tutt'al più l'immediato. Il futuro poteva aspettare.

Telegiornali, notiziari radio e quotidiani cartacei e online cercavano di richiamarmi al senso del dovere: Krise! Krise! Krise! avvertivano. E io lì a fischiettare beato. Nelle lande tedesche, così come negli altri Paesi occidentali, era in corso una catastrofe sociale, d'accordo, ma sentivo che non mi riguardava direttamente. Il sostanzioso "premio d'addio" della ditta Schuuf mi poneva in una posizione avvantaggiata persino nei confronti di chi un impiego ce l'aveva.

Ero giovane, in ottima salute e, come detto, ciò che mi interessava non era precisamente un domani remoto. Sapevo bene come avrei trascorso il resto della mattinata e questo mi bastava. Prima cosa, comprai un fascicolo delle avventure di Rajabdo, un personaggio dei fumetti che mi aveva accompagnato per buona parte della gioventù.

Curioso che negli ultimi dieci-dodici anni non avessi più pensato a lui! Rajabdo non era il classico supereroe: era un uomo come tanti che viveva in un mondo analogo al nostro (mondo che, quando la serie uscì la prima volta, voleva essere un insieme di scenari futuristici). Le avventure che Rajabdo si ritrovava a vivere nascevano tutte da semplici casualità e – ovvio! – solitamente si trattava di dover salvare un'ancella in pericolo.

Guardai la cover sorridendo: ecco lì l'eroe, o antieroe, che lottava, tra automobili sospese a mezz'aria, contro alieni vampireschi...

Rabjabdo era tutto ciò che io da adolescente avrei voluto essere: il suo modo di vivere così spensierato, tutt'altro che impegnativo; il suo rapporto con le donne fondato su un dare e ricevere fuggevole e spontaneo; il suo campare alla giornata, senza curarsi del domani, senza angosce e senza inutili problemi per la testa se non quello di dover eliminare i fantomatici extraterrestri succhiasangue…

Oggi, finalmente, sentivo di assomigliargli.

Con il fumetto in mano mi diressi alla Trinkstall. Era un edificio di forma rigorosamente parallelepipeda nei pressi della Münchner Freiheit, apparentemente costruito con lastroni di cemento: una specie di scatola a vetri dalle pareti sconnesse, come tante ve ne sono nei cosiddetti quartieri del divertimento di ogni grande città.

Salutai uno dei baristi-camerieri, che conoscevo discretamente anche se non gli avevo mai chiesto come si chiamasse, mi inoltrai attraverso due file di tavoli semivuoti e andai a sedermi in fondo, accanto a una lampada a stelo. Ordinai un cappuccino e una ciabatta-con-prosciutto-emmenthal-e-maionese, quindi sfogliai amorevolmente il fascicolo fresco di stampa. Dovevano aver sostituito il disegnatore: oggi Rajabdo aveva una corporatura più squadrata – anche se non era necessariamente più muscoloso di prima – e l'espressione di tranquilla superiorità che lo aveva contraddistinto all'inizio delle sue imprese era stata sostituita da un'aria vagamente ombrosa, dovuta forse alle sopracciglia più folte e a una ruga che gli percorreva verticalmente la radice del naso. Uhm... Fisicamente non eravamo tanto diversi. Oppure io avevo finito per diventare simile a lui, crescendo? Il paesaggio che si intravedeva in svariate vignette era quello consueto: rispecchiava il cosmo urbano a me e a noi tutti familiare e si prestava pertanto come palcoscenico ideale per ambientarci le vicissitudini del Nostro. Soltanto i mezzi di trasporto avevano conservato la tipologia "avveniristica" voluta dagli ideatori della serie (alcune auto sembravano elicotteri privati...). Le tavole non erano firmate, notai.

Stavo mettendomi a cercare l'impressum, per vedere chi era adesso l'artista e chi scriveva le sceneggiature, quando la mia attenzione fu distolta da un movimento poco lontano.

Un uomo sulla quarantina si era acceso una Marlboro con gesti bruschi. Davanti a lui, un bicchiere di Helles Bier già mezzo vuoto. Inquieto e smanioso, l'uomo pareva interrogare con lo sguardo l'angolo di strada che si stagliava al di là del finestrone, come se attendesse qualcuno. Agitava nervosamente una gamba, di tanto in tanto cambiava posizione sulla sedia, lanciava nella sala uno sguardo circolare e tornava a osservare verso l'esterno, fremente.

In un'occasione i nostri occhi si incrociarono: i suoi erano blu trasparenti, pressappoco ittici. Nel suo viso di forma allungata, improntato di lineamenti energici, c'era una specie di bellezza devastata. Devastata da chi o da che cosa? Innanzitutto dal trascorrere del tempo, certamente: come già menzionato, non era più giovane, e del resto l'irrequietezza che lo distingueva era conforme al malessere della città, della nazione, del pianeta intero. Ma forse c'entrava, con questa tempesta interiore che gli aveva segnato anche la carne, l'amore.

