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martedì, ottobre 03, 2017

La Trabanteide - racconto online

(in onore dell'Unità Tedesca)


***





Peter Patti

 

L A      T R A B A N T E I D E



Nell’aprile del 1990, Hans Aberle si apprestò a compiere il suo primo viaggio verso il capitalismo.
Hans, capo turno di cella frigorifera in un’industria di alimentari di Grimma, era solito incontrarsi con i suoi amici nella locanda Testa di leone, dove, con l’appressarsi della stagione calda, la discussione si accentrava sempre più sulle ferie da andare a trascorrere possibilmente nella Germania Ovest.
«Quattordici giorni, forse tre settimane per visitare i miei parenti “dell’altra parte“ e poi torno», sentiva gli altri dire.
Soprattutto, vaneggiavano di acquisire questo o quel bene di consumo che finora era stato fuori dalla loro portata: interi caschi di banane, un videoregistratore, un’automobile potente e scintillante... Intanto però la loro paga rimaneva modesta, mentre i prezzi si catapultavano alle stelle.
La Cortina di Ferro era caduta sei mesi prima, causando la chiusura di molte fabbriche dell’ex DDR. L’oste del Testa di leone (già Taverne Marx & Engels) non concedeva più crediti, e non è che la birra avesse un sapore migliore solo perché Grimma apparteneva ora alla Repubblica Federale Tedesca. Così, gli amici di Hans finivano spesso con lo stancarsi delle consuete fantasticherie e, amareggiati, stavano a rimuginare in silenzio tra i fumi dell’alcol, prima di tornarsene a casa: chi a piedi, chi in bici e chi col Trabant.
Il Trabant è l’unico veicolo che fu prodotto nella Germania Orientale, e per decenni rappresentò il fondamentale oggetto di culto di quello che fu, per autodefinizione, il "socialismo realmente esistente“.
Per Hans, gli incontri al Testa di leone si andavano vieppiù trasformando in un’esperienza triste e tormentosa. Quei volti grigi, affranti, depressi! E gli scambi di battute senza cuore, scolorite!
«Buonasera.»
«Forse.»
La tavolata, un tempo spensierata e rumorosa fino a sfiorare l’osceno, assomigliava ormai a un’adunata di becchini a lutto. Voglia di parlare, confidarsi, sfogarsi. Ma spesso le bocche rimanevano chiuse. Volevo dire... Sì, continua! No, di’ tu! Dica lei! Non volevi...? Pensavo che fossi tu, che fosse lei, che... Con sfumature di imbarazzo.
L’oste si spazientiva: «Ehi! Nessuno ordina un’altra birra? Non avete sete nemmeno stasera, eh?»
Poteva capitare, ovviamente, che ogni tanto si sviluppasse una conversazione normale, o l’abbozzo di una conversazione:
«Sapete chi ho incontrato? Il Dieter. È tornato ieri con la moglie. Ora vivono a Brema. Staranno qui tre giorni e poi se la squaglieranno di nuovo. Sono venuti in BMW...»
«Ma va’ là. Com’è che il Dieter ci ha il biemmevù, che l’è via solo da sei mesi?»
«Lo sappiamo tutti che l’è via solo da sei mesi, che stai a contarcela? Ma io non ci ho mica le patate sugli occhi e l’ho visto bene il Dieter dentro il suo biemmevù . Ci ho parlato pure!»
«Beh, e a noi che ce ne cala del biemmevù?» interloquiva Hans.
Occhiate incredule si posavano su di lui. «Che ce ne cala, dici? Quella sì che l’è una signora macchina, mica i nostri Trabbi
“Trabbi“: diminuitivo di Trabant.
«Ma finitela, che il Trabbi l’è proprio ottimo e ci ha pure la pelle più dura di tutte quelle automobili “dell’altra parte“», perorava Hans.
Un circolo di facce diventava un circolo di facce che si scuotevano da destra a sinistra a destra a sinistra a. «Hansi, caro Hansi, sùzzati mo' un’altra bionda che così ci fai un piacere al Leone e ci lasci in pace pure a noi con le tue strullate.»
E “Hansi“, ubbidiente, suzzava la sua bionda e non aggiungeva altro.
A lui il Trabbi non dispiaceva punto. Benché a quest’automobilina affibbiassero di continuo epiteti offensivi (“elettrocartone“ era solo uno dei numerosi nomignoli), era fiero di possederne una.
Per chi non ha mai avuto la ventura di imbattersi in un Trabant, spiegheremo qui che si trattava di una piccola utilitaria dall’aspetto austero e nel contempo sbarazzino, una scatoletta le cui intercapedini erano imbottite di matasse di cotone e altro materiale non bene identificato. Quando nella Repubblica Democratica Tedesca fu avviata la produzione in serie del “modello popolare“, le strade dell’emisfero occidentale erano solcate da quattroruote altrettanto minuscole: i maggiolini della Volkswagen, le Cinquecento con gli sportelli che si aprivano controvento, Mini Morris, Messerschmidt e persino BMW dall’abitacolo angusto e la linea breve. Nella forma e nelle dimensioni, dunque, il Trabant rispecchiava lo standard di quegli anni (il primo satellite sovietico aveva appena cominciato a gravitare intorno all’orbita terrestre... “Trabant“ significa, appunto, “satellite“). Il suo design veniva giudicato «elegante e armonioso».
Ma l’epoca del maggiolino, della duecavalli e di altre vetture a formato ridotto era tramontata da un pezzo, e intanto il Trabbi non mutava di un iota. Certo, la vetturetta della DDR vantava eccellenti valori di frenata e di accelerazione, ma non offriva nessunissimo comfort; per tacere del fattore sicurezza, che era uguale a zero: uno scontro frontale a 40 km/h bastava perché si fracassasse completamente.
A partire dagli anni Ottanta, voci maligne provenienti dalla Germania Ovest imputarono al Trabant addirittura la responsabilità maggiore per i malanni che affliggono la natura. Comunque fosse, Hans Aberle rimaneva indifferente alla congerie di chiacchiere. E, ora che la Guerra Fredda era finita, era più che mai deciso a lasciarsi alle spalle la Turingia e la Sassonia. A bordo del suo Trabant.



