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mercoledì, settembre 18, 2019

La morte felice

Contenuto in: Incesti rossi, racconti

(di franc'O'brain.


#eBook)



La morte felice

Ancora non si è spenta la deflagrazione nel tuo cranio. Una bomba? Il terremoto? Ogni cosa ti è cascata addosso, fracassandoti le membra e la testa, squarciando i pensieri e il cuore.
Sai che è finita, finita per sempre, ma in fondo non te ne dispiace. Nascosto in questo claustro, in questo rifugio di macerie, puoi guardare nelle latebre della tua anima, passare in rassegna sogni finalmente chiari. Prima del sonno liberatorio.
Dormire. Dormire. Essere libero da legami spazio-temporali.
Tutti i tuoi avi ti giacciono al fianco, ti fanno cenno di raggiungerli, ti tirano gentilmente per un braccio. Ma tu non puoi muoverti. Le tue tempie sono state trapassate da un tubo di piombo, le tue ginocchia si sono fuse con un masso di alabastro, i tuoi denti si sono incagliati su una trave.
Da come un soffio ti scivola silenzioso sulla fronte, capisci che una ferita si è aperta nella terra. Hai nelle narici il respiro di latrine sventrate. L’unico tuo occhio buono, e senza palpebra, si è incastrato in una fessura nebbiosa, da dove puoi osservare il cielo che pende storto.
Tutt’attorno c’è forse chi urla, chi piange, chi sussurra, ma tu non odi. Avverti appena il ribollio del mucopus che, sgorgando dalle ghiandole, si fa vettore del liquido ematico.
Sei un ammasso di ossa che stillano ghiaccio organico. Non riesci nemmeno a far guizzare un muscolo, immobilizzato in un dolore che non finisce mai. Questo dolore! È una pulsazione ad alta frequenza: ora sale, ora scende. È come la schiuma di un’onda che si spacca su uno scoglio.
Possiedi comunque la luce di visioni prima ignote, chimeriche, lo splendore al laser di costellazioni non più prigioniere, e senti che, addormentandoti, planerai sui cerchi saturnini di una realtà fatta a pezzi.
C’è chi latra, ma non è sopra o sotto di te.
Dormire...
Ti tirano per un braccio, ma rimani immobile. Solo l’alito puzzolente degli Inferi ti agita i capelli.








martedì, ottobre 03, 2017

La Trabanteide - racconto online

(in onore dell'Unità Tedesca)


***





Peter Patti

 