Infatti. Mentre io prendevo a morsi la ciabatta riccamente imbottita, innaffiandola con il cappuccino bollente, l'espressione dei suoi occhi si raddolcì e le labbra sottili si atteggiarono a un'allegria quasi tenera. Una ragazza attraversò lo scorcio che era distinguibile dalla vetrata e, curvandosi come se volesse celarsi, si affrettò a girare l'angolo della facciata principale della Trinkstall. Per i pochi secondi che lei scomparve dalla vista, l'uomo rimase ritto all'impiedi, tutta la sua attenzione concentrata sull'entrata. Quando la ragazza tornò visibile (circondata dall'alone di luce giallastra della giornata ottobrina), lui agitò vistosamente le braccia, per segnalarle dove si trovava.

La ragazza coprì il tragitto che li separava con un sorriso stanco sul volto, che era straordinariamente pallido, e, mentre le loro bocche si avvicinavano, sbirciò in mia direzione. Il loro non fu un bacio vero e proprio: probabilmente – ipotizzai – sono io a infastidirla.

Mentre prendevano posto l'una di fronte all'altro, aprii il fascicolo di Rajabdo e iniziai a leggere:

 

 

Figura 1: Rajabdo cammina lungo la strada di una metropoli senza nome, solcando con calma una folla eterogenea e poco amichevole. La didascalia diceva: "Fare cose, vedere gente. Una perduta fissazione".

 

 

Hmmm... sì, i toni poetici erano come me li ricordavo. Una poesia della disillusione.

 

 

Ci fu dell'agitazione al tavolo vicino. Volsi gli occhi: piegato in avanti, il quarantenne parlava alla ragazza con aria implorante. La sua sigaretta, dimenticata nel posacenere, stava morendo in una spirale bluastra. La Trinkstall era uno dei pochi ritrovi che ancora tolleravano il vizio del fumo: una spiaggia per relitti alla deriva. Lei se ne stava con le spalle appoggiate allo schienale e taceva, sempre bianca in volto. O-oh. Qui finisce un amore, pensai.

 

 

Figura 2: Rajabdo entra in un locale che un'insegna indica come il "Cement Rose". Strano. Sembra la Trinkstall...

 

 

Figura 3: Rajabdo saluta il cameriere-barista... che è lo stesso della Trinkstall, sputato!… e che inforca persino lenti paragonabili a fondi di bottiglie, come il cameriere reale… e pronuncia queste parole: "Come la butta, Johnny?"

 

 

Johnny? Si chiama così? Rizzai il capo proprio mentre Johnny (sì, era uguale! Gli stessi occhiali...) si appressava ai miei vicini di tavolo e chiedeva alla ragazza che cosa dovesse portarle. Lei tentennò la testa, e allora il presunto Johnny venne da me e prese in mano la tazza e il piatto vuoti.

«Ah!» esclamò, con un leggero cenno del mento. «Rajabdo.» Rise annuendo. «Una volta lo leggevo... da bambino.»

Ridacchiai anch'io. «Non è propriamente una lettura per bambini, Johnny» dissi, mentre mi accorgevo che la ragazza stava di nuovo sbirciando verso di me.

«Na ja, insomma...» disse lui. Rise, con occhi luccicanti sotto le lenti penosamente spesse. Non so come dovevo interpretare la sua risata: lo divertiva il fatto che io lo avessi chiamato con quel nome, Johnny, che apparteneva al suo sosia del fumetto, o per qualche altro motivo?

Il cameriere veleggiò via e io sollevai con decisione il mento. La ragazza ora mi osservava apertamente, infischiandosene del quarantenne (forse quarantacinquenne) che le parlava con disperazione arruffandosi i pochi capelli che gli rimanevano.

Era bella. Non bellissima ma bella. Aveva i tratti minuti e gli occhi chiari. Chiari ma non azzurri: probabilmente verde bosco (difficile appurarlo, con quelle condizioni di luce). Ancora una volta non riuscii a sostenere il suo sguardo e distolsi il viso, facendo dunque il contrario di quanto avrebbe fatto Rajabdo in una tale situazione.

 

 

Figure 4 e 5: Rajabdo va a sedersi proprio in fondo al Cement Rose. No, la lampada a stelo non è la stessa e l'oggetto di lettura che tiene tra le mani non è un fumetto bensì un libro: Gli inquilini di Moonbloom, di Edward Lewis Wallant. Però a uno dei tavoli accanto al suo chi c'è? Sì, proprio lui: il quarantenne. La somiglianza è vaga se non del tutto assente, ammettiamolo (il quarantenne del fumetto è ancora più pelato e ha il naso rincagnato), ma i dettagli (il nervosismo, la sigaretta, gli sguardi impazienti alla strada) corrispondono.