Le ferie arrivarono e lui, come annunciato, si mise in viaggio. Imboccata l’autostrada nei pressi di Karl-Marx-Stadt (una città che era in procinto di riacquistare il suo antico nome: Chemnitz), si diresse per prima cosa a Gera. Gera rappresentò una sorta di bivio: da lì avrebbe potuto continuare per Jena, Gotha e Eisenach, e invece preferì l’altra soluzione, quella che lo portava a Hof e che era anche la via più breve per accedere alla Germania Occidentale dal vecchio territorio della DDR.





...

lunedì, giugno 10, 2013

Finalmente pubblicato! 'Villa Sunshine'


"The future is unwritten" sosteneva Joe Strummer: "Il futuro non è stato ancora scritto"... Eppure gli Anni Ottanta - il decennio di Ronald Reagan - sono stati una sorta di pietra angolare per quello che è il nostro presente. E' come se qualcuno, o un gruppo di persone, avesse allora deciso di "spezzare le gambe" ai movimenti libertari, alla coscienza di classe, e allo Stato sociale, seminando panico, terrore e inaugurando - istituzionalizzandolo! - il concetto di "vita precaria".
Dopo almeno trent'anni di creatività ad alti livelli (e perciò spesso "sovversiva"), ecco che con il sopraggiungere degli Anni Ottanta si ha il declino della musica, della letteratura e del cinema.
E anche per quanto riguarda la moda trattasi di un decennio a dir poco strano (!)...

