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sabato, giugno 20, 2020

Il Sogno Di Rubik - album con il botto!




Che suoni, ragazzi! Che intensità! Che forza!
È rivoluzione? È reazione? Forse è solo azione. Ci fa riflettere molto questo Tentacles and Miracles: sull'iperbole della rivolta, che era schietta negli Anni '60, si "militarizzò" nei '70, si autoannullò nell'estetica durante il terribile decennio degli Eighties, ebbe un ritorno - ma solo a forza di suoni e letteratura e cinema, e dunque a livello di slogans e atteggiamenti - negli Anni '90... e che oggi tende a chiudersi come un cerchio, sposando estetica e lotta vera.

L'album de Il Sogno di Rubik esce domani... o dopodomani... o era l'altroieri? Ma come dobbiamo misurare il tempo se siamo rinchiusi dentro un tesseratto (inglese: tesseract) sospeso nel nulla, pare, e che rotea e muta di forma a ogni momento? Se ci troviamo all'interno di un cubo snodabile?

I brani:

1. The well of miracles (5:27)
2. Silky bliss and black waters (6:48)
3. Tentacles (5:22)
4. In the back of the real (5:10)
5. The timekeeper (4:21)
6. The planet of supreme satisfaction (9:42)
7. A better nightmare (5:03)
8. The suite of miracles (9:53)

 
       "A better nightmare"



Iniziamo porgendo l'orecchio con fare distaccato, lontani dagli altoparlanti, magari mentre si fa altro. Peraltro, ci approcciamo all'album ignorando bellamente le note di presentazione mandate dalla casa discografica. Abbiamo il privilegio di poter scrivere di Tentacles and Miracles in anticipo su tutti, di ascoltarne i brani prima che essi vengano scagliati verso le grigie fila di uomini in marcia là fuori (il riferimento a Metropolis non è casuale).
L'empatia, l'Einfühlung cresce con l'ascolto e ci "accorgiamo" che le casse appartengono proprio al nostro apparecchio riproduttore di suoni e che siamo stati noi stessi ad aver inserito il disc nell'apposita fessura. Ci tocca avvicinarci e prestare più attenzione - al più tardi dalla terza, potente traccia, "Tentacles" - per accertarci che non si tratta dei Dead Cross. Semmai ci sono echi (quanto consci?) dei padri: i Faith No More. Ma eravamo completamente presi, a dir la verità, già dopo la straniante fanfara ad incipit (all'inizio di "The well of miracles"). Non è sangue ciò che sgocciola dai circuiti stampati, ma olio di macchina - misto a olio di gomito.



De Il Sogno di Rubik troviamo tracce, prima di questa novità, nel 2016: in una compilation dal titolo '17 Re'. È stata una delle 16 band italiane selezionate dai Litfiba allo scopo di incidere un album con le cover dei brani contenuti in un loro disco di trent'anni prima (17 Re, appunto). E poi c'è almeno una partecipazione al Taranto Rock Festival. Okay. E Tentacles and Miracles?

Belle "pieces"! Ed è il minimo che se ne può dire. Non si può non ammirare la convinzione di fondo, la propositività distopica. Insomma: la potenza. I nostri diffusori stanno fumando e i vicini di casa... beh, loro devono essere svezzati alla / dalla buona musica. 

Cosimo D'Elia - vocals and lyrics 
e
Francesco Festinante - guitars, bass and midi programming

hanno svolto un ottimo lavoro. Le loro sono songs didascaliche (ma in maniera crimsoniana, e con un canto in lingua inglese spesso baritonale che ci rammenta Mike Patton) di una realtà apocalittica. C'è una fanfara composita iniziale e una suite, sgangheratamente gloriosa, a chiusura dell'album, dove tutti i vertici delle figure vanno a raccogliersi. In mezzo: marce, entrate, cambi di scena come in un'opera teatrale o in un musical da "The Day After", e gioco chitarristico assai abile. In uno o due brani scopriamo che il punk è più bello quando si serve del jazz, e in un altro ("A better nightmare", vedi video) sperimentiamo la velocità di visioni forse cibernetiche.