 

 

Sfogliai pagina: ecco che ora entra in scena la ragazza…


 

 

Misi giù il fascicolo e inspirai con forza. Un momento. Qui qualcosa non quadra. I personaggi della storia erano identici a...

Io sono un tipo razionale. Sempre stato. Sono arciconvinto che non esistono fenomeni inesplicabili. Per ogni cosa basta trovare la chiave logica d'interpretazione. Dunque: riflettiamo...

«Vedo che sta leggendo Rajabdo

Sussultai. Era stata la ragazza a parlare. Quella vera, non quella dei comics.

«Mmm, sì.»

Mi guardò intentamente. E anche l'uomo mi fissò, aggrappato al suo tavolino e girato di sguincio. Lei sorrise, mentre lui sembrava volermi uccidere con gli occhi.

«E...?» insisté la ragazza.

«Molto interessante» dissi.

«Cazzate!» esplose l'uomo. Si alzò, gettò sul ripiano di formica dieci euro (di birre ne aveva bevute due) e si infilò il soprabito, il tutto sempre guardandomi con ostinazione. «Solo cazzate» ribadì, avvicinandosi. Diede un colpetto all'albo con il dorso della mano, facendomelo mezzo scivolare dalle dita. E se ne andò con l'andatura di un bufalo sfiancato.

Lo seguii con lo sguardo, a bocca aperta, finché la risata cristallina di lei non me la fece richiudere, la bocca. Anch'io abbozzai una risata, pur se non avevo ancora superato il momento di sconcerto. «Che… che gli è preso?» chiesi. «È forse per questo?» aggiunsi, sollevando il fumetto. Sulla copertina a colori, il profilo di Rajabdo segava lo skyline della città in fiamme, mentre diversi veicoli erano impegnati in una sorta di guerra aerea.

La ragazza si sollevò dal suo posto, afferrò la borsetta e mi si appressò. «Le spiace... ?» Indicò la sedia di fronte alla mia.

«No, certo che no.»

«Non deve prendersela» mi suggerì, mettendosi comoda. «L'ho appena abbandonato.» Aveva un'espressione tutt'altro che contrita. Anzi: sfoggiava uno splendido, imperturbabile sorriso. I suoi occhi, come potei constatare, erano davvero glauchi, con una sfumatura cenerina. Sedeva ritta e sottile.

«Un brutto colpo per lui» osservai educatamente. «Ma...? Aspetti.» Ritrovai in fretta la pagina che la riguardava e la girai per mostrargliela.

«Mi assomiglia ma non sono io» mi informò senza guardare. «Quella lì si chiama Lilla. Un nome assurdo, non le pare? Io invece sono Margarita.»

«Ciao, Margarita» dissi.

 

 

                                                       [Continua]             




         INDICE                                              

  Via Diaboli - 1 (Capitolo 1)     

  Via Diaboli - 2 (Capitoli 2 e 3)

  Via Diaboli - 3 (Capitoli 4 e 5)

   Via Diaboli - 4 (Capitolo 6)     

    

                              (...)                              


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sabato, ottobre 31, 2020

Antonio Mosca - 'L'Ultimo Messia'

 

Antonio Mosca

L’Ultimo Messia


romanzo

 


“...siamo sopravvissuti alle persecuzioni dei più potenti imperi e dei più feroci regimi, e abbiamo agito nell’ombra per guidare la storia del mondo, correggendone la rotta quando necessario, con un unico obiettivo: compiere la nostra missione.”

“Quale missione?”

“Preparare l’ascesa del Messia sul trono delle nazioni.”

 

          Antonio Mosca. L'Ultimo Messia.

 

 

 

Quanti romanzi deve firmare un autore prima che il suo nome diventi garanzia di qualità? Antonio Mosca io l'ho conosciuto grazie a La Chiave di Cristallo (vedi recensione), libro che mi rivelò al primo colpo lo scrittore di bestsellers relegato in un universo non suo per colpa della cecità e della sordità di un mondo editoriale traviato e incompetente.

Con L'Ultimo Messia (su Amazon: qui) superiamo tutti i confini (non solo quelli nazionali) e corriamo in prima fila con Dan Brown, Ken Follett, John Grisham e compagnia bella.

L'Ultimo Messia è un altro avvincente romanzo di Antonio Mosca, che si basa su una tesi dissacrante: quella che Gesù ebbe eredi.

 

 I "rotoli del Mar Morto"



Dodici erano gli apostoli, dodici sono oggi i membri del Consiglio dell'Alleanza... cioè, i discendenti degli ur-cristiani per così dire. Cioè ancora: gli Esseni. Ai quali si fanno risalire i celebri manoscritti del Mar Morto, scoperti per caso da un pastore nelle grotte di Qumran (nei pressi di Gerico). Gli Esseni erano sostenitori di Pitagora e delle sue teorie sui significati nascosti nei numeri e, nel corso dei secoli, avevano sviluppato metodi per predire il futuro...