Il romanzo Villa Sunshine (ora su Amazon per Kindle), che narra di quel periodo, ha un'ambientazione rigorosamente italiana, e più precisamente nord-italiana: si svolge infatti tra il Lago di Como e Milano, e a raccontare è Hermann Schmidt.
Ermanno, come lo chiamano gli amici, lavora in un istituto di ricerca genetica. Una sera, mentre fa la vivisezione di alcune cavie, viene sopraffatto dalla stanchezza e la mente gli gioca uno strano scherzo: nell'atmosfera tetra del suo laboratorio, egli si ritrova a rievocare il fantasma di Mara, la sua ragazza di una volta, "perduta" a un capriccio giovanile di lei o al carisma indecifrabile di un tale letteralmente piovuto dal cielo e che risponde al nome di Venceslao Pilleschi
 

All'apoteosi del suo solipsismo, il dottore si augura fortemente di rivedere l'antica fiamma, che nel frattempo dev'essere una donna matura. Non solo: Hermann auspica persino di rincontrare l'individuo che gliel'ha soffiata... Perché quell'individuo, quel Vence, era anche suo amico, e l'amicizia ha un ruolo fondamentale nella sua vita (così come è fondamentale per tutti i personaggi che conosceremo in seguito).

Quello di Ermanno Schmidt non è solo un nostalgico desiderio, ma vera e propria precognizione. Per quanto lo riguarda, Hermann dà per scontato che rivedrà presto entrambi (Mara e Venceslao), che li ritroverà... Semplicemente perché loro gli stanno mandando segnali telepatici, comunicandogli che vogliono farsi ritrovare.



A cavallo delle memorie di Hermann o Ermanno Schmidt, ci vediamo ricapultati a diversi anni prima, e più precisamente alla data dell'incontro della coppia Hermann-Mara con il misterioso Vence(slao) Pilleschi. L'atmosfera è quasi onirica; come nel ricordo di una mente stanca e confusa (quale in effetti è la mente del ricercatore genetico). L'incontro (quasi scontro) si svolge in circostanze surreali, ed è arricchito da elementi e fenomeni improbabili, simboleggianti i segni di una stravolgente svolta (geofisica, più che sociale) della Terra.



"Mi chiamo Venceslao Pilleschi", si presenta lo sconosciuto - l'alieno - a lui e a Mara. 
 


Fin da subito, Venceslao/Vence si rivela essere un bambinone, completamente inadatto alla vita degli uomini; o, almeno, alla vita come essa è concepita nel paesino di provincia in cui vive la coppietta, che lo ha "adottato". Ben presto, il biondo, irrequieto Vence si dice annoiato e decide di trasferirsi a Milano, dove - sorprendentemente - riesce a riscuotere successo in vari campi, imparando ad adattarsi in tanti ruoli; la sua specialità è di cambiare a piacimento maschere e costumi, parimenti a un attore mestierante. Ma anche nella metropoli la vita è dura, e Vence (che tra l'altro è mancino e inadeguato a svolgere la maggior parte dei lavori manuali) si vedrà costretto ad ammettere la debacle personale, per tornare infine al piccolo paese - presso i suoi tutori -, dove poter leccare le proprie ferite in santa pace. E lì, nella sperduta provincia dall'aura vagamente celtica, troverà consolazione nell'abbraccio della benevolente Mara... La ragazza è talmente innamorata di lui da abbandonare l'esterrefatto Hermann e sparire insieme all'"angelo biondo" risanato. Con il suo nuovo compagno, si inoltrerà nei meandri della grande città, mostruoso macchinario costruito apposta per inghiottire tante umane esistenze.



Da questo punto in poi, il romanzo diventa più realistico, più concreto. I contorni non sono più sfumati, e gli elementi architettonici (in Villa Sunshine l'architettura occupa una posizione predominante) sono costituiti da oggetti ben tangibili, da spazi e corpi riconoscibili. Siamo nell'oggi: 1982, 1983. Mara, ormai una donna non più giovanissima, sta di continuo in attesa che qualcuno le riporti indietro il "suo uomo": Vence. In tutti questi anni, Vence è rimasto infatti - almeno in spirito - il bambinone di una volta, e, irresponsabile com'è, latita: anche perché schiavo delle droghe sintetiche (dunque, continuamente "in ruota").

