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martedì, maggio 19, 2020

"G'è sbazio abbasdanza!" (il Coronavirus in Germania)

"G'è sbazio abbasdanza!" 
           racconto


Si accalcano davanti all'orologio per timbrare, li sento dire: "G'è sbazio abbasdanza!", ridono, si guardano intorno come aquile, si scambiano pacche, prendono in giro chi mantiene le distanze e ancor più chi porta una mascherina... Gli stranieri sono i peggiori, ma nel frattempo in tutta la nazione si svolgono manifestazioni "di protesta contro lo Stato che ci toglie i diritti" e dove - tedeschi perlopiù, ma ovviamente non cittadini perbene... - si ammassano nella piazze, senza protezione, e non raramente sotto gagliardetti di estrema destra. Secondo l'ultimo sondaggio, l'AfD ('Alternative für Deutschland', formazione che conta tra le proprie fila molti neonazisti) ha superato l'SPD ed è, dietro ai cristiano-democratici, il secondo partito più forte in Germania.



Io comunque lavoro massimamente con stranieri; e sì, sì, con qualche irresponsabile tedesco. La mia idea di "strategia antipandemica" era che bisognava chiudere per due mesi, generalmente e totalmente: di sicuro così avremmo sconfitto il Covid-19. Credevo che il governo facesse proprio questo. Ma è successo l'imprevisto: si sono mossi piano e scoordinati, hanno lasciato tante strutture e tanti posti aperti, con il risultato che la ditta mia, insieme a una dozzina di altre qui nella zona, ha continuato a lavorare (i capi e i politici locali si saranno detti: "Tanto, i dipendenti sono stranieri: non sarebbe una perdita grave"). E così mi ritrovo a portare una mascherina (ne devo cambiare tre-quattro nel corso di un unico turno lavorativo, il tutto a mie spese) mentre mi muovo in mezzo a queste macchiette, a questi semianalfabeti che chiamare "colleghi" sarebbe un eufemismo. Dico loro: "Mantenete le distanze!" ma mi ridono in faccia, o latrano qualcosa rabbiosamente, annaffiandomi di saliva. "Non avete sentito il telegiornale?" chiedo, conciliante. "Hanno detto che è importante rispettare le regole, soprattutto in questa fase..."
Sbatto contro un muro di incomprensione. I telegiornali li seguono, certo, ma quelli dei rispettivi Paesi e nelle rispettive lingue. Giacché sono turchi, albanesi, bulgari, polacchi, kazachi. C'è anche qualche italiano, ma lui è ugualmente ignorante - se non di più.
Loro ignoranti... e io l'asino più asino della Terra. Eh già, asino: poiché, giovane idealista, mi ero innamorato della società multiculturale, multietnica, subito dopo la mia venuta qui... tranne abbastanza presto scoprire che, più sprofondi nei livelli di erudizione, più vai in basso nei gironi danteschi, e più ti sembra di stare svolgendo all'incontrario il film dell'antropogenesi. E ti ritrovi in mezzo a una massa di australopitechi e di rappresentanti della specie Paranthropus aethiopicus.
Come i fasciocostituzionalisti ivi nati ("la nostra Costituzione dice che non potete toglierci questo e quel diritto..."; ma inneggiano alla caduta della democrazia e alla dittatura di pochi, non a un miglioramento del sistema vigente), così anche gli stranieri analfabeti e incivili si oppongono a tutti i decreti precauzionali rilasciati dal governo centrale e dai vari Bundesländer. Capisco che tanti non si mettono la mascherina perché farlo equivarrebbe a un suicidio (puzzano dalla bocca lontano un miglio), ma che difficoltà avrebbero a mantenere almeno la distanza sociale?
Eppure, verso i primi di marzo, quando il capo ci ha radunati intorno a sé per ricordarci lo stato delle cose e lanciarci delle raccomandazioni, loro sembravano aver capito.
Dopo di allora, di tali discorsi ne sono stati fatti altri: un paio almeno. 