L A      T R A B A N T E I D E



Nell’aprile del 1990, Hans Aberle si apprestò a compiere il suo primo viaggio verso il capitalismo.
Hans, capo turno di cella frigorifera in un’industria di alimentari di Grimma, era solito incontrarsi con i suoi amici nella locanda Testa di leone, dove, con l’appressarsi della stagione calda, la discussione si accentrava sempre più sulle ferie da andare a trascorrere possibilmente nella Germania Ovest.
«Quattordici giorni, forse tre settimane per visitare i miei parenti “dell’altra parte“ e poi torno», sentiva gli altri dire.
Soprattutto, vaneggiavano di acquisire questo o quel bene di consumo che finora era stato fuori dalla loro portata: interi caschi di banane, un videoregistratore, un’automobile potente e scintillante... Intanto però la loro paga rimaneva modesta, mentre i prezzi si catapultavano alle stelle.
La Cortina di Ferro era caduta sei mesi prima, causando la chiusura di molte fabbriche dell’ex DDR. L’oste del Testa di leone (già Taverne Marx & Engels) non concedeva più crediti, e non è che la birra avesse un sapore migliore solo perché Grimma apparteneva ora alla Repubblica Federale Tedesca. Così, gli amici di Hans finivano spesso con lo stancarsi delle consuete fantasticherie e, amareggiati, stavano a rimuginare in silenzio tra i fumi dell’alcol, prima di tornarsene a casa: chi a piedi, chi in bici e chi col Trabant.
Il Trabant è l’unico veicolo che fu prodotto nella Germania Orientale, e per decenni rappresentò il fondamentale oggetto di culto di quello che fu, per autodefinizione, il "socialismo realmente esistente“.
Per Hans, gli incontri al Testa di leone si andavano vieppiù trasformando in un’esperienza triste e tormentosa. Quei volti grigi, affranti, depressi! E gli scambi di battute senza cuore, scolorite!
«Buonasera.»
«Forse.»
La tavolata, un tempo spensierata e rumorosa fino a sfiorare l’osceno, assomigliava ormai a un’adunata di becchini a lutto. Voglia di parlare, confidarsi, sfogarsi. Ma spesso le bocche rimanevano chiuse. Volevo dire... Sì, continua! No, di’ tu! Dica lei! Non volevi...? Pensavo che fossi tu, che fosse lei, che... Con sfumature di imbarazzo.
L’oste si spazientiva: «Ehi! Nessuno ordina un’altra birra? Non avete sete nemmeno stasera, eh?»
Poteva capitare, ovviamente, che ogni tanto si sviluppasse una conversazione normale, o l’abbozzo di una conversazione:
«Sapete chi ho incontrato? Il Dieter. È tornato ieri con la moglie. Ora vivono a Brema. Staranno qui tre giorni e poi se la squaglieranno di nuovo. Sono venuti in BMW...»
«Ma va’ là. Com’è che il Dieter ci ha il biemmevù, che l’è via solo da sei mesi?»
«Lo sappiamo tutti che l’è via solo da sei mesi, che stai a contarcela? Ma io non ci ho mica le patate sugli occhi e l’ho visto bene il Dieter dentro il suo biemmevù . Ci ho parlato pure!»
«Beh, e a noi che ce ne cala del biemmevù?» interloquiva Hans.
Occhiate incredule si posavano su di lui. «Che ce ne cala, dici? Quella sì che l’è una signora macchina, mica i nostri Trabbi
“Trabbi“: diminuitivo di Trabant.
«Ma finitela, che il Trabbi l’è proprio ottimo e ci ha pure la pelle più dura di tutte quelle automobili “dell’altra parte“», perorava Hans.
Un circolo di facce diventava un circolo di facce che si scuotevano da destra a sinistra a destra a sinistra a. «Hansi, caro Hansi, sùzzati mo' un’altra bionda che così ci fai un piacere al Leone e ci lasci in pace pure a noi con le tue strullate.»
E “Hansi“, ubbidiente, suzzava la sua bionda e non aggiungeva altro.
A lui il Trabbi non dispiaceva punto. Benché a quest’automobilina affibbiassero di continuo epiteti offensivi (“elettrocartone“ era solo uno dei numerosi nomignoli), era fiero di possederne una.
Per chi non ha mai avuto la ventura di imbattersi in un Trabant, spiegheremo qui che si trattava di una piccola utilitaria dall’aspetto austero e nel contempo sbarazzino, una scatoletta le cui intercapedini erano imbottite di matasse di cotone e altro materiale non bene identificato. Quando nella Repubblica Democratica Tedesca fu avviata la produzione in serie del “modello popolare“, le strade dell’emisfero occidentale erano solcate da quattroruote altrettanto minuscole: i maggiolini della Volkswagen, le Cinquecento con gli sportelli che si aprivano controvento, Mini Morris, Messerschmidt e persino BMW dall’abitacolo angusto e la linea breve. Nella forma e nelle dimensioni, dunque, il Trabant rispecchiava lo standard di quegli anni (il primo satellite sovietico aveva appena cominciato a gravitare intorno all’orbita terrestre... “Trabant“ significa, appunto, “satellite“). Il suo design veniva giudicato «elegante e armonioso».
Ma l’epoca del maggiolino, della duecavalli e di altre vetture a formato ridotto era tramontata da un pezzo, e intanto il Trabbi non mutava di un iota. Certo, la vetturetta della DDR vantava eccellenti valori di frenata e di accelerazione, ma non offriva nessunissimo comfort; per tacere del fattore sicurezza, che era uguale a zero: uno scontro frontale a 40 km/h bastava perché si fracassasse completamente.
A partire dagli anni Ottanta, voci maligne provenienti dalla Germania Ovest imputarono al Trabant addirittura la responsabilità maggiore per i malanni che affliggono la natura. Comunque fosse, Hans Aberle rimaneva indifferente alla congerie di chiacchiere. E, ora che la Guerra Fredda era finita, era più che mai deciso a lasciarsi alle spalle la Turingia e la Sassonia. A bordo del suo Trabant.



Le ferie arrivarono e lui, come annunciato, si mise in viaggio. Imboccata l’autostrada nei pressi di Karl-Marx-Stadt (una città che era in procinto di riacquistare il suo antico nome: Chemnitz), si diresse per prima cosa a Gera. Gera rappresentò una sorta di bivio: da lì avrebbe potuto continuare per Jena, Gotha e Eisenach, e invece preferì l’altra soluzione, quella che lo portava a Hof e che era anche la via più breve per accedere alla Germania Occidentale dal vecchio territorio della DDR.





...

sabato, giugno 08, 2013

Ecco tre mie novelle...

... (o romanzi brevi; o racconti lunghi...) che val la pena leggere: Dossier Qonk, Hotel Biancaneve, Pac Man.


Durante la Riunificazione delle due Germanie e il Crollo dell'Impero Rosso, un cittadino della DDR ne passa di brutte.



Veniamo al mondo senza sapere dove né come. Poi, sta al mondo doverci accettare...



Conoscete il fenomeno della morte apparente? E' un evento shockante; soprattutto per i redivivi. Pochi lo sanno, ma esistono istituzioni nate appunto per rieducare questi disgraziati "zombi" alla vita sociale. L'Hotel Biancaneve è uno di questi particolari ostelli.

sabato, febbraio 09, 2013

Remembering Asparokov

Chissà che fine ha fatto Saverio!
Questo mio cugino milanese venne in visita da noi, con i suoi genitori, nell'estate dei miei sedici anni. Non so che cosa si aspettava di trovare: forse un'accozzaglia di poveri ignoranti; e io naturalmente sarei stato il pulcino più dimesso e più deficiente della tribù. Invece quella fu per lui la stagione più sorprendente della sua vita; e forse la più bella.
Dopo aver appurato che non eravamo i "terún" che aveva creduto di incontrare, si spaparazzò nel nostro appartamento e saggiò subito le mie conoscenze culturali. Scoprimmo di avere tanti interessi in comune, e gusti non dissimili. La passione per i libri e per il rock, ad esempio. Lui mi iniziò alla musica di Neil Young, io gli fornii la chiave per entrare nell'universo dei Genesis. I Pink Floyd e Thomas Pynchon li scoprii grazie a lui, lui scoprì Henry Miller e Anthony Burgess col mio apporto.