Attorno a Villa Sunshine (la casa in cui la coppia Mara-Vence si era illusa di poter fondare un nido d'amore) ruotano diversi personaggi, tutta gente che va verso la quarantina o l'ha già superata: lo sgangherato El Cato (un musicista rock dall'aspetto spagnoleggiante), un disastrato - e disonesto, bisogna aggiungere - uomo politico del Sud Italia, la sorella di Mara (un tempo reginetta di bellezza, oggi divenuta un'insopportabile matrona) e il marito di costei, che ha la passione dell'architettura. Proprio dall'architetto wannabé Mara deve sorbirsi valanghe di consigli sui cambiamenti che si potrebbero effettuare per migliorare esteticamente la villa... Ma lei è distratta, lei è interessata soltanto a un celere - quanto improbabile - ritorno del compagno. Si accorge di invecchiare, sente di star sciupando la propria vita, e a più riprese (a volte con tono lievemente isterico) esorta i frequentatori della sua dimora a riportargli indietro il suo "uomo-bambino"...

Per caso (o destino) sarà invece Hermann Schmidt, l'infelice dottorino di una volta, votatosi intanto al celibato, a "ripescare" Vence dai marciapiedi milanesi e a ricondurlo da Mara. Hermann Schmidt si vedrà pure messo nella situazione di dover indagare seriamente sulla vera provenienza di questo "idiota bello", in quanto la ragione gli suggerisce che Vence non può essere né un Messo Celeste, né tantomeno un... marziano sperdutosi nel corso di una missione spaziale.

Il romanzo sfuma in un'atmosfera di cupa malinconia, con la scomparsa definitiva di un umano-troppo-umano Vence(slao) Pilleschi e con la sempre più decrepita Villa Sunshine piena di persone ("amici" di Vence, ma anche amici l'un l'altro) che non fanno che vegetare sognando dei bei tempi andati. "Bei" perché vissuti all'insegna di una pseudomilitanza politica o quantomeno ideologica sotto la guida di un Venceslao Pilleschi allora brillante. Il sospetto che si insinua nel lettore, in queste ultime pagine del romanzo, è che Villa Sunshine sia in realtà una casa di riposo per esistenze derelitte, e che Mara sia una sorta di infermiera che deve prendersi cura di loro.



Attraverso immagini metaforiche trasposte senza alcuna retorica, il romanzo vuole essere l'anamorfosi di un'Italia che riesce a mantenere la sua bellezza, la sua unicità, nonostante ogni turpitudine etica e sociale. È anche un romanzo "d'arte", nel senso che, oltre che di architettura, vi si parla (attraverso le bocche dei vari personaggi) di musica, di pittura, e perfino di misteri archeologici.


domenica, ottobre 05, 2008

Il precario

La ruota gira, gira, gira... Sopra c'è il cielo di un blu ellenico, segato dalla 'silhouette' di un uccello che stride; sotto ci sono fili d'erba elettrici, e anch'essi stridono. E la ruota gira, gira...