- Allora, per quel che abbiamo già detto: abbiamo notato che ignorate i moniti. Vi raggruppate troppo spesso, vi date pacche, chiacchierate con i volti molto vicini...
Mentre il caporeparto parla, io lancio un'occhiata circolare alle facce ebeti dei "colleghi". Già al momento di piazzarsi davanti, di lato e dietro al superiore, con parecchia fatica si sono lasciati convincere a stare a un paio di metri l'uno dall'altro. Ma non tutti lo fanno. Come magneti, tornano a sfiorarsi, tangersi, urtarsi. La turca ad esempio sta spalla a spalla con la russa... 
- Bisogna prendere la situazione sul serio. Mi hanno detto di dirvelo, e che faranno spesso controlli. E chi sgarra, va via.
- Addiriddura! - esclama Tareq, l'egiziano. (Egiziano e non egizio; ci tengo a precisarlo, perché c'è più di una differenza.) Tareq si trova alla mia sinistra e, anche se ci separano circa un metro e mezzo, posso quasi avvertire il suo alito caldo aleggiarmi sotto il naso. Le sue ascelle puzzano maledettamente, tra l'altro... Non penso che negli ultimi due mesi abbia indossato panni lavorativi puliti. Fa comunque sempre sfoggio della stessa maglietta e, se consideriamo che nelle zone dedicate alla produzione vige perennemente un bel calore, possiamo assumere che, dal punto di vista igienico, non è messo bene. 
- Certo - dice il caporeparto. - L'altro giorno, in città... non avete sentito? Qualcuno ha avuto la brutta idea di invitare parenti e amici alla festa del suo compleanno. E adesso un paio di loro sono all'ospedale, gli altri in quarantena...
Il discorsetto dura forse dieci minuti, più probabilmente un quarto d'ora. Quando se ne va, c'è il "rompete le righe!". Ed ecco che tre-quattro si congratulano ghignando e dandosi grandi manate, due-tre uniscono le teste parlicchiando animatamente, due tornano ai macchinari a braccetto, in maniera gaia, ballonzolando addirittura. Il turco starnuta direttamente dentro l'orecchio dell'albanese, il quale per la paura tossisce a bocca aperta... Al che io rivolgo loro le spalle mentre faccio un balzo per allontanarmi dall'area contaminata. 
Improvvisamente, davanti al mio viso si staglia quello di Jelena, russa del Kazachistan. 
- Ti ho messo paura? - sputacchia Jelena.
- Ma no, sai. Le regole... - borbotto imbarazzato. E indietreggio, mentre lei, spietatamente, mi segue da presso. - Che volevi dirmi? - domando sconsolato. 

No, non l'hanno preso seriamente, l'avvertimento. O meglio: hanno capito il senso delle parole, ma non possono lottare contro la propria natura di "animali sociali". Molti di loro sono contenti di vivere come vivono: in cinque, sei, sette addirittura in un alloggio ristretto. Per loro, la vita che conduco io non ha senso, è inconcepibile. (Abito in cima a una torre di legno con veduta sul centro storico ma a due passi dalla natura selvaggia - che comprende un bosco e il fiume -, pago un affitto alquanto caro per 70-75 metri quadri ma con impareggiabile veduta di architettura medievale da una parte, insuperabile cartolina bucolica dall'altra, e questi miei spazi voglio condividerli esclusivamente con la mia compagna; una terza persona mi farebbe già ansimare: "Basta! Mi manca l'aria! Fatemi uscire...") 
Li guardo e penso: "Bestie, proprio." E compio un largo giro intorno alla coppia formata dalla donna anatolica e dalla pseudorussa, che stanno ridendo e parlando con vivacità, stando appiccicate.



Due settimane dopo. Torno a casa stanco. Accanto allo specchio dell'entrata, vedo che c'è un nuovo pacchetto di mascherine.
- Dove le hai prese? - chiedo a mia moglie.
- Alla farmacia. Hanno scalato il prezzo. Ora le mettono ottanta centesimi l'una.
80 centesimi non è male se penso che, ancora a febbraio e marzo, una mi costava un euro e sessanta. Tuttavia faccio un rapido calcolo, scontento: tre o quattro al giorno, per 80 centesimi...
- Forse non dovrei metterle più - osservo cupamente. - Tanto, in fab sono l'unico a portarle...
- Scherzi? Il decreto parla chiaro.
Il decreto. Già.
Usciamo. Nel frattempo hanno riaperto i locali. Ci sediamo a un tavolino in una terrazza semivuota. Arriva Massimo, il nostro gastronomo di fiducia. Porta maschera, guanti e tiene sollevato un bloc notes. Vuole da noi le generalità, l'indirizzo, il numero di telefono.
Mia moglie scoppia a ridere.
- Stai scherzando - sbotto io.
- Sono le regole - ribatte Massimo. - E non farmi aggiungere altro, perché sennò bestemmio fino a farmi venire l'orticaria.


L'indomani mattina, al lavoro: - G'è sbazio abbasdanza!
Eh? Cosa? Ch... Ah. 
Già.


lunedì, aprile 13, 2020

Come sconfiggere il mobbing... e il bullismo

Prima di tutto un consiglio: se conoscete l'inglese, guardatevi questo video del canale YouTube The Charisma Matrix, che si occupa di autoformazione, di crescita personale; di design della propria persona e della propria vita. I trucchi per "sconfiggere un bully" contenuti nel video sono molto ben espressi e, nella maggior parte dei casi, efficaci.





Ora, noi in Italia parliamo solitamente di "mobbing", che sarebbe la "prevaricazione", ovvero quella serie di atti odiosi che qualche psicopatico mette in atto nei confronti di qualcuno, massimamente sul lavoro. Ma il bullying (= bullismo, cioè "opprimere", "tiranneggiare") vale per ogni situazione dell'esistenza. Vale persino all'interno di una stessa famiglia, ove di frequente abbiamo a che fare con qualche mente perversa, con un individuo che critica, biasima, giudica per piacere personale; con l'aguzzino; con lo psicopatico di turno.