È progressive? Certo! Lo è nel senso di uno sperimentalismo zappiano; solo che l'ironia qui lascia il posto a un sottotono tragico, disgraziatamente attuale (pregovi dare una scorsa ai testi). È punk progressivo, metal, doom. Ma a che servono i paragoni e le classificazioni? L'originalità del progetto è indubbio. E tanto poco "italiano"!

C'è il labirinto sociale che si rispecchia nella nostra anima per un'introspezione tormentata. C'è la routine sistematica cui "loro" ci hanno costretto. E c'è la prigione, comoda se non fosse per i colori innaturali e gli angoli tagliuzzanti. I suoni, apparentemente spiazzanti quando scivolano come metallo pesante sul ristretto palco di un teatro da vaudeville ("Silky bliss and black waters"), in realtà segnano il cammino di noi tutti, che si svolge non al di là delle pareti ma "dentro" di esse: nell'immensità del data world. Le melodie servono, al nostro essere in fuga, ad appigliarsi a qualche palo d'ormeggio, per non volare via come una mongolfiera.



Quoi d’autre?

Nostri brani preferiti: "The timekeeper" (traccia n. 5), "The planet of supreme satisfaction" (n. 6), "The suite of miracles" (n. 8).

              
      
 


Gli strumenti utilizzati:

Chitarre : Gibson Les Paul Custom del '97, Fender Stratocaster assemblata '73-'76, Fender Stratocaster Contemporary Japan dell' '84-'86 con Duncan JB Sunior e Sl59. Martin acustica.
Basso : Stinger.
Ampli : Tutti VST. Guitar Rig e Amplitube anche per il basso. Solo su "Tentacles" Festinante ha fatto un reamp con Mesa Express 50.
Batteria : Studio Drummer.
Orchestra : IK Multimedia Miroslav Philharmonik.
Mellotron : IK Multimedia SampleTron.
Organo e synth : VST della serie TAL ed altri.






Bene. E dopo aver ignorato finora, a bella posta, la scheda "editoriale", la leggiamo e non possiamo che ricopiarne qui alcune righe, perché essenziali. 

L'album esce il 21 giugno 2020, giorno del solstizio d'estate e quindi di rinascita nonché giornata dedicata alla protesta contro il Governo italiano che non ha messo in campo alcuna iniziativa a favore dei lavoratori della musica e nessuna indicazione per dare la possibilità agli stessi di LAVORARE nell'ambito culturale che più appartiene alla loro specificità. IL SOGNO DI RUBIK, insieme alla G.T. MUSIC DITRIBUTION (etichetta dell'album) e alla MICIO POLDO EDIZIONI MUSICALI (editore delle canzoni) si aggregano a questa protesta in maniera ancora più "aggressiva" ed indipendente, facendo idealmente uscire un album (di domenica!!!) quando viene, per protesta, proposta una giornata di silenzio musicale e totale.

Prodotto da Francesco Festinante e Cosimo D'Elia

In un meraviglioso digipack a tre ante con leporello a 8 facciate, artwork di Monica Cimolato

Album teaser: https://www.youtube.com/watch?v=pjgxwbI6nHE

  
 

domenica, ottobre 05, 2014

Recensione de 'I Fidanzati' (Olmi)



I film riusciti sono anche dagherrotipi del "momentum" in cui sono stati girati.

Nel 1963 Ermanno Olmi realizza questa pellicola che, oltre a ricalcare i toni esistenzialisti tipici di quell'epoca, ci dà l'immagine di un'Italia industrializzata che tenta di imporre la propria nuova mentalità "produttiva" anche ai Buoni Selvaggi nostrani.

Carlo Cabrini e Anna Scanzi nei ruoli principali.


Il plot:

Nel Settentrione italiano degli anni del Boom, Giovanni si fa notare per la sua abilità di operaio tecnico, guadagnandosi una promozione in Sicilia, dove, per 18 mesi, dovrà contribuire alla nascita di un nuovo reparto.
La sua relazione con Liliana è attualmente caratterizzata dalla mancanza di dialogo, e questa sua trasferta verso un mondo di fatto assai distante non può giovare al rapporto tra i due.