Quel giorno, uscendo, Vanz [Venanzio] ebbe un trip bestiale: vide gente attaccata a strani aggeggi, forse minicomputer con cuffie. Non capì. Probabilmente non avrebbe mai capito. Uguale se si trattava di apparecchi comunicatori o per la ricezione di musica: lui non avrebbe mai permesso che il suo cervello venisse shakerato da tanto elettrosmog in una sola volta. Aveva, del resto, altri problemi. Ma non era il solo, come gli suggerì il suo trip: altri si affrettavano verso un appuntamento non dissimile da quello verso cui lui stava andando, in un qualche ufficio-sgabuzzino del Centro Controllo Lavoro. Alcuni - i più, in verità - gironzolavano a coppie o a gruppi, fermandosi ogni tanto di botto per tirare fuori l'aggeggio portatile e gettare uno sguardo al display.
Mentre raggiungeva l'automobile, Vanz si volse indietro: aveva l'impressione che qualcuno lo pedinasse, e che quel qualcuno non potesse essere altro che il suo amico o presunto tale Dario. Si fermò addirittura per scrutare meglio tra le facce e non-facce, tra i corpi e gli ectoplasmi che affollavano le strade. Ma di Dario nessuna traccia. E perché poi l'amico o presunto tale avrebbe dovuto seguirlo? Lo ignorava. Presumibilmente la sua era solo paranoia, l'inizio di qualche forma di pazzia...
Entrò nel Centro Controllo Lavoro pensando a Dario, che tra l'altro abitava a due passi da lui, e a come Dario per anni avesse fatto il filo a Rosalba, prima che lei si decidesse a mettersi con Vanz. L'amico o presunto tale non sembrava averne fatto un dramma. "In fondo è una fortuna che stia con te anziché con qualche stronzo idiota" aveva commentato. In diverse occasioni erano persino usciti insieme, tutt'e tre, e Dario aveva riso e scherzato; per strada, in pizzeria... Parevano ormai secoli! Dario era sempre stato pronto ad accompagnarli in macchina qua e là... Aveva, insomma, allargato sui due innamorati le sue benevole ali, ali leporelline. Ma Vanz aveva notato nell'amico o presunto tale attimi di perplessità astio rancore. Quello lì aveva ali pipistrelline, piuttosto, altroché! Aveva colto, soprattutto negli ultimi tempi dell'idillio o presunto tale, sguardi sfuggevoli tra Dario e Rosalba...
- 45! - urlò la voce dell'impiegata.
Era il suo numero, ma non si mosse.
- Che c'è? Cos'hai? Stai male? - gli chiese qualcuno. Quel qualcuno, insieme ad altri individui presenti nella vasta, fredda sala d'attesa del CCL, Centro Controllo Lavoro, puntò gli occhi addosso a Vanz. Lui, che aveva bretelle stars-and stripes e un berretto con su scritto 'I love N.Y.', non diede risposta. Se ne stava sulla sua sedia a stringere tra le dita il bigliettino con il numero che avevano appena chiamato.
- Ma cos'ha? - chiese l'impegata facendo capolino dalla porta, rivolta agli altri disoccupati in attesa.
- La vita lo ha stancato - rispose un uomo sui cinquant'anni; lui stesso aveva un volto che esprimeva rassegnazione.
- Se è stanco, dovrebbe tornarsene a dormire - osservò la donna, acida. Poi ripeté, istericamente: - 45!
Vanz continuò a non muoversi.
- 46! - esclamò allora lei, e un altro disgraziato, sventolando il bigliettino corrispettivo, si mosse verso la porta aperta.
L'impiegata lo fece entrare e l'uscio sbatté.
Il cinquantenne sospirò, alzandosi. Pian piano, si avvicinò al pallido ragazzo che, tra i risolini, gli sbuffi e i commenti ironici dei vicini di sedia, proseguiva a fissare inespressivo la parete dirimpetto, tappezzata con poster dall'aria vagamente sovietica che reclamizzavano i vantaggi di questa o quell'altra scuola professionale. - Tutto bene? - gli chiese il cinquantenne, ponendogli una mano sulla spalla.
Vanz sembrò non udire. Ma avvertì il contatto di quella mano e, spettralmente, si sollevò e si incamminò verso l'uscita.
- Ehi, ma dove...?
Fuori era estate. Tanto sole e un leggero vento. La città brulicava di presenze variopinte. Soltanto la facciata del palazzo in cui era locato il CCL si innalzava grigia e cadaverica. Il ragazzo si trascinò come trasognato lungo un marciapiede in ombra, fino a raggiungere l'auto parcheggiata. Tirò fuori le chiavi da una tasca dei calzoni, aprì la portiera e, toltosi il berretto, si mise al volante. Per una buona mezz'ora l'auto seguì il traffico del centro; poi si lanciò a manetta sulla superstrada, con i finestrini laterali abbassati.
120... 140... Poteva andare più veloce? Veramente non lo sapeva. Veramente questa non era la sua macchina: gliel'aveva imprestata suo padre. E veramente gli era indifferente sapere quanto indicava il contachilometri: tanto, non sarebbe mai stato tanto veloce da poter riacciuffare i suoi sogni.
Oh, e che sogni! Aveva delirato di un mondo tutto verde con il cielo azzurro e il mare pieno di pesci, e una capanna su una scogliera, e dentro la capanna lui e Rosalba, oppure un'altra ragazza come Rosalba. Una vita tranquilla, sana e, sopra a ogni altra cosa, al sicuro dalla 'longa manus' dei potenti. Invece...