Come si riconosce uno psicopatico? (Importante saperlo, poiché, soprattutto nel mondo del lavoro, lo svelarlo può forse salvarci dal cadere nella sua rete di inganni.) 
Anzitutto: la definizione comune di "psicopatia" è quella di un disturbo mentale caratterizzato da comportamento asociale, deficit di empatia e di rimorso, emozioni nascoste... e una buona dose di istrionismo.  Quante volte non vi sarà capitato di incontrare una persona apparentemente simpatica e interessata ai vostri problemi, con la quale vi siete aperta e, magari nel corso della stessa giornata, vi siete ritrovati a soffrire per causa sua, in quanto costei è andata a spifferare a comuni conoscenti - o colleghi - le cose da voi raccontate e, nel farlo, ha riso e ha fatto di tutto per ridicolizzarvi? 



Dunque: non sempre sulle prime è facile individuare il maligno, il malvagio. Lui è anzi solito indossare la maschera dell'empatico, della persona che sa ascoltare ed è capace di immedesimarsi, e anche per questo è un individuo di successo, brillante, circondato da amici. 



Certo, ci sono gli aguzzini con pochi neuroni, che ridacchiano e fanno le battutine apertamente; ma codesti sono nemici agevoli, che si possono annientare usando le loro stesse armi... o, preferibilmente, ignorandoli e voltando loro le spalle con un sorrisino di superiorità. Attenzione soprattutto giustappunto ai cretini, agli idioti: conviene non farsi tirare da loro giù, nella palude della scempiaggine, dell'imbecillità! È quello il loro terreno naturale e, già il solo fatto che abbiamo scelto di batterci con loro a tale infimo livello, fa di noi i perdenti! 
Con questi scervellati, una delle strategie migliori è la dantesca "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa" (divenuta, in bocca al popolo: "Non ti curar di loro, ma guarda e passa").  







Ma l'infido, il mobber per natura è fatto di ben altra pasta. Rispetto all'imbecille insopportabile, lui trama dietro le tue spalle... spesso senza poi ammetterlo mai. La sua è una forma di violenza mascherata e... socialmente ammessa. In numerosi casi, la vittima riceve danni psicofisici non indifferenti da tanta cattiveria esercitata con precisione chirurgica. Il mobber crea intorno al mobbizzato un'atmosfera ostile, aizza il gruppo contro di lui/lei, sparge pettegolezzi infondati tra i colleghi, esercita psicoterrorismo sul soggetto prescelto (ma non raramente i suoi bersagli sono molteplici...), crea difficoltà nello svolgimento del suo lavoro arrivando persino a manometterne il computer o altri strumenti di lavoro.





Link esterno: mobbing sul lavoro: che cos’è e come tutelarsi



Nei due video seguenti, ci sono alcuni suggerimenti utili; rivolti soprattutto a individui molto sensibili, a quelli che, purtroppo, si lasciano intimidire.








Chi invece non vuole lasciarsi sopraffare fin dal principio e non vuole diventare uno dei casi - e sono tanti... - che cercano supporto presso medici e/o legali, non si fissa maniacalmente sul proprio dramma. Rimane calmo a ogni aggressione senza tuttavia chiudersi in mutismo, analizza la situazione senza mostrare segni di isteria (possibilmente), si confronta con altri colleghi, parla con i superiori e, se non vive del tutto isolato, si rivolge anche ad amici e familiari. È importante tenere sempre alta la stima di sé! Non sono rari i casi di mobbed caduti in depressione, di mobbizzati che hanno fatto abuso di sostanze farmacologiche e le cui relazioni sociali sono andate in crisi. 








Alle critiche continue e infondate, chiunque di noi dev'essere in grado di reagire personalmente, adottando gli strumenti messici a disposizione dall'intelligenza. Abbiamo una nostra forza interiore ed è bene far leva su di essa per districarci dal groviglio di serpi, per uscire dalla morsa viscida. 



La forza interiore è potere buono



Ai gruppi, enti o associazioni anti-mobbing ci si rivolge soltanto se, per davvero, non c'è nessun'altra via d'uscita. D'altronde non mi risulta che qualcuno di essi abbia mai potuto realmente aiutare una persona, rimuovendo e punendo i mobber. Al massimo, hanno potuto curare qualche danno ricevuto dal mobbizzato (nemmeno tutti!).

Ben altra cosa è se il soggetto è debole, realmente indifeso, e riceve provocazioni anche pesanti e alla luce del sole, e finanche minacce... magari insieme a  molestie sessuali. In quel caso, e visto che, il più delle volte, dalle persone circostanti (per codardia e ipocrisia) il singolo non riceverà alcun aiuto, bisogna assolutamente che si inneschino tutti gli strumenti di difesa messi a disposizione dall'azienda, dalla società. 

O, ancor meglio, sarà conveniente, per la vittima, cambiare aria.


E qui torniamo al concetto, a me caro, della necessità di essere liberi, con pochi o nulli legami gravosi, e tenere sempre pronto il bagaglio di viaggio. 