 



 

“Che fine hanno fatto gli Esseni?” Gli occhi della donna lo scrutarono in profondità, Visconti si sentì tremendamente a disagio.

“Di loro non si è saputo più nulla,” rispose con voce tremante, “Qumran fu distrutta dai Romani nel 68 e Giuseppe Flavio ipotizzò che i superstiti si unirono agli Zeloti di Masada, partecipando al suicidio collettivo che prevenne la sconfitta da parte dei Romani. Lo proverebbe il ritrovamento, tra i resti di Masada, di alcuni frammenti di pergamene identiche a quelle di Qumran.”

“Lei però non crede a questa tesi,” insinuò la donna, sorridendo in maniera ambigua.

“In effetti no,” ammise Visconti, “la mia ipotesi è che alcuni di loro scamparono alla repressione romana e lasciarono la Palestina, proprio come fecero anche i desposyni.”

 

          Antonio Mosca. L'Ultimo Messia.

 

 

 

 Nazismo ed esoterismo: realtà, non fantasia

E queste sono solo le premesse. La storia si svolge come un giallo, un mystery, un thriller...

Il Professor Visconti, lo Sherlock Holmes, il detective del caso, ha spunti geniali che non fanno altro che sottolineare la genialità medesima del romanziere. I twists, gli sviluppi, sono imprevedibili e, comunque, si succedono a tamburo battente.

Ogni capitolo è preceduto da una citazione ad hoc. E ci sono richiami a iosa di argomenti e temi cari ai romanzieri e... ai cospiratori. Ad esempio, si fa appello alla ricerca genetica compiuta da Josef Mengele sotto la svastica. Alla Thule Gesellschaft...

 

 La svastica dei teosofi (XIX sec.)

 

Ma tornando all’ipotesi centrale: Gesù ebbe eredi? Impossibile appurarlo... con metodi tradizionali. Nell’anno 70, l’esercito di Tito Flavio invase la Palestina, rase al suolo Gerusalemme e tutti gli archivi pubblici delle principali città furono bruciati. Poi - scrive Mosca - "i discendenti delle famiglie dinastiche [i desposyni di cui sopra] vennero perseguitati: prima per ordine degli imperatori romani, poi su richiesta diretta della Chiesa.”

 





  

“Dunque, Gesù era un Esseno?” chiese ancora la ragazza prima di restituire il microfono all’assistente.

“Dal confronto dei contenuti dei Manoscritti di Qumran con i testi evangelici, sembrerebbe proprio di sì,” rispose Visconti sorridendo, “mi limito a sottolineare un solo dettaglio, molto significativo: Gesù era della tribù di Giuda ed erede dinastico del re David. Le sacre scritture chiamano Gesù Nazareno, e al catechismo ci hanno sempre insegnato che l’appellativo deriverebbe dalla città di Nazaret. Eppure, tale villaggio non appare in nessuna carta, né viene citato in alcun libro o cronaca dell’epoca. Invece ancora oggi in lingua araba per identificare i Cristiani si usa il vocabolo nasrani: deriva dal termine usato nel Corano, nazara, che proviene dall’ebraico nozrim, ricavato dalla locuzione nazrie ha-Brit. Tradotto vuol dire Custodi dell’Alleanza, un altro dei modi con cui si indicavano i membri della comunità Essena.

 

          Antonio Mosca. L'Ultimo Messia.

 

 

 

 

È un romanzo che velocemente si insinua sotto pelle, incatenando i pensieri del lettore che non riesce, e a dirla tutta nemmeno vuole, sottrarsi alle pagine e ai capitoli.

Sia nelle parti descrittive che nella concatenazione degli eventi, Antonio Mosca dimostra profondità e tridimensionalità: le scene si vivono, gli attori si vedono e i dialoghi si interpretano. L'indagine tocca corde che regalano una tensione che si percepisce di pancia, tutto merito dell'idea di fondo, delle ricerche accuratissime e dello spiegarsi della lotta tra il Male (sì, sì! i nazisti c'entrano sempre!) e il Bene. L'assunto principale, poi, che coinvolge direttamente il protagonista, saetta tra tutti i capitoli, mentre viene innescato un conto alla rovescia che può condurre il mondo alla rovina o alla salvazione. Il tutto inserito in una scia di sangue e di indizi rappresentati da antichi manoscritti, reliquie cristiane poste sotto al microscopio... Ci ritroviamo a dare uno sguardo dietro ai fondali del Vaticano. Dove è stata installata una macchina di ricerca ed eleborazione dati che lavora incessantemente. Quella che ci rivelerà chi è oggi l’erede di Gesù. Chi il Cristo... e chi l’anticristo!