Purtroppo, Saverio aveva un qualche complesso di inferiorità che lo spingeva di continuo a doversi affermare sugli altri, perfino nelle occasioni meno opportune. Vedeva un avversario in chiunque: anche un bambinetto poteva risultare temibile ai suoi occhi. Si accaniva a voler dimostrare la propria presunta superiorità pure quando sarebbe stato più saggio mettersi in disparte lasciando un po' di respiro al prossimo. Gli insegnai le regole degli scacchi e, subito dopo averle fatte sue, pretese di vincere ogni partita. Se non ci riusciva, metteva su una faccia da funerale. Ogni cosa per lui si trasformava in una gara, in una sfida, in un confronto armato; la vita stessa era un'unica, interminabile battaglia. Da me imparò a rilassarsi un po', a sorridere, e a discutere come un essere umano invece che come un robot frigido; ma non sono sicuro che il mio esempio gli abbia modificato definitivamente il carattere. In fondo, lui abitava in una città in cui la competizione è ragione stessa di vita... Comunque, in me trovò qualcosa di più di un buon parente: trovò un amico. Gli prestavo gli albi di Alan Ford e non me la prendevo troppo se "dimenticava" di restituirmeli. Ogni giorno era per noi un giorno di felicità e di spensieratezza.

Quell'estate, ovunque fossimo - al mare o nel cortile della nonna -, fu costellata di episodi divertenti e risate a crepapelle. Saverio si cibava praticamente di solo parmigiano (ne mangiava a chili), io di aria e di... esprit artistique. Quando gli venne la varicella, gli altri lo evitarono come fosse un appestato, mentre io ero l'unico a tenergli compagnia, ignorando a bella posta il pericolo di contagio.
Dopo che se ne fu tornato al Nord, iniziammo una fantastica corrispondenza, che durò anni. (Dovrei avere ancora alcune delle sue lettere, da qualche parte.) Fondammo perfino una rivista dal nome Fall Out, piena di critiche d'arte, di recensioni e di articoli a sfondo filosofico (lui era seguace di Auguste Comte, io propendevo per Marx e Bakunin).
L'estate che seguì la sua prima, storica visita, ci recammo in campeggio a Linosa. Convinsi Roccus, il mio "gemello" degli anni d'oro, ad accompagnarci. Il nostro soggiorno sull'"Isola delle Tartarughe" (da Roccus ribattezzata, non a sproposito, "Isola dei Ramarri") fu tanto piacevole quanto, purtroppo, allucinante. Quasi un paradigma della nostra esistenza futura. Ma questa è un'altra storia.
Per tornare al mio primo incontro con Saverio: dopo che scoprimmo di possedere entrambi velleità calcistiche (anche il suo cuore era neroazzurro), ci dilettammo a usufruire di ogni spiazzo libero per giocare al pallone. Un giorno, su un litorale sabbioso, mentre ci scambiavamo passaggi da trenta metri, mi chiese a bruciapelo: «Lo sai chi è Asparokov?»
«Certo», ribattei. «Il centravanti della Bulgaria.»
Questo sembrò stupirlo piacevolmente, più di tutto il resto. «Però! Ma guarda il cugino...» esclamò. O, più precisamente: «Talèèèè 'u cusci'...»



Poco dopo aver compiuto il mio diciottesimo anno d'età, mi invitò a casa sua. Presi il treno e andai a Milano. Con mia sorpresa, scoprii che Saverio frequentava il circolo parrocchiale di quella sordida periferia («altrimenti non incontri nessuna ragazza») e che montava una moto di - suppongo - piccola cilindrata. Una 'Caballero'. Pazze corse per il centro della metropoli, con me in posizione precaria sul sedile posteriore. Una volta, mentre stavamo fermi a un semaforo, ci si accostò un'automobile con dentro tre burloni. Ci guardavano ridendo, e ad un tratto uno di loro interpellò mio cugino così: «Olà, Caballero! Tu spagnolo?» Inspiegabilmente, Saverio si oscurò in volto, e per tutta la giornata non ci fu verso di fargli passare il nervoso.

Non credo che fosse felice. Sua madre lo teneva sotto torchio, gli imponeva di abbassare il volume del radioregistratore (suonava fino allo sfinimento Déjà-Vu di Crosby, Stills, Nash & Young o Ummugumma dei Pink Floyd), di spegnere la luce, di lasciare in pace la sorella, ecc. Lo trattava alla stregua di un fannullone. Di questa mia zia mi è rimasto un ricordo indelebile soprattutto perché, alla vigilia della mia partenza, mi cacciò in mano, quasi a forza, una banconota, dicendomi di andare a comprarmi un paio di pantaloni nuovi (ero andato là con un solo paio di jeans). Il ricordo di quella scena riesce a imbarazzarmi ancora oggi.