Ma è un discorso più ampio.





sabato, gennaio 04, 2020

Capitolo 2 e Capitolo 3 di 'Transits'

 Da: Transits, romanzo (quanto?) distopico


2

Il plico con dentro il contratto definitivo d'assunzione mi arrivò via UPS.
«Non firmare!» mi esortò Allen.
Come al solito il mio compare sedeva in mutande su un tappetino lercio, sotto la lampada che penzolava nuda dal soffitto, in mezzo alla folta vegetazione che conferiva all'appartamento le sembianze di una serra. Era ben pasciuto ma, come me, eternamente affamato. Nonostante ciò, si incaponiva a non voler ingerire carne, ovvero "ciccia e tessuti animali", come diceva lui. La flora che gli cresceva tutt'intorno costituiva praticamente la base della sua alimentazione.
«Se firmi», aggiunse, «vendi l'anima al diavolo.»
Lo guardai incuriosito. La sua non poteva essere una psicosi da trip. Allen non si faceva mai di pillole. Per quanto possa sembrare strano, lui era nato così. A meno che... «Hai bevuto?» gli chiesi.
Effettivamente negli ultimi tempi aveva sviluppato un'insana attrazione per i superalcolici. Ci assomigliavamo anche in questo.
«Ho cannato qualcosa», rispose in maniera vaga. Poi m'investì: «Che intenzioni hai? Cambiare fronte? Prostituirti? Entrare nei meandri di affari oscuri, pacchetti azionari di dubbia provenienza e capitali riciclati?»
«Smettila di sclerare. Ho solo l'intenzione di lavorare, né più, né meno. Qualcuno deve pur pensare all'affitto, no? Ti assicuro che si tratta di un posto comodo e pulito. Sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana. Mi pagheranno per giocare al computer e chattare con i colleghi.»
«La Kosmos Enterprise è un'opera di Satana!» incalzò lui. «Dietro la facciata delle attività economiche, questa multinazionale esercita un rigido controllo su tutto e tutti. Tut-ti. Anche su chi si illude di rimanere fuori dal gioco. E, scientemente, influisce sul nostro rapporto con la gente e con il potere. Intanto, nel caso tu non te ne fossi accorto, ha già ridefinito i concetti di proprietà privata, ricchezza, povertà... oltre ai valori morali.»
«Beh, allora possiede poteri divini!» dissi ridendo. «Ma tu che puoi saperne, amigo?»
Allen sollevò il suo triplo mento, accennando al laptop. «Lo so, invece. Monitorizzo la realtà, io: tramite Hypernet e alcuni contatti. Contatti telematici ma pure in carne e ossa.» E soggiunse, al di sopra della musica (Jimi Hendrix vibrava colpi d'ascia all'impazzata): «Avrei preferito apprendere che lavi i cessi del MacDonald's, piuttosto! Anche se, in sostanza, ogni ditta è una filiale della Kosmos, ormai. Tutta un'unica organizzazione. Ma non ti chiedi come mai hanno preso te, te che sei un picchio di nessuno?»
«Forse apprezzano le mie qualità.»
«Attento, Pat. Attento, ragazzo mio. Con quelli non si scherza! È un organismo troppo grosso.»
«Quelli? Hanno dunque un'identità precisa? E chi sarebbero, secondo te?»
Anziché rispondermi subito, Allen si accese la pipa, con i gesti ponderati che sempre accompagnavano tale rito. Emise un paio di sbuffi verdastri prima di riprendere a parlare. «Alla guida della K.E.-Europe risulta essere un certo "Mister Info", spalleggiato da alcuni vecchi hacker. Gli hacker occupano posti preminenti nell'intelaiatura mondiale della Kosmos. Dopo essere stati assunti, e dunque risucchiati dal sistema, questi ex ribelli ed ex fricchettoni sono diventati dei cybersauri. Persino le strutture inferiori... i sottopalchi, per così dire... sono sostenute da rivoluzionari della prima ora che hanno scelto di stare al gioco: gente che un tempo era come noi e che oggi si gongola nel nuovo ruolo. Traditori che si sono venduti in cambio di automobili veloci, ville con giardinieri e ferie ai tropici.»
La luce se ne andò, ma si riaccese subito. Un fenomeno naturale, nei nostri fetidi bassifondi.
Allen sbirciò nervosamente verso il frigorifero, dove conservava i suoi preziosi libri, e quando l'elettrodomestico, con un sospiro, un sibilo e un peto si rimise in funzione, tornò a squadrarmi con aria di sfida. «Nient'altro che dei venduti», rimarcò.
Scossi piano la testa. Venduti, già. Auto veloci, vacanze ai tropici... ma non è quello che desiderano tutti? Allen litigava sempre con mezzo mondo. Purtroppo per lui, era il mezzo mondo ad avere ragione. Avrebbe dovuto smetterla una volta per tutte di ripetere come un pappagallo le astrazioni di fanzine illegali, molte delle quali (stampate su plastotables, chiaramente, non su cellulosa) stavano sparpagliate sul pavimento, disposte a corona intorno al suo tappetino da yogi.
Impugnai la biro, dicendo: «La tua è una lotta controvento, amigo. Mettiti nella cabeza che gli anni Settanta non torneranno più. È vero, quello fu un periodo speciale, in cui anche i loser e i solitari si muovevano come fossero i protagonisti di un film. Almeno così mi è stato raccontato, dato che, come sai, io sono nato più tardi. Buon per te che hai potuto vivere di persona quell'Età dell'Oro. Il Terzo Millennio però è cominciato da un pezzo». E, detto ciò, scrissi il mio nome in calce al contratto: Patrizio Ferroni. Con tanto di svolazzi.