 

 

Ma qual è la posizione degli Esseni?

 

 

“Considerano la Chiesa come il nemico da abbattere, e il papa un essere abietto.”

 



Il romanzo L'Ultimo Messia su Amazon

 

 

 

 

 

 

sabato, maggio 30, 2020

Esce 'Bomba' Atomica', di Mercadini

Il 23 giugno, per i tipi di Rizzoli. 

Nel video, lo scrittore-entertainer ci narra in breve i contenuti dell'opera. 

Conoscendo Roberto Mercadini, si tratterà di sicuro di una lettura piacevole... nonostante le conseguenze catastrofali dell'invenzione. (Beh, sappiamo tutti che l'energia atomica - o nucleare - fece... e fa... tanti morti.) 

Un romanzo-saggio o saggio romanzato, come ci spiega lui stesso. Insomma: un docuromanzo.



  Per approfondire l'argomento (a latere ma anche in maniera specifica), consiglio questi eBook [presenti su Amazon]:






domenica, marzo 01, 2020

Una poesia da 'Templi Moderni'





Un miraggio tremola all'orizzonte:
il miraggio di due amici.
Vagolano tra questi canyon
come animali del pleistocene.


Chi sono? Siamo noi.
E A regge la clava
e B già sa di essere
vittima designata. Ma ride.





Ride e piange e guarda l'amico
e guarda la clava
e gioca con l'eco: "Hey there!"
Gli risponde un supersonico.


Il carnefice assesta l'arma.
Chi è? È B. Sei tu, 
e hai il fiato caldo
come un abbraccio,


come la scia del jet
che passa sul cranio,
subsannando vent'anni
di giochi sorridenti.



     (Peter Patti, da Templi moderni)





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v
v
templi-moderni




mercoledì, settembre 18, 2019

La morte felice

Contenuto in: Incesti rossi, racconti

(di franc'O'brain.


#eBook)



La morte felice

Ancora non si è spenta la deflagrazione nel tuo cranio. Una bomba? Il terremoto? Ogni cosa ti è cascata addosso, fracassandoti le membra e la testa, squarciando i pensieri e il cuore.
Sai che è finita, finita per sempre, ma in fondo non te ne dispiace. Nascosto in questo claustro, in questo rifugio di macerie, puoi guardare nelle latebre della tua anima, passare in rassegna sogni finalmente chiari. Prima del sonno liberatorio.
Dormire. Dormire. Essere libero da legami spazio-temporali.
Tutti i tuoi avi ti giacciono al fianco, ti fanno cenno di raggiungerli, ti tirano gentilmente per un braccio. Ma tu non puoi muoverti. Le tue tempie sono state trapassate da un tubo di piombo, le tue ginocchia si sono fuse con un masso di alabastro, i tuoi denti si sono incagliati su una trave.
Da come un soffio ti scivola silenzioso sulla fronte, capisci che una ferita si è aperta nella terra. Hai nelle narici il respiro di latrine sventrate. L’unico tuo occhio buono, e senza palpebra, si è incastrato in una fessura nebbiosa, da dove puoi osservare il cielo che pende storto.
Tutt’attorno c’è forse chi urla, chi piange, chi sussurra, ma tu non odi. Avverti appena il ribollio del mucopus che, sgorgando dalle ghiandole, si fa vettore del liquido ematico.
Sei un ammasso di ossa che stillano ghiaccio organico. Non riesci nemmeno a far guizzare un muscolo, immobilizzato in un dolore che non finisce mai. Questo dolore! È una pulsazione ad alta frequenza: ora sale, ora scende. È come la schiuma di un’onda che si spacca su uno scoglio.
Possiedi comunque la luce di visioni prima ignote, chimeriche, lo splendore al laser di costellazioni non più prigioniere, e senti che, addormentandoti, planerai sui cerchi saturnini di una realtà fatta a pezzi.
C’è chi latra, ma non è sopra o sotto di te.
Dormire...
Ti tirano per un braccio, ma rimani immobile. Solo l’alito puzzolente degli Inferi ti agita i capelli.








domenica, giugno 10, 2018

E=m·c²


Questo è uno dei capitoli del mio libro Doktor Wolf - Storia di Hitler e del nazismo,  che prossimamente renderò disponibile come eBook. Vi si parla di Hitler (in uno dei suoi periodi di prima che diventasse Führer e dunque "guida" della Germania) nonché di Albert Einstein.
Su Einstein - come sanno i miei lettori più fedeli - ho già pubblicato un lavoro. Per chi volesse leggerlo, si intitola Einsteiniana.




EINSTEINIANA (essay)   collana unQuartino




Contiene: 

 ***************** 'Einsteiniana', 
**** 'Einstein, la biografia speciale' 
******* e il videogramma 'Genius!'





... e quindi ecco, di seguito, il capitolo tratto da Doktor Wolf.