(Liliana: "Quanto tempo che siamo fidanzati! Quanti anni! Più che fidanzati, tu lo sai. Eppure, non ci siamo mai confidati, non ci siamo mai parlati...")

La coppia si incontra regolarmente in una sala da ballo e, a volte, c'è l'occasione di una corsa in moto. Poi lui parte. Lo vediamo guardare con occhi estranei e malinconici il nuovo ambiente, caratterizzato da scorci squallidi, ma anche da ritratti umani quasi macchiettistici.
La solitudine al Sud spinge Giovanni a ripensare alla sua relazione con Liliana. Ammette a se stesso di non esserle stato del tutto fedele. Negli occhi di lei, si specchia il dolore e un senso di fatidico distacco. 


Come può agire questa lontananza alla loro storia? Ci sarà un futuro per i due "fidanzati"?


Nel 1963 il Neorealismo era già passato, per questo preferisco parlare nel caso di questo film di... Esistenzialismo. L'occhio di Olmi si concentra sulle cose semplici della vita, nonché sul mondo del lavoro (che semplice non è). Il regista bergamasco era peraltro stato un documentarista e, come nella sua pellicola precedente (Il posto, 1961), ci sono temi che si ripetono: un nuovo lavoro per il protagonista, nuove circostanze sociali e paesaggistiche. La complessità di un mondo che cambia viene descritta in maniera naturalistica, e dunque autentica, ma arricchita in senso artistico dalla psicologia dei protagonisti.


Il lavoro aliena, il lavoro disumanizza. Inoltre c'è da registrare, nell'Italia di allora, la scarsità di spazi abitativi, conseguenza soprattutto della Seconda Guerra Mondiale (persino a quindici anni di distanza dalla fine del conflitto; problemi alimentati da una speculazione incontrollata). Nonostante si parli di "Boom", di "crescita", è difficile, per una giovane coppia, formare una famiglia.

La musica dal vivo che il pianista e il fisarmonicista suonano all'inizio del film si trasformano, nella testa di Giovanni, nella colonna sonora del suo viaggio e in quella dei flashbacks degli episodi vissuti insieme alla sua ragazza. I pranzi solitari nell'albergo, la sordidezza delle camere che Giovanni ispeziona alla ricerca di una tana dove soggiornare per il prossimo anno e mezzo, sono tappe di un percorso narrativo obbligatorio. Olmi lastrica però il copione di parentesi rivelatrici (e documentaristiche, appunto) sull'Italia operosa di quel decennio, dove, alla "serietà industriale" degli imprenditori e lavoratori del Nord, fanno da contrappunto le tradizioni della gente del Meridione. Vedi l'episodio dell'incidente occorso a un operaio che deve essere portato via con l'ambulanza. Il caposquadra spiega a Giovanni che i lavoratori siciliani non hanno un'etica lavorativa adeguata: abituati a lavorare nei campi, molti di loro addirittura non si presentano nei giorni di pioggia...


La corrispondenza tra i due fidanzati è un sottotema indispensabile. Nelle sue lettere, Giovanni si lamenta del silenzio di Liliana, e lei come tutta risposta esprime i suoi dubbi: Ero insicura se scriverti o no... Mi vuoi davvero ancora? Ho perso la fiducia, e anche la speranza...
Le lettere scandiscono il lento trascorrere del tempo. Giovanni continua a giurarle di amarla; lei invece usa un tono di sconforto.

La telefonata al termine del film, disturbata da un terribile temporale, lascia pensare a una probabile rottura amara tra Giovanni e Liliana; ma uno spettatore esperto di opere con uno sfondo di alienazione e disagio esistenziale, non sta a chiedersi se i due alla fine convoleranno a nozze, bensì sa cogliere i cenni - appunto esistenzialisti - che ci lancia il regista: sull'inanità dell'uomo, sulla precarietà della nostra vita e delle nostre relazioni.