3

Entrai nella mensa con passo deciso. Dietro al banco c'erano alcune servitrici con cresta e grembulino bianco che si preoccuparono di caricarmi il vassoio di vivande: farfalle allo zafferano con gamberetti, beefsteak e torta alla crema e pinoli. Tutta roba marca Fruity Shock, ma dall'aspetto appetitoso. Cercando con lo sguardo una sedia vuota, notai con stupore che qualcuno mi faceva dei cenni: un tizio con la chioma selvaggia e il pizzetto da moschettiere. Mi appressai al suo tavolo, che era occupato da un campionario di quelli che si potrebbero definire "eterni teen-ager". Mentre ancora appoggiavo il vassoio sul ripiano di teflon, cominciarono a presentarsi: Adriano, Enrico, Anna, Celestina... E i loro cognomi! Niente di più banale: Vasapolli, Pagnotti, Mantovan... Per fortuna tra di loro usavano soltanto i nomignoli: Pussyboy, Fool, Johnny Blue, Colgate... Quest'ultimo apparteneva a una brunetta tuttacurve alla quale sorrisi estasiato.
«Salve, Patrizio!» esordì Colgate, come se fossimo amici di vecchia data. «Superato il momento difficile?»
Arrossii, mentre scivolavo su una sedia. Come facevano a...? Si vedeva? In effetti, dire che mi sentivo insicuro sarebbe un semplice eufemismo. Se devo essere esplicito, l'angoscia mi divorava. Non riuscivo a capacitarmi che la Kosmos Enterprise mi avesse accettato e temevo che da un momento all'altro qualcuno si accorgesse dell'errore e mi scaraventasse fuori. Boccheggiai in preda all'imbarazzo, ma i presenti si affrettarono a rassicurarmi: «All'inizio è stato lo stesso anche per noi. Io per esempio, dopo essere stato assunto», mi disse Pussyboy, ovvero il tizio con il pizzetto, «ho sofferto di cefalea di tensione, crampi addominali e così via».
«A chi lo dici!» intervenne Protia, una ragazza con il viso incorniciato da un caschetto di capelli neri e con un inconfutabile problema di girovita. «In me, l'ansia di sapermi una novellina si è manifestata con difficoltà a prendere sonno e spiccata tendenza all'ipocondria.»
Coro di risolini.
«E questo perché ignoravamo in che cosa consistessero le nostre mansioni», concluse Colgate.
La guardai. Aveva un corpo impeccabile e gli occhi velati da un leggero make-up. «E ora invece lo sapete?» inquisii, afferrando le posate.
«Più o meno. Ma presto lo saprai anche tu.»

     

                       