Sono trascorsi eoni da allora, e io ho fatto - letteralmente - tanta strada, mentre mio cugino, che pure sognava di altre terre e addirittura di altri continenti («Frank, rasiamoci la testa e andiamo in un monastero del Tibet!»), è rimasto ancorato alla sua esistenza piccolo-borghese (dopo il diploma è andato a lavorare nella stessa fabbrica dei genitori...). Non sono state l'età e la distanza fisica a separarci, ma i destini differenti. Ancora oggi, ogni tanto, mi sorprendo a chiedermi, nei momenti più strani:

Chissà che fine ha fatto Saverio!



venerdì, gennaio 25, 2013

E' uscito 'Short Stories', n. 13

SHORT STORIES 13, GENNAIO 2013, già disponibile in versione cartacea:


http://www.innovari.it/scss.htm

Short Stories è una rivista antologica illustrata di letteratura fantastica. Il numero tredici ha come tema i risvolti oscuri di ciò che chiamiamo Amore. Uno dei racconti ("Fulvia") è di franc'O'brain...

venerdì, maggio 18, 2012

Ora su Amazon - 'Transits'

 Un giovanotto viene assunto in una ditta importante ("la" ditta, ormai...) e deve confessare a se stesso di non meritarsi tanto onore. Tanto più che non sa proprio che fare, dentro a quel comodo ufficio che gli hanno assegnato con, nella stanza accanto, una splendida segretaria personale. Così, comincia a esercitarsi con i videogiochi...   L I N K

Per chi volesse leggere (gratis) la versione alleggerita, e duque non il romanzo bensì il suo "imprinting", ovvero la novella Transits in versione .html, il link è questo.

sabato, dicembre 25, 2010

"Erano pezzenti prima, sono pezzenti anche ora"

IL CUGINO POVERO


Io Hans Kunze me lo ricordo. Oddio, proprio bene bene no, ma in fondo era mio cugino e ha vissuto sotto il mio tetto per quasi due mesi prima che riuscissi a procurargli un lavoro e un appartamento. L’appartamento era locato nella parte opposta della città: in questo fui assai furbo.
Hans aveva le lacrime agli occhi quando nel marzo 1990 bussò alla mia porta. Era vestito come un pezzente ma la sua faccia era allegra e amava parlare molto. Dopo appena due ore mi sentivo i nervi a pezzi e finii per odiare il suo dialetto, che sulle prime avevo trovato tanto buffo. Mi raccontava di cose che non capivo del tutto e che a dire il vero mi interessavano poco: “Honi” (Honecker, il loro Grande Capo), le riunioni di fabbrica, la Stasi (la polizia segreta), ecc. Nel tentativo - vano - di ammortizzare la sua loquacità, lo portai a spasso con la Mercedes e lo rivestii da capo ai piedi, godendo delle sue esclamazioni di meraviglia per questo nostro bel mondo, tanto ricco di merci, insegne colorate, vetture di tutte le marche, semafori funzionanti e prati curati.
Dopo un paio di giorni ero già stufo di lui e perciò provai un gran sollievo quando potei finalmente scaricarlo.

         
Iniziò a fare l’aiuto-magazziniere in un supermercato e, ogni volta che mi telefonava per lamentarsi del principale e dei colleghi (“Qui è peggio che da noi! Fanno le spie come agenti della Stasi…”), non mi lasciavo sfuggire il piacere sadico di mozzargli la lingua con un: “Benvenuto all’Ovest!”
Volevi il capitalismo? Volevi abbondanza, libertà di muoversi e viaggiare, una televisione con cinquanta canali? Ebbene, tutte queste cose devi imparare a guadagnartele!
Hans Hans Hans… Che ne sapevo io che era un artista! Per me era solo il tipico parente dell’Altra Parte. E ora voi venite qui e mi chiedete di lui, dite che volete scrivere una biografia… Io so solo che aveva un accento della Sassonia da potersi tagliare con il coltello e che era privo di stile, sia nel vestirsi che nel comportarsi. Guidava un Trabant che poi sono riuscito a vendere a un francese in caccia di reperti del Realsozialismus, e un po’ di tedesco come si deve glielo ho insegnato io. Come? Voi dite che è stato un grande scrittore? Non lo so… Ho i miei dubbi, sinceramente. Io so solo che cambiava un posto di lavoro dopo l’altro perché si sentiva sfruttato, preso in giro, e non andava mai d’accordo né con i superiori né con i compagni di reparto…

A questo punto devo aprire una parentesi per rinfrescare la memoria storica di tutti noi.
Il 7 ottobre 1989 la DDR compiva quarant’anni. Circa un mese dopo i cittadini della DDR prendevano d’assalto il Muro e lo scavalcavano, passando da quest’altra parte.