Invece era stato catturato dagli ingranaggi del sistema. Dopo aver interrotto gli studi universitari per non dover più sentire suo padre lamentarsi di quanto gli costava mantenerlo, si era adoperato per trovare un lavoro, uno qualsiasi. Del resto, anche Rosalba aveva fatto pressione affinché lui si sistemasse. Quanti anni aveva avuto quando si era buttato a capofitto nello stravagante show della "vita"? 21, 22. Ora ne aveva 26. Aveva alle spalle un lungo precariato, con tutto quanto ne consegue: la vergogna, l'infamia e le offese dentro e fuori squallidi uffici che non servono a nulla. O, per essere più precisi, servono proprio a questo: a tenere a bada i perdenti cronici, a non far alzare troppo la cresta ad eserciti di illusi.
I suoi sogni: tutte frottole! Nessuno poteva aiutarlo. I cosiddetti consulenti delle agenzie interinali: personaggi truffaldini pieni di prosopopea. Amici ed ex commilitoni: narcisi che si approcciano al magma caotico dell’esistenza con l'entusiasmo di pasciuti zombi. Finanche quel buono a nulla di Dario era riuscito a "sistemarsi": faceva le consegne per una ditta di elettrodomestici e oggi era fiero possessore di una carta di credito.
Vanz non possedeva nulla e non aveva nessun posto dove andare. La "magione" paterna, in cui lui così malvolentieri si rifugiava dalle iniquità del mondo, non era che una una gabbia sospesa tra cielo e terra; ottavo piano di un casermone popolare, con il traffico della vicina circonvallazione che faceva tremare le pareti e onde di cherosene che arrossavano le nuvole impigliatesi sulle antenne, sui trasmettitori, sui ripetitori. Non aveva un bel niente. Nemmeno Rosalba era più presente (e forse, per davvero, a quest'ora lei e Dario formavano una coppia); il ricordo dell'amata: polvere di sborra sul maglione.
Ma c'è, o potrebbe esserci... qui, oltre la periferia della periferia... guarda quella prateria in miniatura, ad esempio!... c'è, o potrebbe esserci, in mezzo a questi flash che ogni tanto lui coglie con pupille tenebrose... un'oasi dove andare, dove nascondersi, per non dover più sentire il genitore chiamarlo "lavativo".
Occhieggiando nello specchietto retrovisore, si accorse che un furgone grigio gli si era attaccato alle costole, o più precisamente al cofano. Vanz accelerò sensibilmente per scrollarselo di dosso, ma il pedinatore non mollò la presa. Un senso di panico si impossessò di lui nel riconoscere la faccia che, dietro il parabrezza scuro, gli ghignava sardonicamente.
"Dario!"
Nessun dubbio ormai: la sua presunta paranoia aveva finalmente un nome. Ma che diavolo gli era preso al presunto amico, al compagno di giochi dell'infanzia, al vicino di casa che negli ultimi mesi, anzi anni, si era reso latitante e che probabilmente gli aveva soffiato la donna che prima Vanz aveva - in un certo senso - sgraffignato a lui? "Ce l'ha con me? Spia tutti i miei movimenti?"
Diede ancora più gas e dopo qualche minuto il furgone iniziò gradualmente a rimpicciolirsi nello specchietto.
"Uff! Maledetto...!"
Asciugandosi il sudore, tornò a concentrarsi sulla strada. Alla sua destra apparve all'improvviso un luogo straordinario, a lui sconosciuto: una cittadina, anzi un borgo; un borgo cristallino, sviluppato nel classico nucleo detto a “cuneo” o a “fuso d’acropoli” su uno sperone tufaceo, con il castello nel punto più alto a farne da testata.
Infilò l'uscita quasi senza rallentare. "Ecco il posto dove voglio vivere" si disse, percorrendo la salita. Un paese antico, quasi completamente tagliato fuori dai retaggi della modernità. Scegliersi come abitazione una baracca, per chiudersi in un fortilizio di sconoscenza voluta, in un silenzio denso come la melma...
All'improvviso, una curva a sinistra, nemmeno tanto stretta. Chiunque altro l'avrebbe imboccata agevolmente, ma non a 80 o a 100 all'ora.
La macchina si cappottò. Si ribaltò dapprima sull'asfalto, poi nel maggese. Una, due, tre volte. Il cranio di Vanz si infranse mentre la sua autovettura, o meglio l'autovettura paterna, si riduceva a un ammasso di lamiere contorte ancor prima di entrare in fase di rullaggio. Finalmente la macchina si fermò: stette per qualche secondo in sospensione cardanica e poi si capovolse con le ruote oscenamente all'aria.
Le folate di vento cessarono all'improvviso e subentrò una calma piatta, terrificante.
Mentre si rendeva conto di provare dolore in tutto il corpo, Venanzio vide qualcuno chinarsi su di lui. L'odioso ghigno di Dario gli stridette nel cervello insieme a un uccello che volava a bassa quota.
Singultò, un occhio spalancato che si beve il cielo, l'altro mezzo chiuso che fissa di sguincio i fili d'erba secca.
E intanto la ruota gira, gira, gira...