Siamo tutti soli, siamo tutti vulnerabili. Anche nell'amore.



domenica, aprile 29, 2012

'Departures' - recensione

Quant'è sottile la linea che divide la vita dalla morte? E che cosa c'è... al di là del "cancello"?



Lo confesso: non conoscevo Departures, e solo tramite MyMovies ho appreso che ha vinto un Premio Oscar (!). Riconoscimento meritatissimo, giacché la pellicola ha valore addirittura didattico. Durante la visione (nel pieno della notte: in Italia questi film, se mai vengono trasmessi, vengono trasmessi a orari impossibili) ho riso e (soprattutto) pianto, e chi dice che quest'opera tradisce delle lungaggini ("... tempi di narrazione giapponesi..." sic!) parla di sicuro per ignoranza, oppure perché è ormai corrotto dalla vita folle che tutti noi siamo costretti a condurre; o, ancora, perché si è rifiutato di lasciarsi catturare dal caleidoscopio di eventi - semplici quanto essenziali - che tanto abilmente Yojiro Takita ha saputo costruire e montare insieme.

La sequenza iniziale ci mostra il giovane Daigo Kobayashi a un bivio esistenziale, a un crocevia dell'umano viaggio: alla guida di un'automobile, Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) sta a riflettere su quant'era vuota la sua vita a Tokyo, e su quella che sta conducendo adesso, in una sperduta provincia nipponica oppressa dall'inverno.
Ciò già serve a creare un'analogia, anzi un legame stretto, tra lui e noi - e, direi, anche tra Oriente e Occidente: tutti quanti, difatti, a prescindere da razza, nazionalità e credenza religiosa, siamo chiamati, una o più volte nel corso dei nostri anni terreni, a sciogliere ogni dubbio e prendere una decisione importante...

Le scene che seguono ci presentano il Nostro durante l'espletamento della sua professione: eccolo alle prese con un cadavere - il cadavere di una ragazza. Eh sì, perché lui di mestiere fa il "thanatos-estetista". Lo vediamo apprestarsi a ricomporre quel corpo inanimato prima dell'Ultimo Viaggio (un viaggio la cui prossima tappa è ancora tristemente prosaica: trattasi della fornace dove le spoglie umane sono destinate a bruciare insieme alla bara), quando ad un tratto si accorge di "una strana escrescenza" in mezzo alle gambe della defunta...

Gli elementi grotteschi, così cari a molti registi giapponesi, qui sono saggiamente ridotti al minimo necessario. Sarebbe assai facile, facendo leva sulla caducità della carne, strafare con dettagli raccapriccianti in grado di cagionare deliranti gridolini e-o risate di orrore. Intendiamoci: questa è una pellicola che narra anche - e soprattutto - di vita; ed è vita pura e autentica quella che ci investe insieme al subitaneo ed esauriente flash back, ove viene illustrato il divenire lavorativo del protagonista, originariamente un violoncellista.

Daigo Kobayashi è capitato solo per necessità economiche in quell'agenzia di N.K. (= Nekro-Kosmesis), dopo che l'orchestra in cui lui suonava è andata in fallimento. Per un po', riesce a nascondere la natura della sua nuova attività a Mika, l'innamoratissima mogliettina (l'attrice Ryoko Hirosue)... Perché, infatti, il suo è un mestiere di cui vergognarsi... O no?
Quando il vociferare alle spalle di Daigo si intensifica e la verità salta a galla, il giovane si sente come messo alla gogna dalla pubblica accusa. E Mika addirittura lo abbandona. E' con la forza della disperazione e dello spirito della natura, e anche con l'aiuto del suo esemplare maestro (interpretato dal celebre attore Tsutomu Yamazaki, già ammirato nella commedia Tampopo), che il ragazzo riuscirà a tirarsi fuori dal baratro psichico ed esistenziale: similmente al Dante della Divina Commedia e a tanti di noi che usano smarrirsi "nel mezzo del cammin di nostra vita".
La maschera vaga e offuscata del padre che, decenni prima, abbandonò la famiglia, e la musica suonata da Daigo al violoncello non solo dentro camere opprimenti e piene di ricordi, ma anche nel bel mezzo di un paesaggio che trabocca di agitazione faunesca, fanno da contrappunto al graduale scioglimento del nodo, di tutti i nodi; e all'abbattimento di un tabù - tabù che, come spesso accade, è stato generato dalla cecità mentale della gente.
 
