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lunedì, dicembre 30, 2019

'Transits' - primo trancio d'assaggio


Lavoro o esperimento sociale? Un primo trancio d'assaggio di Transits, di Peter Patti




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Mi inocularono una sostanza nella nuca, poi mi trascinarono in un'ampia sala, dove mi costrinsero a mettermi a cavalcioni di una bicicletta senza ruote. L'ambiente era in penombra: potevo riconoscere un'infinità di spalle ondeggianti e il lampeggiare di una spia di controllo sul manubrio di ciascuna delle cyclette. Mi ordinarono di premere sui pedali. Ubbidii controvoglia, mentre un venticello artificiale mi spettinava le sinapsi. Su un enorme schermo scorreva il film di una strada di campagna, come un desktop animato. Tutt'intorno c'era il sibilo delle dinamo, un ronzio ininterrotto di mosche ubriache: gli altri prigionieri pedalavano con foga, molti magri fino all'osso, tutti con lo sguardo fisso sulla strada in panavision.
I mastini che mi avevano condotto fin lì si allontanarono. Ne approfittai per rivolgermi a un vicino di fila. «Ehilà, amigo!» lo chiamai. Ma non mi diede retta. Il rumore dei meccanismi era troppo forte, impossibile capirsi. Vidi che lui aveva gli occhi sbarrati, in preda a un'estasi chimico-motoria. Pian piano la droga fece effetto anche su di me. Nel mio cervello una voce iniziò il countdown: FIVE-FOUR-THREE... TWO... ONE... Dapprima ci fu un lampo perfettamente bianco, come di lampada al magnesio; seguirono diversi sismi cerebrali e il sussulto dei muscoli delle gambe. Mi aggrappai al manubrio, concentrandomi sullo schermo. Ben presto la bici si trasformò in un razzo.
Pedalavo e ghignavo. Correre, correre... Il fine era la via stessa. Ogni tanto un tubo di gomma si calava dal soffitto, consentendomi di succhiare una pappa viscida ma nutriente. Evidentemente i sensori che mi avevano applicato agli arti e al petto registravano il livello delle riserve noradrenaliniche...






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Dovevo molto alla Kosmos Enterprise. Mi aveva consentito, tra l'altro, di lasciare il mio malfamato quartiere e di andare ad abitare in un ghetto esclusivo per impiegati d'alto rango. Certo, il trasferimento comportò la seccatura di dover rinunciare alla compagnia del buon vecchio Allen, una specie di Buddha ex sessantottino dotato di cultura enciclopedica (per anni io e Allen avevamo condiviso la stessa tana), ma ora contava soprattutto il sapermi sistemato e percepire uno stipendio vero.


La centrale europea della Kosmos Enterprise, un grattacielo tutto vetri e acciaio temperato, era ubicata a Colleverde, nel ventricolo più sano del cuore della metropoli. L'edificio era avvolto in una nube di insondabile mistero. Vi entrai la prima volta in un lunedì d'aprile, incoraggiato da un'agenzia headhunting. Quelli dell'agenzia mi avevano assicurato che la posizione di operating manager faceva giusto al caso mio. Così spolverai il mio abito migliore e andai all'intervista. L'oroscopo mi era favorevole: "Cancro: in questo periodo le stelle vi danno maggiore concretezza, facendovi progredire nel lavoro, negli affari e in ogni questione di ordine pratico." Ero tuttavia pieno di dubbi: sia a causa della mia scarsa scolarizzazione, sia perché nessuno era riuscito a spiegarmi che diavolo è mai un operating manager.

Non nutrivo nessuna speranza di essere assunto. Ma d'altra parte, perché non tentare? Ormai avevo collezionato così tanti "no" che uno più, uno meno...

La nota positiva di quei colloqui era che gli intervistatori sembravano inequivocabilmente attratti da me. Non pochi di loro mi invitavano a pranzo, "per conoscermi meglio". Io di solito accettavo solo i meal tickets delle intervistatrici e imbastivo storie pretestuose per rinunciare a quelli dei loro colleghi maschi. La nota negativa era che tutti si rivelavano essere più noiosi di quanto non fosse lecito attendersi. Ma stavolta forse sarebbe stato diverso. Mi ripromettevo di non annodare vincoli di letto. Del resto, la Kosmos Enterprise sembrava una ditta seria. Perciò mi incitai: «Vai, Pat, vai!»


(CONTINUA)

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lunedì, luglio 08, 2019

'24 scatti' - Recensione


Anna Belozorovitch
24 scatti
romanzo

Besa Editrice


Anna Belozorovitch è una scrittrice interessante. Già iniziando la lettura di questo suo lavoro in prosa si capisce che il suo è un linguaggio innovativo, pur rimanendo elegante ai limiti del classico (una classicità moderna, certo). L’autrice, nota anche come poetessa, usa frasi del genere:

”... scese lentamente col corpo verso il letto...” (anziché: “si inchinò verso il letto”); “tentando di alzare le palpebre pesanti verso l’ampia finestra...” (anziché: “rivolgendo gli occhi dalle palpebre pesanti verso la finestra...”).