                                     



Noi del “ricco e dorato Ovest” guardavamo lo spettacolo live con stupore misto a sgomento. Certo, anche loro erano tedeschi ed era giusto quindi che ci raggiungessero, visto che ne avevano così tanta voglia. Ma non così numerosi, non tutti in una volta e, per Dio, non a costo dell’annientamento dello Stato comunista, che tipi come me hanno sempre considerato una salutare controparte del nostro sistema economico.
Carovane di Trabant, macchinette costruite nell’Altra Parte, intasarono le nostre autostrade, le strade statali, le provinciali. In ogni singolo Bundesland ai nostri dialetti se ne mescolarono di nuovi che i più giovani di noi non avevano mai sentito.
Questo esercito di parenti poveri era disarmante nel suo ingenuo e incontenibile entusiasmo. D’accordo, si trattava di persone cresciute in condizioni molto particolari, ma venendo qui si aspettavano chissà che cosa!
Prima ancora che i “picchi muraioli”, ovvero i venditori di souvenirs, distruggessero completamente il Muro per smerciante i frammenti più colorati, molti tedeschi della Sassonia, della Turingia, del Brandenburgo ecc. piantarono le tende nei nostri liberi territori, illudendosi di potervi mettere radici.
Se ora li odiamo è anche perché, con la Caduta del Muro, ci è venuta a mancare un’utopia fondamentale. A parte ciò, anche i pesci hanno qualcosa di magico e misterioso, finché non li teniamo tra le mani e scopriamo che puzzano.
D’altro canto, però, noi abbiamo potuto invadere l’Est con i nostri innumerevoli prodotti, che ormai non sapevamo più a chi appioppare. Un sacco di altra gente era lì che aspettava con il becco spalancato, similmente a uccellini che hanno appena spaccato il guscio dell’uovo. Che amara sorpresa che hanno avuto quando gli è caduta addosso una valanga di merda!
Video World, Hair Boutique, McDonald’s… l’omologazione è incominciata fin da subito. Almeno per quanto riguarda le insegne e le cose da bere e da mangiare, li abbiamo occidentalizzati immediatamente. Per il resto, come detto: “mission impossibile”.
Erano pezzenti prima, sono pezzenti anche ora. Solo che oggi almeno vanno in giro vestiti come i nostri poveracci e non come quelli della Bucovina o di Vladivostock!    

Erano dei ritardati dell’Economia, mentre noi avevamo perso di gran lunga ogni traccia di moralità. Abbiamo scaraventato sulle loro teste montagne di cose inutili, ingoiando solo qualcosina dell’immondizia socialista: scorie carbonifere e scarti tessili che una volta andavano a ruba in Bulgaria, in Cecoslovacchia, in Jugoslavia. Lo abbiamo capito sull’istante: “Di questi qui ne facciamo un sol boccone!”
Chi aveva zii e cugini dell’Altra Parte ha dovuto dapprima accoglierli e, dopo tre giorni, spalancare la finestra per fare uscire il cattivo odore. Un mucchio di seccature, come trovargli al più presto un alloggio e un lavoro; insomma: la mia esperienza con Hans è tipica di molti altri tedesco-occidentali.
Avevano tutti imparato una professione a spese dei Rossi. Erano tutti ingegneri e professori, e chi non lo era, sapeva quantomeno montare e smontare aggeggi oppure imbiancare una parete. Purtroppo c’era questo problema della lingua. Con la bocca erano addirittura più imbranati degli stranieri. E, poco dopo la cosiddetta Riunificazione, i loro rampolli hanno preso a bruciare le case dei turchi e ad ammazzare per strada negri e asiatici, che fino ad allora erano stati i nostri fedeli schiavetti. Abbiamo avuto davvero un sacco di grane per colpa loro!
 
No, Hans figli non ne aveva, a quanto ne so. Voi mi dite che non si è mai sposato… Beh, lo ignoravo. I nostri contatti sono andati via via allentandosi, fino a interrompersi del tutto. Ma com’è morto? Ah, crepacuore. Peccato: lui che era sempre così vivace, così entusiasta…! Ma solo nei primi tempi, chiaro. E che libri scriveva? Romanzi? Okay, vi prometto che ne comprerò uno e cercherò di… Come dite? “La più importante voce dell’Unità Tedesca”? Mah, sentite: se proprio vogliamo parlare di “voce”, la sua ce l’ho ancora nelle orecchie e anche dopo tutti questi anni continua a risuonarmi dentro la scatola cranica e vi assicuro che non è affatto una sensazione piacevole. No, non criticate il mio atteggiamento e statemi ad ascoltare! Ora abbiamo la crisi e di chi è la colpa? E’ di chi ha voltato le spalle al comunismo! Stavamo meglio prima, con il presunto nemico dietro l’angolo. Eravamo in competizione con un altro sistema e i politici dovevano dimostrare che il nostro era più umano. Come? No, certo che non sono comunista! Io credevo nel liberalismo. Ma guardate che cosa hanno fatto i padroni del vapore e i loro manager fighetti da quando sono crollate le barriere! E inoltre la Cortina di Ferro serviva per farci sognare. Era come un film in cui ciascuno di noi sapeva di poter entrare in ogni momento, se solo avesse avuto un pizzico di coraggio: un passettino da questa parte all’altra, ed ecco sbocciare una storia d’amore con qualche bella russa o ungherese, che ora invece fanno quasi tutte le puttane da noi. Era come ne La spia che venne dal freddo, se è questo il titolo giusto. Perché tanta ilarità? Sto forse dicendo sciocchezze? Io Hans l’ho aiutato a sistemarsi anche se nessuno mi costringeva a farlo. Tutto il “senso di solidarietà” di cui si faceva un gran parlare io non l’ho mai posseduto. E’ stato Kohl, quel grassone d’un cancelliere, a combinare il pasticcio. Potevano aprire i confini pur mantenendo due Stati differenti, e invece l’ingordigia ci ha fregati, come al solito. Kohl ha incorporato la DDR per aiutare i suoi amici ricchi. Dirò di più: lui, Kohl, in qualche modo era più furfante di Honecker e di tutti gli altri alti funzionari della SED messi insieme… Oh Dio, sto usando la stessa terminologia di Hans… Comunque sia: guardatemi ora! Alla mia età mi ritrovo disoccupato e senza sapere dove andare a sbattere la testa! E di chi è la colpa, se non… ?
Eh? Diritti d’autore? Sì, sono l’unico parente che Hans Kunze aveva, credo. Il copyright sui suoi libri? Davvero? Spetta a me? E questi libri si vendono? Ah, ora che è morto si vendono bene. Capisco. Beh, fortunato non lo è stato mai…
Oh, sicuro: io Hans me lo ricordo, me lo ricordo bene. Un bravissimo ragazzo, con tante, tantissime qualità. Non mi sono mai pentito di avergli dato una mano. Ma… a quanto ammonta la cifra?
(…)
Un ragazzo perbene, anzi perbenissimo, sul serio.