Il ricongiungimento tra padre e figlio


Facit: un film da cineteca. Una meravigliosa opera di poesia che, addentrandosi in un tema tanto angoscioso come quello della morte, riesce a riconciliare lo spettatore... noi tutti... con la vita e il mondo.



venerdì, gennaio 02, 2009

Thomas Wolfe

ThomasClayton Wolfe nacque ad Asheville (Carolina del Nord) il 3 ottobre 1900, ultimo di otto figli di William Oliver Wolfe, scalpellino funerario e ubriacone idealista, e di Julia Elizabeth Westall, tirchia e litigiosa proprietaria di una pensione. A 15 anni si iscrisse alla University of North Carolina, dove curò il giornale e la rivista del college. Era un ragazzo parecchio sensibile, che soffriva per l'atmosfera piccolo-borghese che regnava in famiglia. In seguito alla frequentazione di un corso di scrittura teatrale, produsse il dramma in un atto The Return of Buck Gavin: The Tragedy of a Mountain Outlaw, che venne rappresentato dai Carolina Playmakers con lo stesso autore nei panni del protagonista.
Nel 1920 si iscrisse a Harvard, dove prese il Master (1922: lo stesso anno in cui il padre morì dopo una lunga lotta contro il cancro). Nel 1924 divenne professore di Letteratura Inglese al Washington Square College, Università di New York. Nei successivi sei anni fece la spola tra l'Europa e gli Stati Uniti d'America, cercando di realizzare la sua ambizione di scrittore. Soggiornò in Inghilterra, Francia,
Italia, Svizzera ma soprattutto in Germania, Paese da lui molto amato e purtroppo già in procinto di essere inondato dall'orda nazista.


Nel 1925 incontrò a New York Aline Bernstein (1882-1955), costumista e scenografa del Theatre Guild. La Bernstein era più anziana di lui di diciotto anni ed era sposata con un agente di borsa con il quale aveva due figli. Thomas e Aline iniziarono un legame turbolento, fatto di scintille, litigi e riappacificazioni. Nell'estate del 1926 lui tornò in Europa e scrisse la prima stesura di Look Homeward, Angel (Angelo, guarda il passato), romanzo con forti connotati autobiografici in cui rielaborò i ricordi di gioventù. Spunta qui il primo alter ego dello scrittore: Eugene Gant, di "Altamont>" in "Old Catawba" (rispettivamente Asheville e Carolina del Nord; la
storia di Eugene continuerà poi in Of Time and the River, in italiano Il fiume e il tempo).


Look Homeward, Angel è una denuncia del provincialismo e nel contempo una dichiarazione d'amore ai vecchi e semplici valori della vita che solo nei piccoli centri abitati possono essere preservati. Ma è in primis un romanzo sul divenire di un artista e sulla sua identità, oltre che sullo scorrere del tempo e sulla - mai veramente soddisfatta - ricerca del padre. L'infanzia di Eugene Gant è infelice. E' grazie al bieco materialismo della madre che la famiglia può tirare avanti e sarà solo grazie all'appoggio economico di lei che Eugene potrà studiare, ma tutto il suo affetto va al padre, un romantico sognatore.


Il successo del romanzo fu sensazionale. Tuttavia, gli abitanti di Asheville andarono su tutte le furie per come Wolfe aveva descritto la loro realtà e per sette anni lo scrittore non fece più ritorno nel luogo natìo.