Iniziai a mangiare, rimuginando su quest'ultima asserzione.
«Già», disse un altro tizio, uno con la pronuncia gallica. Era alto e dinoccolato e aveva sulla mascella tracce di barba mal rasata. «E lo saprai grazie ad Aleph.»
«Aleph? E chi è?» chiesi a bocca piena.
«Il computer centrale», rispose Fool (cravatta infallibilmente perpendicolare e jeans comprati al Sisley Twenty-Twenty).
Colgate tornò a sorridermi. «Aleph. Hai colto l'allusione letteraria? Secondo Borges, Aleph è il punto "dove si raccolgono senza confondersi tutti i luoghi della terra".»
«Beh, sì, Hypernet», dissi con un'alzata di spalle.
«Punto it, punto com, punto org...» si mise a enumerare Protia, e gli altri risero.
«No, Hypernet è ancora niente», mi spiegò Fool. «Aleph, "the blessed machine" come dicono qui, ha ben altre funzioni.»
«A proposito di funzioni», feci, un po' irritato: «sono proprio ansioso di scoprire come si giustifica la mia presenza in questo luogo».
«Non hai una laurea e neppure aderenze sosciali, vero?» intervenne il tizio dinoccolato.
«Uhm. Io veramente...»
«Non devi mica vergognarti», tornò a rivolgermisi Colgate. «Siamo tutti nelle medesime condizioni, credimi.»
Lanciai un'occhiata circolare. E così, anche loro erano dei pivelli. Mi era parso infatti che fossero un po' strambi, e certamente inadatti a un lavoro di rilievo presso una company come la Kosmos. Ma la mensa sembrava pullulare di gente simile: neo-yuppies che indossavano abiti "vintage" ed esibivano capigliature singolari o altre particolarità discordanti. Un ammasso multirazziale, peraltro. C'era una ragazza di colore molto carina qualche tavolo più in là che stava a dialogare con un discendente dei vichinghi. E, in fondo alla sala, individuai Marilinda, in compagnia di altre impiegate o segretarie che fossero (quasi tutte bionde come lei). Notai che si era tinta le unghie dei piedi a tutti frutti, in neon. Beh, d'altronde cos'altro poteva fare per tutto il santo giorno la dipendente di un "boss" come me?
«Prima di entrare qui», ricominciò Colgate, «eravamo quel che comunemente si dice dei "falliti al cubo". Prendi il mio caso. Non facevo che bighellonare per tutte le orge della città.»
«Io invece ero presente a ogni party technorock», spiegò Fool.
«Mentre io non facevo un bel nulla», ammise candidamente Protia, la mora.
«Io idem», dichiarò Pussyboy. «Ero il classico segaiolo. Ma mi ha salvato la K.E. Accadde in una lontana estate densa di umori, di provocazioni femminili, di mutande stese al sole...»
La sua teatralità suscitò qualche altra risatina.
«E tu?» domandai al dinoccolato dall'accento francese.
L'uomo mi rivolse un'occhiata stanca prima di decidersi a sbottonarsi: «Insegnavo alle écoles moyennes. Alle scuole medie. Matematica».
Lo guardammo tutti con aria di commiserazione.
«Henri è, a conti fatti, il più qualificato di noi», osservò Colgate.
«E anche quello dal passato più squallido», commentò lo stesso Henri.
«Ma allora», insistei, «se la nostra matrice comune è essere nati perdenti, perché ci troviamo qui?»
Fu Johnny Blue a rispondermi: «La mia teoria... ma è solo una teoria, bada bene... è che fungiamo da materiale di sperimentazione».
Sussultai. «In che senso?»
«Siamo cavie, più o meno. Attraverso noi viene misurato l'eventuale grado di resistenza nelle Paludi del Non-Tempo... almeno a quanto mi pare di avere inteso.»
Dopo una pausa relativamente lunga, che mi servì a finire la torta, confessai di non aver capito un tubo.
«Capiremo meglio, tutti quanti, quando passeremo alla Fase Due. Per te ciò significa un'attesa di... vediamo... di circa tre anni.»
«La Fase Due di che cosa? Dell'esperimento?»
«Mais oui», rispose Henri. «Aleph però lo chiama in un altro modo. La denominazione ufficiale è: Codice Untergang.»
Scossi la testa, esausto ed esasperato, e ingollai dell'aranciata. Sorbole! Proprio buona. C'era la polpa e tutto. Sembrava vera.
Colgate mi sfiorò un braccio. «Sta' a sentire, Patrizio-baby: alla K.E. appartiene praticamente ogni cosa. Tutto quel che vedi, in qualsiasi parte del mondo, è proprietà esclusiva della ditta.»
«Eccetto forse i distributori di preservativi in Africa», gettò là Fool.
«No», lo contraddisse Colgate. «Anche quelli. La corporation non ha difficoltà ad arrivare addirittura fino ai boscimani. Quando si dice "mondo", si intende il mercato globale. La K.E. si occupa di cose grandi e piccole, di transgenetica così come di gomme da masticare. E del tempo.»
«Del nostro», opinai.
«Di quello di tutti quanti. Il tempo in generale.»
«E, per riflesso, anche della storia», intervenne Henri. Che proseguì: «Lo scopo di Codice Untergang è quello di procrastinare il futuro. La fisica moderna ci insegna che ogni cosa sottostà all'irrefragabile legge del tempo irreversibile. Et donc: Aleph, il computer centrale, ha varato un programma che tende ad accelerare il corso degli eventi... con un contemporaneo rallentamento del progresso. A proprio vantaggio, chiaro: così lui - Aleph - può inseguire il sogno dell'immortalità. Ma ciò va anche a vantaggio del genre humain».
«E rallentare il progresso tu lo definisci un vantaggio?» domandai nervosamente, dando un colpettino al mio vassoio. «No, smettetela! Mi state prendendo in giro. Cavie, Codice Untergang, gomme da masticare, preservativi... Non ci credete neppure voi. Sebbene...»
All'improvviso pensai all'amico Allen ed ebbi come una visione.
«Ma certo!» proruppi. «La Kosmos Enterprise si è comprata il mondo... l'universo... per poter stabilire il corso della storia! Ora comincio ad afferrare. Il vero potere non è conferito dall'accumulo di capitali, ma dal controllo sul divenire. La parola d'ordine è: no future. Già mezzo secolo fa William Burroughs si domandava: "Dove accidenti sono gli elicotteri individuali che ci avevano promesso?" E anch'io, da bambino, credevo che appena dopo il Duemila avrei preso la metropolitana a Mosca per poter sbucare un'ora dopo in una strada di Manhattan. Invece... Abbiamo oltrepassato da vent'anni... no, trenta... la soglia del Millennio e ancora non abbiamo il governo mondiale, non abbiamo né città su Marte né colonie sottomarine, e neppure automi che ci stirano le camicie o apparecchi di teleportazione. Abbiamo però i cloni, il genoma, l'intelligenza artificiale, i nanorobot: tutti fenomeni invisibili. Il domani è microcosmico. E presto lo sarà anche il presente. Noi umani siamo bestie troppo grosse: perciò, qualcos'altro dovrà nascere al posto nostro.»
I miei commensali si erano già alzati. Esibivano un'aria sconcertata. «Vieni, Pat», mi disse Colgate, sfiorandomi una spalla. «È ora di rientrare.»