domenica, ottobre 05, 2008

Il precario

La ruota gira, gira, gira... Sopra c'è il cielo di un blu ellenico, segato dalla 'silhouette' di un uccello che stride; sotto ci sono fili d'erba elettrici, e anch'essi stridono. E la ruota gira, gira...

Quel giorno, uscendo, Vanz [Venanzio] ebbe un trip bestiale: vide gente attaccata a strani aggeggi, forse minicomputer con cuffie. Non capì. Probabilmente non avrebbe mai capito. Uguale se si trattava di apparecchi comunicatori o per la ricezione di musica: lui non avrebbe mai permesso che il suo cervello venisse shakerato da tanto elettrosmog in una sola volta. Aveva, del resto, altri problemi. Ma non era il solo, come gli suggerì il suo trip: altri si affrettavano verso un appuntamento non dissimile da quello verso cui lui stava andando, in un qualche ufficio-sgabuzzino del Centro Controllo Lavoro. Alcuni - i più, in verità - gironzolavano a coppie o a gruppi, fermandosi ogni tanto di botto per tirare fuori l'aggeggio portatile e gettare uno sguardo al display.
Mentre raggiungeva l'automobile, Vanz si volse indietro: aveva l'impressione che qualcuno lo pedinasse, e che quel qualcuno non potesse essere altro che il suo amico o presunto tale Dario. Si fermò addirittura per scrutare meglio tra le facce e non-facce, tra i corpi e gli ectoplasmi che affollavano le strade. Ma di Dario nessuna traccia. E perché poi l'amico o presunto tale avrebbe dovuto seguirlo? Lo ignorava. Presumibilmente la sua era solo paranoia, l'inizio di qualche forma di pazzia...
Entrò nel Centro Controllo Lavoro pensando a Dario, che tra l'altro abitava a due passi da lui, e a come Dario per anni avesse fatto il filo a Rosalba, prima che lei si decidesse a mettersi con Vanz. L'amico o presunto tale non sembrava averne fatto un dramma. "In fondo è una fortuna che stia con te anziché con qualche stronzo idiota" aveva commentato. In diverse occasioni erano persino usciti insieme, tutt'e tre, e Dario aveva riso e scherzato; per strada, in pizzeria... Parevano ormai secoli! Dario era sempre stato pronto ad accompagnarli in macchina qua e là... Aveva, insomma, allargato sui due innamorati le sue benevole ali, ali leporelline. Ma Vanz aveva notato nell'amico o presunto tale attimi di perplessità astio rancore. Quello lì aveva ali pipistrelline, piuttosto, altroché! Aveva colto, soprattutto negli ultimi tempi dell'idillio o presunto tale, sguardi sfuggevoli tra Dario e Rosalba...
- 45! - urlò la voce dell'impiegata.
Era il suo numero, ma non si mosse.
- Che c'è? Cos'hai? Stai male? - gli chiese qualcuno. Quel qualcuno, insieme ad altri individui presenti nella vasta, fredda sala d'attesa del CCL, Centro Controllo Lavoro, puntò gli occhi addosso a Vanz. Lui, che aveva bretelle stars-and stripes e un berretto con su scritto 'I love N.Y.', non diede risposta. Se ne stava sulla sua sedia a stringere tra le dita il bigliettino con il numero che avevano appena chiamato.
- Ma cos'ha? - chiese l'impegata facendo capolino dalla porta, rivolta agli altri disoccupati in attesa.
- La vita lo ha stancato - rispose un uomo sui cinquant'anni; lui stesso aveva un volto che esprimeva rassegnazione.
- Se è stanco, dovrebbe tornarsene a dormire - osservò la donna, acida. Poi ripeté, istericamente: - 45!
Vanz continuò a non muoversi.
- 46! - esclamò allora lei, e un altro disgraziato, sventolando il bigliettino corrispettivo, si mosse verso la porta aperta.
L'impiegata lo fece entrare e l'uscio sbatté.
Il cinquantenne sospirò, alzandosi. Pian piano, si avvicinò al pallido ragazzo che, tra i risolini, gli sbuffi e i commenti ironici dei vicini di sedia, proseguiva a fissare inespressivo la parete dirimpetto, tappezzata con poster dall'aria vagamente sovietica che reclamizzavano i vantaggi di questa o quell'altra scuola professionale. - Tutto bene? - gli chiese il cinquantenne, ponendogli una mano sulla spalla.
Vanz sembrò non udire. Ma avvertì il contatto di quella mano e, spettralmente, si sollevò e si incamminò verso l'uscita.
- Ehi, ma dove...?
Fuori era estate. Tanto sole e un leggero vento. La città brulicava di presenze variopinte. Soltanto la facciata del palazzo in cui era locato il CCL si innalzava grigia e cadaverica. Il ragazzo si trascinò come trasognato lungo un marciapiede in ombra, fino a raggiungere l'auto parcheggiata. Tirò fuori le chiavi da una tasca dei calzoni, aprì la portiera e, toltosi il berretto, si mise al volante. Per una buona mezz'ora l'auto seguì il traffico del centro; poi si lanciò a manetta sulla superstrada, con i finestrini laterali abbassati.
120... 140... Poteva andare più veloce? Veramente non lo sapeva. Veramente questa non era la sua macchina: gliel'aveva imprestata suo padre. E veramente gli era indifferente sapere quanto indicava il contachilometri: tanto, non sarebbe mai stato tanto veloce da poter riacciuffare i suoi sogni.