Nel 1930 poté ritirarsi dall'insegnamento grazie ai proventi del libro e nel maggio dello stesso anno il Guggenheim Fellowship Award gli permise di ripartire per l'Europa, dove rimase per un anno intero. Stabilitosi infine a South Brooklyn, trascorse l'ultimo periodo della sua vita (morì di tubercolosi il 15 settembre 1938) producendo, uno dopo l'altro, A Portrait of Bascon Hawke(1932), Of Time and the River (1935), The Web of Earth e A Thing to Tell You (1932), quest'ultimo più tardi incorporato nel postumo You Can't Go Home Again.


Altre pubblicazioni post mortem furono la silloge di brani poetici The Face of a Nation e l'antologia di racconti The Hills Beyond.

You Can't Go Home Again (Non puoi tornare a casa) racconta di George "Monk" Webber (il secondo alter ego di Wolfe), insegnante e aspirante scrittore, e del suo rientro in patria dopo un prolungato soggiorno in Europa. Webber si rimette insieme a Esther Jack, l'amante di un tempo che invano lui ha cercato di dimenticare. (Esther Jack è una donna di Park Avenue, sposata e due volte madre; dietro a questo personaggio, già apparso in Of Time and the River, non è difficile riconoscere Aline Bernstein.)
Wolfe fa il ritratto di un giovanotto che cerca di "cantare l'America" tra la fine degli Anni Venti e l'inizio dei Trenta, dunque in uno dei periodi più bui della storia americana, notoriamente contrassegnato da una profonda crisi economica. Qui Asheville diventa “Lybia Hill”, ma la Carolina del Nord è ancora “Old Catawba” e il tema centrale in sostanza rimane lo stesso: la solitudine delle giovani generazioni.
"In America siamo nudi e solitari e abbandonati... e privi di una patria."  


Il rapporto di George Webber con Esther, brillante artista dalle idee socialiste, si abbina al suo amore per la vita variegata che caratterizza la metropoli sull'Hudson. Ma a Webber non manca il senso critico: rifiuta la vacuità dei ricchi e registra con sgomento la povertà che regna a Brooklyn, quartiere
dove lui alloggia e dove è in corso una selvaggia speculazione edilizia.
Similmente al suo creatore, la figura centrale del romanzo è di statura superiore alla media (Wolfe era alto due metri), con gli arti sproporzionatamente lunghi e alquanto impacciato nei movimenti. Nel suo animo arde una fiamma che riesce a trovare espressione solo sulla carta. La pubblicazione della sua opera prima, seguita dal suo primo viaggio a Londra e dal ritorno nella Big Apple, ne addolciscono un po' il carattere ma non riescono a placare l'inquietitudine
di fondo. Quel che maggiormente colpisce di George Webber è la sua purezza, la sua onestà, il suo volersi mettere a nudo. E' pieno di vitalità e forza interiore, ma queste doti non gli consentono di brillare nel mondo ed egli stesso è cosciente che le verità poetiche e filosofiche non sconfiggeranno mai il male che serpeggia per le
strade. Webber è troppo integro, troppo idealista per poter fare carriera nel mondo accademico; e del resto non è la carriera che gli interessa, quanto la possibilità di scrivere, scrivere, scrivere. Mentre la vita procede con i suoi drammi quotidiani, con le sue piccole storie apparentemente di nessun conto e con le sue inestricabili ingiustizie sociali, il giovane rimane a osservare ogni cosa dalla finestra del suo appartamento brooklyniano: un intellettuale fatalista ma pieno di
speranza, come tutti gli artisti che anni prima incontrò nel Greenwich Village e molti dei quali nel frattempo si sono persi per via.    