E=m·c²



«E non tralasci di parlare della teoria della relatività» mi raccomanda Rudnicki.
Ludwig Ludwig approva solennemente: «Ja, ja. Eisenstein».
«Quello era un regista russo» ride Paola.
«Esenin?»
«Un poeta. Esenin era un poeta.»
«Kalinstein» dico, cercando di partecipare allo scherzo. Ma così riesco solo a mandare su tutte le furie il Grande Vecchio.
E dunque: si era nel 1905 quando un ometto dai capelli folti e crespi, ebreo (ma ebrei erano anche Marx e Freud...), rese pubblica un'ipotesi di lavoro che nientificava tutto quello che, nella meccanica tradizionale, aveva attinenza con il problema del movimento. Sotto il titolo di Teoria della Relatività, quegli studi resero famoso il loro autore. Il quale cercò di evitare i bagni nella torma: piegato sulle sue carte, continuò a fare conti – si trattava di fisica? di pura matematica? – sobbalzando ogni qual volta un rumore giungeva dall'esterno. A quel punto tirava fuori il suo orologio da tasca senza catena e con coperchio a scatto, scrutava con preoccupazione il quadrante e la sua fronte si imperlava.
Il lavoro di uno scienziato non deve tener conto della morale; ma quanto più tranquillamente esso potrebbe svolgersi se i capi di governo non cercassero incessantemente di venire in possesso di qualche arma micidiale! Quanto più tranquillamente, se i magnati della finanza (Rockefeller, Rothschild, Montefiore, Hirsch, Guggenheim, Morgan) la smettessero di pressare e spolpare l’ingegno, sfruttandolo per i propri profitti!
Albert Einstein ricacciava nel panciotto l'orologio e tornava ai suoi manoscritti.
Fin da Newton, l'esistenza di una massa costante non era mai stata messa in discussione. La teoria dei quanti di Planck, insieme alle conclusioni tratte dal danese Niels Bohr circa l'autentica struttura degli atomi (e avvalorate da test in laboratorio), sbugiardarono lo scienziato inglese. Per Newton, la massa "definisce" anche l'energia cinetica. Ora, in seguito alle moderne conoscenze, ogni sistema possiede in sé, insieme all'energia cinetica, anche quella termica. Ambedue le energie sono inseparabili. Ciò considerato, se la massa viene rappresentata dall'energia pura, in rapporto alla condizione termodinamica essa non può risultare costante.
Con la teoria della relatività Einstein andò oltre. Basandosi sugli esperimenti di Michelson, che dimostrarono che la velocità della luce non si lascia influenzare dai movimenti dei corpi attraversati, negò la concezione di tempo assoluto. D'ora in poi, grazie anche alla matematica di Lorentz e Minkowski – che ricorre a unità di tempo immaginarie – (ormai pure i fondamenti del calcolo infinitesimale posti da Newton e Leibnitz non reggevano più), non esistono né lunghezze assolute, né corpi perfettamente statici. Viene a mancare anche la possibilità di determinazioni quantitative e quindi la nozione classica di massa quale rapporto costante tra forza e accelerazione.
Vista nel suo insieme, la teoria della relatività è una combinazione di arte matematica, intuizione fisica e profondità filosofica. Appaiono tuttora straordinari il cinismo e l'avventatezza di queste ipotesi, che ammettono addirittura casi in cui i termini "prima" e "dopo" possono capovolgersi. Differentemente dalle scoperte di Max Planck, conosciute solo da un ristretto circolo di esperti, la teoria della relatività fu uno dei temi colloquiali prediletti anche dai "non addetti". Niente riesce a catalizzare la mente umana più degli assiomi sullo spazio e sul tempo, tanto più se questi assiomi sono rivoluzionari. Era stato così anche all'epoca di Galilei e Copernico, quando il sistema astronomico venne mutato completamente.
Al subentrare del XX secolo il mondo fisico si presentava strettino. Einstein fece saltare le barriere visive, aprendo lo sguardo su nuovi territori, dilatando gli orizzonti. Contamporaneamente però smentiva gli assertori di un universo infinito: il firmamento aveva adesso un raggio di soli 108 anni-luce.
Guardava l'orologio; e forse si sentiva un pizzico colpevole. "Ancora quanto?" si chiedeva. E, mentre studiava e pensava, nell'Africa sud-occidentale tedesca erompeva la rivolta degli Ottentotti. L'esercito colonizzatore di Guglielmo II riusciva a tenerla a bada fino a spegnerne del tutto i focolari... In occidente la gente si spostava sempre meno in omnibus (il tram trainato da cavalli) e "scopriva" l'automobile. Per il suo dipinto Il Bacio, che mostra una ragazza nuda, Klimt dovette trascorrere tre mesi in gattabuia. Il Simplicissimus, un periodico umoristico la cui mordace ironia non risparmiava nessuno dei personaggi della politica e del costume sociale, raggiungeva tirature altissime. (La censura sapeva dove colpire e dove, all'opposto, chiudere un occhio o entrambi.)
Mentre Einstein/Nietsnie sudava sul quadrante dell'orologio, il nuovo secolo lasciava intravvedere quel che sarebbe diventato: un'era funesta, piena di colpi di scena e colpi di maglio, di lampi di genio e lampi di morte. La chiave meccanica e il bisturi raccoglievano i primi trionfi. Nel 1909 fu dato l'annuncio della scoperta di un medicamento contro la sifilide: il 'Salversan'. Un decreto governativo stabilì che in Germania i bambini dai nove anni in su potevano lavorare in turni diurni; ciascun turno durava dieci ore. Il Kaiser ricevette a Potsdam la visita dello zar Nicola II. Nel 1911 vi fu la crisi del Marocco, per risolvere la quale il Reich inviò la nave da guerra Panther. Nel 1912-13 si svolsero le guerre balcaniche. "Ancora quanto?" si chiedeva l'omino. Poi, davanti allo specchio, si mostrava una lingua lunga lunga. "Ma sì, tanto il tempo non è che la quarta dimensione dello spazio!"
Il tempo è la quarta dimensione dello spazio. Ciò implica diverse conseguenze per la nostra percezione della realtà, dato che non possiamo limitarci a prendere atto delle novità sulla struttura dell'universo e sulla posizione del mondo e poi relegarle nell’archivio della nostra mente. Giorno per giorno facciamo esperienze che non sono analizzabili con il metodo scientifico, esperienze che non risultano comprensibili alla ragione. Il fatto è che, essendo per così dire prigionieri dentro una rete fenomenica, ci sfuggono i processi che avvengono al di fuori di essa. Tutt'intorno a noi regna la metafisica. (Gli esponenti della Scuola di Vienna credevano di essersi congedati definitivamente dalla metafisica, con due significative eccezioni: Wittgenstein e Karl Popper. Il primo, in special modo, limitò il mondo dello scientificamente esplicabile.) La realtà in sé non ha una struttura tale da essere intesa con i procedimenti della ricerca tradizionale...
"Finora gli scienziati hanno creduto che la realtà è come loro la percepiscono. Ma che ora è?"
La scienza è costretta a "tagliare" tranci di realtà e studiarli singolarmente. Ma non si può conoscere il tutto esaminandone piccole porzioni. È la fine dell'evo cartesiano: dobbiamo accettare il fatto che non tutto può essere posto sul vetrino del microscopio, che chiunque di noi può avere intuizioni non comunicabili, e perciò non catalogabili, e che queste intuizioni hanno uguale importanza di qualsiasi scoperta verificata.
"Ancora quanto?"
Oltre a ciò, nel momento in cui diciamo che il futuro è incerto, sottintendiamo una verità elementare e a un tempo sbalorditiva: che la Creazione... è tuttora in corso. E dove accade la Creazione? Dovunque: anche con l'uomo e nell'uomo. È lo stesso divenire – alcuni la chiamano "evoluzione" –, e il divenire non si svolge nel tempo: è il tempo!