Oh, e che sogni! Aveva delirato di un mondo tutto verde con il cielo azzurro e il mare pieno di pesci, e una capanna su una scogliera, e dentro la capanna lui e Rosalba, oppure un'altra ragazza come Rosalba. Una vita tranquilla, sana e, sopra a ogni altra cosa, al sicuro dalla 'longa manus' dei potenti. Invece...
Invece era stato catturato dagli ingranaggi del sistema. Dopo aver interrotto gli studi universitari per non dover più sentire suo padre lamentarsi di quanto gli costava mantenerlo, si era adoperato per trovare un lavoro, uno qualsiasi. Del resto, anche Rosalba aveva fatto pressione affinché lui si sistemasse. Quanti anni aveva avuto quando si era buttato a capofitto nello stravagante show della "vita"? 21, 22. Ora ne aveva 26. Aveva alle spalle un lungo precariato, con tutto quanto ne consegue: la vergogna, l'infamia e le offese dentro e fuori squallidi uffici che non servono a nulla. O, per essere più precisi, servono proprio a questo: a tenere a bada i perdenti cronici, a non far alzare troppo la cresta ad eserciti di illusi.
I suoi sogni: tutte frottole! Nessuno poteva aiutarlo. I cosiddetti consulenti delle agenzie interinali: personaggi truffaldini pieni di prosopopea. Amici ed ex commilitoni: narcisi che si approcciano al magma caotico dell’esistenza con l'entusiasmo di pasciuti zombi. Finanche quel buono a nulla di Dario era riuscito a "sistemarsi": faceva le consegne per una ditta di elettrodomestici e oggi era fiero possessore di una carta di credito.
Vanz non possedeva nulla e non aveva nessun posto dove andare. La "magione" paterna, in cui lui così malvolentieri si rifugiava dalle iniquità del mondo, non era che una una gabbia sospesa tra cielo e terra; ottavo piano di un casermone popolare, con il traffico della vicina circonvallazione che faceva tremare le pareti e onde di cherosene che arrossavano le nuvole impigliatesi sulle antenne, sui trasmettitori, sui ripetitori. Non aveva un bel niente. Nemmeno Rosalba era più presente (e forse, per davvero, a quest'ora lei e Dario formavano una coppia); il ricordo dell'amata: polvere di sborra sul maglione.
Ma c'è, o potrebbe esserci... qui, oltre la periferia della periferia... guarda quella prateria in miniatura, ad esempio!... c'è, o potrebbe esserci, in mezzo a questi flash che ogni tanto lui coglie con pupille tenebrose... un'oasi dove andare, dove nascondersi, per non dover più sentire il genitore chiamarlo "lavativo".
Occhieggiando nello specchietto retrovisore, si accorse che un furgone grigio gli si era attaccato alle costole, o più precisamente al cofano. Vanz accelerò sensibilmente per scrollarselo di dosso, ma il pedinatore non mollò la presa. Un senso di panico si impossessò di lui nel riconoscere la faccia che, dietro il parabrezza scuro, gli ghignava sardonicamente.
"Dario!"
Nessun dubbio ormai: la sua presunta paranoia aveva finalmente un nome. Ma che diavolo gli era preso al presunto amico, al compagno di giochi dell'infanzia, al vicino di casa che negli ultimi mesi, anzi anni, si era reso latitante e che probabilmente gli aveva soffiato la donna che prima Vanz aveva - in un certo senso - sgraffignato a lui? "Ce l'ha con me? Spia tutti i miei movimenti?"
Diede ancora più gas e dopo qualche minuto il furgone iniziò gradualmente a rimpicciolirsi nello specchietto.
"Uff! Maledetto...!"
Asciugandosi il sudore, tornò a concentrarsi sulla strada. Alla sua destra apparve all'improvviso un luogo straordinario, a lui sconosciuto: una cittadina, anzi un borgo; un borgo cristallino, sviluppato nel classico nucleo detto a “cuneo” o a “fuso d’acropoli” su uno sperone tufaceo, con il castello nel punto più alto a farne da testata.
Infilò l'uscita quasi senza rallentare. "Ecco il posto dove voglio vivere" si disse, percorrendo la salita. Un paese antico, quasi completamente tagliato fuori dai retaggi della modernità. Scegliersi come abitazione una baracca, per chiudersi in un fortilizio di sconoscenza voluta, in un silenzio denso come la melma...
All'improvviso, una curva a sinistra, nemmeno tanto stretta. Chiunque altro l'avrebbe imboccata agevolmente, ma non a 80 o a 100 all'ora.
La macchina si cappottò. Si ribaltò dapprima sull'asfalto, poi nel maggese. Una, due, tre volte. Il cranio di Vanz si infranse mentre la sua autovettura, o meglio l'autovettura paterna, si riduceva a un ammasso di lamiere contorte ancor prima di entrare in fase di rullaggio. Finalmente la macchina si fermò: stette per qualche secondo in sospensione cardanica e poi si capovolse con le ruote oscenamente all'aria.
Le folate di vento cessarono all'improvviso e subentrò una calma piatta, terrificante.
Mentre si rendeva conto di provare dolore in tutto il corpo, Venanzio vide qualcuno chinarsi su di lui. L'odioso ghigno di Dario gli stridette nel cervello insieme a un uccello che volava a bassa quota.
Singultò, un occhio spalancato che si beve il cielo, l'altro mezzo chiuso che fissa di sguincio i fili d'erba secca.
E intanto la ruota gira, gira, gira...