Ogni cosa, in queste pagine, è movimento fluido.
“Lei sorrise e lui la seguì sorridendo” (ma i due non si stanno spostando, non stanno andando in qualche dove: l’una è sdraiata, l’altro le sta accanto; altri avrebbero scritto, più sbrigativamente: “lei sorrise e lui fece altrettanto”).





Il “lei” e il “lui” della vicenda sono Mara e Marino: un’assonanza di nomi non del tutto casuale. Proprio questa corrispondenza, proprio l’armonia di sillabe, serve a sottolineare l’ineluttabilità dell’unione del binomio in questione. Pur se nulla - come abbiamo accennato - sembra poter essere definitivo e scontato. Infatti persino un volto, addirittura un volto dolce, può trasformarsi all’improvviso in una maschera tragica.
Belozorovitch è sempre cosciente della plasticità del mondo e se ne fa portavoce. La Mara del romanzo ovviamente è la stessa scrittrice... almeno in parte. Così ci sembra di intuire. D’altronde: come potrebbe essere altrimenti? Trattasi di donna libera, che procede sicura su una strada scelta da lei medesima... anche se è una strada che si presenta non scevra di ostacoli. Marino, di contro, ci appare fin dall’inizio come un tipo problematico, fin nei gesti, fin nelle pose; addirittura nel fisico. Abbiamo dunque la contrapposizione tra semplicità, quasi “trivialità” (la donna, animale autosufficiente, capace a volte di un peccato veniale) e un essere scostante, ombroso, angoloso (il maschio suo compagno, comunque innamorato).



Le storie di Anna Belozorovitch si evolvono con scioltezza, con agilità quasi ipnotica, punteggiate di flashback. Ci si ritrova a vivere un frammento antecedente all’oggi nei più minimi particolari, eppure il lettore non arriva a stancarsi: un carattere o uno scorcio paesaggistico, un individuo oppure una casa vengono abilmente descritti con pennellate rapide e precise.
Ogni capitolo (e il primo inizia con “2”, non con “1”!) contiene riflessioni - traslate in gesti e parole - sull’amore, il vero grande miracolo dell’interagire tra umani. Ci sono silenzi, ma anche essi hanno un loro perché: come in un film neorealista o in un’opera dell’esistenzialismo francese.
Intorno alla coppia di protagonisti si attorcigliano le fotografie di situazioni, luoghi e personaggi ‘alia’ che hanno fatto di loro quel che sono. E il lettore vuol saperne di più. È come se un rullino fosse già stato sviluppato mentre altri stessero ad attendere di essere tirati fuori dal cassetto ed esternati, rivelandoci nuovi particolari. Il passato è una girandola mai veramente trascorsa. I giorni finiti sono composti da dagherrotipi in movimento che, più efficaci di un calendario, segnano il passo della nostra esistenza.
Il media della macchina fotografica (o “fotocamera”, come viene più propriamente chiamata nel libro) non è stato scelto alla cieca. Belozorovitch è una scrittrice di “scatti”, di “istantanee” che, messe in fila, vengono a formare una narrazione a tratti complessa - com’è complessa, o ad ogni modo eterogenea, o forse è meglio dire composita, la vita. Siamo di fronte alla nuova lady della letteratura intelligente. 



La storia narrata in 24 scatti è a spirale. Prima è lei - Mara - a sembrare totalmente persuasa di sé e padrona del proprio destino, ma a poco a poco (complici le foto “nascoste” nel rullino) ci viene suggerito che la donna possa essere depositaria di qualche mistero labirintico. Che sia responsabile di chissà quale colpa...
L’incombente operazione di sviluppo che servirà a rendere visibili le immagini latenti nella pellicola dovrebbe risolvere l’intrico.
Dovrebbe.


Lasciatevi incantare anche voi da questo bel romanzo che trasuda autenticità. 24 scatti è un prodigio. E ancor più lo è l’autrice.


Recensione pubblicata su Progetto Babele


giovedì, marzo 28, 2019

Immaginando papà

Oggi son tornato, dopo molti anni che non lo facevo, a camminare lungo un binario. Si tratta dell'ex linea Wasserburg sull'Inn-Reitmehring, sospesa (e abbandonata a sé) dopo l'alluvione dei primi Anni 80.
(L'Inn straripò come aveva fatto sempre nel corso dei secoli, ma raggiungendo quella volta un livello record, e asportò molto del terriccio che sosteneva l'unico binario).




Calpestando le traversine, pensavo a mio padre e ai milioni di chilometri di linea ferrata da lui percorsi in qualità di macchinista delle FF.SS.



A un certo punto il binario morto sembrava puntare verso il cielo e ho fantasticato di trovare, in fondo alla tratta, il mio papà, e di corrergli incontro con una risata, esclamando: "Ti ho raggiunto, finalmente!"
E lui, sollevando gli occhi dalla Settimana Enigmistica e guardandomi da sopra gli occhiali di lettura: "Ma perché, figlio mio? Potevi restare dov'eri..."


Nostalgia delle vecchie ferrovie