E mentre Nietsnie/Einstein faceva scattare il coperchio dell'orologio da tasca senza catena e sudava, il giovanotto Adolf Hitler si trovava a Vienna, ospite di un asilo per uomini il cui titolare risultava essere un certo Schlomo H., ebreo.
Malaticcio e sprovvisto di mezzi, Adolf raccontò a Schlomo H. di essere orfano; di aver fatto parte, a quindici anni, di un coro, in qualità di baritono; di aver letto appassionatamente i romanzi di Karl May (il Salgari di Sassonia). E si mise prontamente in luce quale disprezzatore della razza ebrea (non gli giovava affatto stare in compagnia di questi "mangiatori d'aglio"), individuo supernevrotico, potenziale suicida. Aprì le sue cartelle mostrandone il contenuto a quegli altri disgraziati che abitavano lì (mendicanti, alcolizzati, studenti squattrinati): acquerelli nello stile di un "realismo radicale", per definizione dello stesso Hitler.
I pezzenti facevano: «Oooh, aaah». Solo Schlomo H. si mostrava scettico.
«Forse ti trovi al cospetto di un genio e lo ignori!» gli diceva il giovanotto, risentito.
E l'anziano ribatteva, sorridente come una sfinge: «L'aglio è una pianta molto salutare. Il botanico svedese Carl von Linné l'ha classificata sotto le liliacee, insieme al giglio, al giacinto, al colchico. I celti chiamavano l'aglio 'leek', che significa qualcosa come 'spezie gustose'. Per i francesi è l' 'ail commun' o anche 'perdrix de Gascogne'. Per gli inglesi 'common garlic'. Nel Ticino lo chiamano 'ai'...»
Hitler si metteva a menare colpi alla cieca. «Largo! Fate largo! Lasciatemi respirare, razza di giuda!» I cenciosi fuggivano in tutte le direzioni per tornare poi verso le rispettive brandine. «Bavosi ignoranti! Non insozzatemi! E via dai miei disegni!»
Placidamente, Schlomo H. seguitava ad alitargli: «Anche i tedeschi ne mangiano in abbondanza. Erroneamente lo chiamavano in passato 'Lauch', dunque 'porro'. In Altdeutsch si chiama 'Clofolauh', che deriva da 'clobo' (spaccare, dividere; un riferimento agli spicchi scindibili). Nel Waldeck dicono 'Knuflook', in Vestfalia 'Knuflaw', nella Boemia settentrionale 'Knóbluch', in Baviera e in Austria, come sai, 'Knofel'. Nella Svizzera dicono 'Chnoblach' mentre in Alsazia è il 'Knöblich'...»
«Basta...» rantolava Hitler, gettandosi sul suo giaciglio, piangente, esausto.
«Generalmente vale la denominazione 'Knoblauch': persino per noi ebrei. Universalmente valido rimane comunque il latino 'Alium sativum'» proseguì Schlomo, alzando la voce e chinandosi fino al pavimento, sgualcendo senza ritegno gli acquerelli sparpagliati: con le mani, con le ginocchia, con i piedi.
Il giovane artista cercava disperatamente distrazione uscendosene la sera. Con le ombre si tramutava in un lupo... in un Wolf. Ma Vienna lo stancava e lo deprimeva. La capitale austriaca confermava la nomea di città allegra e dal sesso facile.
Un giorno lasciò lo scarno rifugio e si diresse dritto filato all'Accademia delle Belle Arti. Il suo scopo: ottenere uno stipendio. Il responso degli esaminatori fu peggio di una doccia fredda: «Caro signore» gli dissero, «a lei dovrebbe essere interdetto di dipingere tutto quanto non sia una parete di cucina».
L'avvilimento, insieme alla tbc, lo mise al tappeto. E chi si prese cura di lui? Schlomo H., titolare di uno di quegli ospizi dove si gela d'inverno e si arde d'estate.