(CONTINUA)

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lunedì, dicembre 30, 2019

'Transits' - secondo assaggio di lettura


Una company o un laboratorio di sperimentazione sociale?
                         Un ulteriore assaggio del romanzo distopico Transits
                                            di Peter Patti



Nell'androne, in mezzo a mucchi di immondizia, alcuni bambini giocavano con i loro miniesemplari di equus. Erano tra i più fortunati: di solito questi giocattoli (imitazioni ben riuscite degli ippoandroidi in dotazione all'esercito) potevano permetterseli in pochi, dato che costavano un occhio della testa.
Uno dei ragazzini aveva con sé un piccolo cane che, nel vedermi, abbaiò selvaggiamente.
Mi chinai sul pulcioso dicendo: «Sai solo abbaiare, cagnolino? Non mordi mai?»
«Attento che morde pure!» esclamò il moccioso, che era affetto da strabismo.
Lo osservai inarcando le sopracciglia. Conoscevo suo padre: nel suo appartamento allevava cani, e anche gatti, che faceva ingrassare prima di spacciarli come prelibatezze. Erano prelibatezze. Io stesso avevo mangiato di quella carne sotto gli occhi inorriditi di Allen, che era un vegetariano della prima ora, e potevo dunque testimoniarne la bontà.
«Non puoi giocare come gli altri, eh?» dissi al piccolo strabico.
«Si chiama Bello», si limitò a dire lui, trattenendo il cane che, ora ringhiando, avrebbe voluto avventarmisi contro, attentando alla salute dei miei calzoni.
«O-oh», feci, sgusciando via. «Scommetto che non ha nemmeno un pedigree.»
Guercino mi guardò senza capire.
«Un albero genealogico. Una famiglia. Non ce l'ha.»
«Oh sì, invece», mi contraddisse, mentre io ero già sul portone. «La mamma di Bello si chiama Momo, i fratelli Ingo e Immo. Il papà, Dracula, è morto lo scorso dicembre.»
«Morto cucinato», lanciai da dietro le mie spalle.
La strada pullulava di gente: l'armata dei senzalavoro. Non si può dire però che fossero sfaccendati. Da quando il governo non elargiva più il sussidio di sopravvivenza, i cittadini si dedicavano a molteplici traffici. Chi non si ingegnava, chi non aveva nulla da vendere, nemmeno i propri organi, finiva indigente, a morire sotto un ponte o un cavalcavia.
A me serviva urgentemente un lavoro. Non che temessi di trapassare in uno degli ormai numerosi "cimiteri dei morti di fame", come li chiamavano: finché Allen godeva di ottima salute, sarei potuto rimanere al sicuro con lui. Era soprattutto per ricaricare la mia Moneycard. Senza crediti a sufficienza, ci si sente più vulnerabili, a parte che la vita non è vita.
Era una bella mattina primaverile e fu perciò un piacere attraversare a piedi l'intera città. Era ancora troppo presto per imbattersi in qualche criminale prezzolato o in desperados armati di clava o coltello: la feccia più spietata sarebbe uscita solo con il calare delle tenebre, come gli scarafaggi.
Dopo aver ammirato per un po' il frontespizio del palazzo su cui capeggiavano le lettere "K.E.", spinsi la porta ad aria compressa e puntai sulla ragazza al desk. Lei mi indicò l'ascensore dicendomi a che piano dovevo salire. Intanto un guardiano in uniforme, con il distintivo della corporazione e il revolver bene in vista, stava a scrutarmi da rispettosa distanza.
Sbucai dall'ascensore in un corridoio pieno di lampade fluorescenti che diffondevano una luce biancastra. L'ufficio del researcher era a sinistra. Picchiai sulla porta ed entrai.
L'uomo aveva una testa a forma di proiettile e la voce rauca, come se un acido gli avesse corroso le corde vocali. Dopo i preliminari, mi pose alcune domande all'apparenza innocue ma che in realtà - come ben sapevo - erano parte integrante della prova attitudinale. Poiché non avevo nulla da perdere, risposi inalberando una buona dose di affabilità. A un dato punto lui scattò in avanti (parve quasi che la sua testa-proiettile fosse stata sparata da un cannone) e si alzò. Vidi che teneva qualcosa in mano: un mini-recorder. Notando la mia espressione irretita, mi spiegò: «È per i nostri archivi, sa». Poi mi mostrò alcuni grafici, parlando a ruota libera. Io guardai quelle proiezioni di disegni euclidei dicendo di sì senza capire un accidente. Infine venni mandato al controllo medico, dove non fecero altro che prelevarmi un po' di sangue.