franc'O'brain (alias Peter Patti)

sabato, luglio 19, 2008

Quotidianità 'orrifica'

Chi ha seguito la mia attività di scrittore, avrà notato che ho sospeso (momentaneamente?) la pubblicazione di testi horror. Il motivo è che nella vita di ciascuno di noi irrompono periodi contrassegnati dall'orrore: quello autentico, che quasi sempre ha la facoltà di lasciarci senza parole o, se si vuole, di essiccare l'inchiostro della nostra penna. La morte violenta e improvvisa di uno dei nostri cari, l'aver accettato un lavoro umile e duro che avrebbe dovuto essere uno stratagemma di sopravvivenza e invece assomiglia sempre più all'Highway to Hell, il dolore immenso e assoluto del nostro compagno (della nostra compagna), accompagnato dai segni della vecchiaia precoce sul suo volto e nel suo spirito, lo stato d'animo abbattuto e sfiduciato di nostri amici e conoscenti che hanno avuto il coraggio di aprire una qualche attività che avrebbe dovuto renderli liberi e che ha finito per tradirli, scavando profonde rughe sulle loro facce una volta sorridenti... Tutto questo, sì, porta orrore, è orrore, e viene da alzare i pugni al cielo e inveire contro gli dèi e urlare: "In culo anche la Letteratura!". Ogni tanto si intravede un raggio di sole e intuiamo: "Non bisogna abbandonare le speranze, non devo dire di no alla vita". Perché forse - forse -  le cose si aggiusteranno, le nubi si diraderanno - o, come cantavano i Dire Straits: "There should be sunshine after the rain". Intanto però il danno è fatto, la ferita sanguina, gli occhi sono tirati in giù, la schiena è spezzata e chissà se riusciremo di nuovo a chinarci per raccogliere i fazzolettini di carta inzuppati di lacrime che segnano il cammino di chi ci precede. E' questo l'orrore vero: non la vita ma la sua assenza; questa non-vita con la brutalità dei suoi artigli e delle sue zanne. Quando impareremo a scrivere di tutto ciò, quando saremo capaci di esprimere il velenoso miscuglio di pazzia socialmente organizzata e di atavici mostri che albergano nella nostra stessa ombra, quando riusciremo a fronteggiare l'imprevisto, a sopportare la sofferenza nostra e altrui, ad accettare il lato più oscuro e probabilmente ineluttabile dell'umana esistenza, saremo finalmente scrittori e uomini; più grandi e più autentici di qualsiasi autore di horror e generi limitrofi.