Il piccolo uomo dall'alto Q.I. fu scortato fuori dal suo studiolo. I rappresentanti della stampa riempivano la sala delle conferenze; in mezzo a loro c'erano già gli sgherri della NSDAP.

«Ma non dovevo parlare alle sedici?»
Il gorilla che lo affiancava lo informò: «Ora sono le quattro».

«Del pomeriggio. Dunque le sedici...»
«Dobbiamo rimandare? Facciamo alle sedici e trenta?»
«Vuol dire... le quattro e mezza?»
La guardia del corpo non aggiunse altro. Einstein, dal suo pulto, guardò i portavoci del mondo scientifico (non numerosissimi), i professori interessati e i lacchè, i segretari, i contabili, i tecnici, fiduciari del governo e del capitale.
Qualcuno si mostrò stupito che lui non avesse appunti con sé. Come mai?
Tutti volevano sapere cose assurde. «Non ne ho idea. Voi volete sapere da me l'ora...»
In realtà non glielo aveva chiesto nessuno.
«... e io posso rispondervi solo che tutti quanti siamo nuovamente con un piede dentro le caverne, all'Età della Pietra.»
«Nervoso?» gli chiese un professore.
«Normale! C'è la guerra.»
«Ma dove?»
«Laggiù. Là dietro. In Turchia... mi sembra.» E anche da noi, ribadì mentalmente.

Principiò la sua lezione, andando alla lavagna. No, non aveva bisogno di appunti. Mozart si scriveva in testa concerti interi... Scribacchiò un paio di formule, pensando: "Vogliono sapere quant'è relativo il loro tempo. Io l'ho capito, ma come spiegarglielo? Se non lo capiscono da sé... Bevono e non realizzano che l'acqua è composta da due gas".
Il gesso scricchiolò, lui si asciugò il sudore.
«Nell'Oceano Pacifico» rifletté a voce alta «c'è il meridiano... una linea invisibile, dunque... presso cui cambia la data.» Era difficile. Era come in Hölderlin: l'abisso tra il mondo dell'esperienza sensibile e quello dei concetti e delle parole è invalicabile. Si ricordò allegramente di qualcosa che aveva letto pochi giorni prima su un giornale: uno scienziato teorizzava che la Terra, vista dal cosmo, deve apparire rossiccia. E questo perché la sua atmosfera assorbirebbe l'azzurro dello spettro di luce.
Bislacca prospettiva...
"Che ora è?" tornò a chiedersi. "È già l'ora? O c'è tempo?"




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