franc'O'brain (alias Peter Patti)

venerdì, ottobre 28, 2005

_disquilibruum_

c'è il sole ma tu stai dentro, col naso arrossato e un dolorino alla cervicale.
"adesso vanno di moda le t-shirts personalizzate" informa la tivù. una marea di bambini stranieri gioca sotto la tua finestra.
ma che musica è questa? abbassi il volume dello stereo e vai a prepararti un altro caffè. assomigli un po' a tav falco al tempo in cui questi esibiva strani baffetti e aveva i capelli in aria. il suo è stato l'ultimo concerto al quale hai assistito dal vivo... quanti anni fa, ormai? insettucoli diafani ronzano attorno al tuo cervello, mentre l'amico geco è sempre immobile sulla parete dietro al monitor (magari è crepato). sul forum für arbeit leggi le testimonianze di cinquantenni ingegneri, medici e tecnici specializzati costretti a fare i lavoratori interinali. dietro il nick di uno di loro ti pare di indovinare un tizio che conosci. quello che scrivono è realmente terribile, ma scrivere, raccontare ad altri, non allieverà le loro pene. all'improvviso hai una serie di flash, le sequenze di un incubo ad occhi aperti: capitani d'industria e azionisti guardano te e tutti gli altri disgraziati da balconcini ornati di fiori; li vedi sfregarsi le mani contenti, e il tuo cuore smette per un attimo di battere. ti aggrappi alla scrivania mentre ogni cosa tutt'intorno vacilla paurosamente. personaggi che tu non hai invitato entrano ed escono dal tuo soggiorno-studio: una tua ex ragazza poi diventata valletta, l'amico che morì di overdose subito dopo aver scoperto che suo padre - un politico locale - era in combutta con la mafia, un presentatore televisivo col parrucchino e lo smoking, l'attricetta di telefilm per ragazzi di cui tu da bambinetto eri innamorato e che in seguito intraprese una carriera nella pornografia... ancora la tua pompa non si rimette in moto. cominci ad annaspare arrotolato sul pavimento, ti colpisci il petto con i pugni, mentre il rockabilly di tav falco ti martella le sinapsi e l'intero globo terracqueo ruota sul proprio asse come una trottola. "ah... ihh... uàaah..." ti senti dire. Una bava verde-spumeggiante cola copiosamente dalla tua bocca contorta. poi, pian piano, ogni cosa si normalizza; riesci di nuovo a respirare, a fissare lo sguardo su oggetti a te familiari. le pareti stanno tremando. sta tremando ogni cosa. ma il mondo torna a ristabilizzarsi. fuori, i bambini giocano, due donne russe ciaccolano e ridono sulle scale, il computer è acceso, la tivù trasmette pubblicità, lo stereo ha una voce allegra e il sole tramonta lentamente dietro un palazzone popolare. ti rialzi su gambe incerte. sono le 16:16 del 28 ottobre 2005.

mercoledì, aprile 06, 2005

NEWWORLD MACHINE

Non c'è nulla di paragonabile, - diceva - siamo un popolo meraviglioso, e viviamo in un'epoca meravigliosa. Paracadute e ferrovie; trabocchetti e cannoni grandinìfughi! I nostri piroscafi solcano ogni mare, e la valigia aerea di Nassau si dispone a iniziare servizi regolari (tariffa per andata o ritorno solo venti sterline) fra Londra e Timbuctù. E chi calcolerà l'immensa influenza sulla vita sociale, sulle arti, sul commercio, sulla letteratura che deriverà immediatamente dai grandi princìpi dell'elettromagnetismo?



Da: L'uomo "usato", di Edgar Allan Poe, in Stravaganze