giovedì, maggio 22, 2008

Il Fondaco della Poesia

[Comunicazione di Gilberto Gilgiona]

salve,

http://www.ilfondacodellapoesia.it/

vi presento brevemente il nostro nuovo spazio (un noi quanto più possibile ampio e luminoso) che è in attesa di contributi, suggerimenti, suggestioni, visioni, ecc.
il fondaco è un magazzino, e un rifugio, un luogo di sosta, ospitalità e dialogo, come lo è stato nel passato, tale è l'idea che sta alla sua origine. in questo passato, quando lo scambio di merci era scambio di vita e arte, e non soltanto spietata concorrenza, il fondaco ospitava appunto le merci provenienti da paesi differenti e spesso lontani, da qui l'esigenza di avere anche spazi dove sostare e riposare, in attesa del viaggio di ritorno. qui avvenivano, ne siamo certi, anche scambi culturali, in lingue tutte da sperimentare e trovare, per essere comuni e comunicare.
noi ci tentiamo ora.
in questo spazio, ora molto spoglio, si troveranno fotografie, file con registrazioni vocali, poesie, link con siti e gruppi che meritano attenzione, riviste, siti, blog, librerie online e non, radio, ecc.
che colmino in solco tra l'indifferenza e il passo comune, ma spesso solitario e sconosciuto. in questo spazio ha una pagina propria il nostro gruppo di lettura Lo Scaffale Capovolto, ha da poco ha ripreso i suoi felici incontri.
attendiamo e valuteremo (con il solo criterio della passione e dell'attenzione culturale) ogni contributo e proposta. chiaramente cerchiamo sensazioni e non egocentrismi o autopromozioni senza sbocchi... questo per chiarezza.
lo speriamo

buona vita

gilberto

Lo Scaffale Capovolto
Il Fondaco della Poesia

sabato, gennaio 26, 2008

Ancora su 'I Canachi'

Allora, c'è questo mio romanzo sull'emigrazione italiana in Germania che reca il titolo I Canachi, reperibile sia online sia in versione cartacea. Ha una gestazione ultraventennale. Nel 1986, quando andai a vivere insieme a Mary, era un brogliaccio di circa 400 pagine manoscritte, assemblate durante i cinque anni trascorsi come lavapiatti, pizzaiolo e cuoco Don Juan. Pian piano ricopiai il tutto con una macchina da scrivere "Triumph" acquistata presso un mercatino delle pulci. Negli anni Novanta nacque la versione elettronica del romanzo (sul mio primo PC, un 486 DX), e intanto le pagine erano diventate 300. La revisione definitiva risale al 2006, e le ultime lievi corretture le ho effettuate nel 2007.

Ogni tanto ricevo e-mails perlopiù entusiaste di lettori di ogni età. Ricordo ad esempio uno scambio di corrispondenza con un giovane che lesse I Canachi proprio alla vigilia del suo trasferimento ad Amburgo... "Mi ha fatto ridere e piangere" affermava nelle sue prime righe a me indirizzate, evidentemente riconoscendo qualcosa di sé in Marco, il protagonista. Quel lettore era poco più che ventenne e dalle sue e-missive capii che possedeva una cultura davvero enorme: aveva letto di tutto nella sua vita, eppure era destinato ad andare a lavorare in Germania come lustrabicchieri; se non sbaglio, in un ristorante di proprietà dello zio.

Ma i riconoscimenti davvero inaspettati - quanto oltremodo graditi - sono quelli che provengono dal mondo accademico. Dopo essere stato citato nel saggio di un docente dell'Università di Bari (Pasquale Gallo: "Multikulti-Zoo". Kanak Sprak di Feridun Zaimoglu e il contesto semasiologico (post-)coloniale, apparso sulla rivista Links, iv - 2004), ecco che Anne-Teresa Patt, studentessa di Letteratura e di Scienze dei Media e della Comunicazione, decide di discuterlo in un seminario sull'emigrazione e sulla cultura italiana (o forse semplicemente sulla cultura dell'emigrazione italiana) tenuto all'Università di Siegen dalla Dottoressa Laura Roman del Prete.

Grandi successi in piccoli teatri...