Quando mi riconvocarono, un'ora dopo, mi stupii di sentire il researcher esclamare: «Congratulazioni, signor Ferroni! Il posto è suo». A conferma di quelle parole premette un bottone, e nel mio cranio le campane di una chiesa si misero a suonare a festa.
Fece il suo ingresso una venere bionda. «Questa è Marilinda», annunciò l'uomo. «Da oggi sarà la sua segretaria personale.»
Ero stordito, titubante. In fondo si trattava del primo colloquio di selezione che superavo... e già mi assegnavano la segretaria! La mia perplessità era dunque giustificabile. Nondimeno, fu con delizia che mi posi sulla scia di quella sventola di ragazza. Prendemmo l'ascensore, che già odorava di essenze ma che subito si impregnò del profumo - certamente costoso - di Marilinda, poi percorremmo lunghi corridoi rivestiti di coni fonoassorbenti, finché lei non si arrestò davanti a una porta.
Si chinò sul display e digitò la chiave d'accesso. Quindi mi lasciò il passo.
Era un ufficio ampio, dai vetri fumé e con una scrivania nuova fiammante. "Però!" pensai. "Niente male." Già: niente male per uno del mio stampo, per uno come Pat Ferroni, che per anni aveva mendicato un posto di lavoro qualsiasi e che non poteva certo vantare referenze attendibili.
La segretaria poggiò sulla scrivania due cartelle, dicendomi che vi avrei trovato tutte le informazioni che mi occorrevano. Dopo mi dedicò un sorriso smagliante e concluse: «Per qualsiasi cosa, mi chiami all'interfono».
«Senz'altro. Grazie, Marilinda.»
Aprii la prima cartella, su cui spiccava la scritta "Business Portfolio". Era piena di cifre e istogrammi che io non comprendevo e che forse mai avrei compreso. Passai alla successiva, quella dei "First steps per i nuovi impiegati - Fase Uno". Lessi:
"For any organization, large or small, communicating is important to being effective. Frequent communications with customers, employees, investors, or partners is a key driver to success".
Il testo parlava inoltre di "partecipazioni della Kosmos Enterprise a vari settori pubblici", di "proventi autoriproducentisi", di "Corporate Identity" e roba del genere. Scoppiai a ridere. Era tutto fumo, aria calda: non mi aiutava a capire nulla sulla natura dell'azienda, né quel che pretendevano da me.
Per gioco, e anche per fare una specie di prova tecnica, chiamai la bionda all'interfono.
«Sì?»
Non sapendo che cosa dirle, le domandai: «Di regola a che ora è fissata la fine della giornata lavorativa?»
«Alle quindici, signor Ferroni.»
La ringraziai e chiusi la comunicazione. Mi misi a occhieggiare in giro. L'ufficio era provvisto di tivù via cavo, computer e (eureka!) frigobar. A quest'ultimo sottrassi una bottiglia di Southern Comfort e, dopo essermene versato una generosa porzione, andai a sbirciare dentro un armadietto dall'aria misteriosa. Conteneva fruste, vibromassaggiatori e una bambola trisessuale di silicone. Annuii compiaciuto: in quella prigione di lusso c'era tutto l'occorrente per ammazzare il tempo senza annoiarsi. Dentro un cassettone scoprii un assortimento di giochi per PC recanti il marchio della Macrohard (una delle ditte che facevano capo alla K.E.). Ne testai alcuni con una mano sul mouseStick e l'altra stretta intorno al collo della bottiglia. I giochi strategici erano naturalmente per gli impiegati raziocinanti, mentre quelli d'azione erano destinati ai tipi come me, agli impulsivi, agli impazienti. Guidai un carro armato, poi un'astronave, e in ultimo mi lasciai catturare dal fascino di Doom XII, dove ero un soldato dentro un labirinto pieno di mostri e ragni cibernetici che dovevo abbattere prima che loro mi trasformassero in un guscio umano grondante sangue. Riuscii a raggiungere il terzo livello, dove deflagrai con un lugubre botto che colorò di rosso il monitor. Sempre abbracciato alla bottiglia, mi staccai dal computer e sprofondai in una poltrona di pelle. Accesi la tele e scanalai per un'ora o due. L'apparecchio era programmato per ricevere unicamente film - film per ragazzi, d'avventura, d'animazione, commedie, thriller, hard porn, ecc. Mi dissi: "Logico. Hollywood è un enorme mercato allucinogeno. Proprio quel che occorre al manager stressato".
Tornai a perlustrare l'armadio. C'era, in fondo a uno scaffale, una videocassetta. Si trattava di un supporto ormai antiquato, la cui vista mi spinse al sorriso ma anche a inarcare interrogativamente le sopracciglia. Era senza copertina né etichetta. Tentennante, la rigirai tra le mani. Nell'ufficio non era presente nessun videoplayer (ne esistevano ancora? L'ultima volta che ne avevo visto uno era stato nell'èra giurassica...). Mi strinsi nelle spalle e riposi la videocassetta sullo scaffale, dicendomi che forse era stata dimenticata lì dal mio predecessore.
Guardai ancora un po' di tivù, prendendo definitivamente confidenza con il telecomando, e infine me ne stetti del tutto inoperoso a osservare dalla finestra il traffico sottostante come attraverso un cannocchiale capovolto. Il Southern Comfort si esaurì e, quando girai il polso per leggere l'orologio, scoprii che mancavano cinque minuti alle tre. Il mio primo giorno di lavoro si era concluso brillantemente. Uscii barcollante dalla mia gabbia dorata e salutai Marilinda. Lei mi rivolse un sorriso a trentadue denti, flautando: «A domani, capo».

                                                                                          (CONTINUA)








sabato, gennaio 06, 2018

Romanzo sull'emigrazione italiana in Germania

La versione cartacea de I Canachi: Un romanzo storico è online nell'Amazon Store. 
È disponibile per l'acquisto qui.



Copertina flessibile, 248 pagg, 15 euro


L'Autore:



 Peter Patti scrive anche sotto gli pseudonimi franc'O'brain, Peter Parisius... e altri ancora.
Ama il progressive rock, il cinema (soprattutto giapponese) e la letteratura tedesca e angloamericana.
Si guadagna da vivere come operaio metalmeccanico.