Thomas Wolfe fu molto popolare fino alla metà del XX secolo; poi,
a causa del suo stile altamente letterario e pregno di sentimentalità, passò di moda e il suo nome forse sarebbe stato dimenticato se non la critica letteraria non lo avesse mantenuto vivo e se alcuni futuri pilastri della Beat Generation (Jack Kerouac in The Town and the City, Ferlinghetti in Cat's Cradle) non si fossero lasciati ispirare da lui.
Negli Anni Cinquanta, molti adolescenti decisero di diventare scrittori proprio immergendosi nella prosa intensa e introspettiva di Wolfe.

venerdì, gennaio 04, 2008

'Un turista nel Golfo - August von Goethe'

Nel 1830, sulle orme del nonno Johann Caspar e su quelle del celebre padre Johann Wolfgang, August von Goethe non solo si recò in Italia visitando alcune tra le principali città del nostro Paese, ma tenne anche lui un diario di viaggio, che inviava diligentemente al genitore, a Weimar, un po' per volta, a puntate, come un romanzo d'appendice. Rimasto inedito fino alle soglie del 2000, In viaggio verso il Sud (Auf einer Reise nach Süd) è stato pubblicato dalla casa editrice Hanser grazie all'impegno di due studiosi tedeschi che hanno portato alla luce tutte le annotazioni di August.

Un altro studioso, stavolta italiano, esamina soprattutto il soggiorno spezzino del figlio di Johann Wolfgang von Goethe. Stiamo parlando di Alberto Scaramuccia, autore di diversi libri sulla sua città natìa che indagano approfonditamente sullo sviluppo socio-politico della provincia ligure fin dall'Ottocento.



Alberto Scaramuccia
Un turista nel Golfo - August von Goethe

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Chi è l'autore

Alberto Scaramuccia, nato alla Spezia nel 1947, si è laureato in lettere con la lode all'Università di Pisa nell'anno accademico 1969/70 discutendo una tesi, pubblicata dall'Accademia della Crusca, su un umanista da lui scoperto. Ha insegnato fino a pochi anni fa. I suoi interessi si rivolgono alla storia locale, vista come momento fondante dell'identità collettiva; alla produzione informatica (ha pubblicato 3 cd-rom di storia locale per un totale di 13 prodotti fra cui l'ampia ed articolata Storia della Spezia); ai moderni modi del comunicare. Un suo lavoro su quest'ultima tematica (La scrittura nel mondo globale) è stato pubblicato negli atti di un convegno di studio organizzato dall'Università di Ferrara.

A questo indirizzo è presente un elenco dei libri da lui pubblicati.

E questo è l'URL delle Edizioni Cinque Terre.


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Dei saggi di Alberto Scaramuccia, i più famosi sono forse La Spezia ai tempi del colera e La Spezia e l'Arsenale.
Ma torniamo ad August von Goethe.

Non mancano, in questo viaggio italiano di August (intrapreso insieme a Eckermann, il fido segretario paterno), incidenti e tragedia finale: il soggiorno nel Belpaese di Goethe junior si concluse infatti con la sua morte (quanto improvvisa?) avvenuta a Roma e dovuta apparentemente a cirrosi epatica. Quest'ultima è una tesi sostenuta da svariati storici; ma, leggendo il libro di Scaramuccia, siamo stati assillati da un dubbio. Al termine del suo soggiorno spezzino, infatti, August von Goethe va a visitare il lazzaretto di Varignano. E su questa visita il quarantunenne figlio di un "Übervater" (ovvero di un Superuomo nelle vesti di genitore) si dilunga ampiamente in una delle sue lettere-diario.
"... l'accurata descrizione [del Lazzaretto] che August stende è ricca di informazioni per noi: sia sulla struttura, che sul suo funzionamento", scrive Alberto Scaramuccia.
Sembra che nel Lazzaretto regnassero misure di protezione eccezionali per i visitatori e, ovviamente, per chi vi lavorava. Ma l'autore del saggio ci tiene a relativizzare: "Allora, certo, le conoscenze [medico-igieniche] erano quelle che erano: siamo pur sempre nei pressi degli anni di Donna Prassede e di Don Ferrante..."
Non è ipotizzabile, dunque, che al lazzaretto di Varignano August contrasse, se non la peste, qualche altra infezione ugualmente letale?

Sono tante le considerazioni che si possono ricavare da Un turista nel Golfo - August von Goethe. Come si conviene a ogni lavoro di ricerca serio e ben calibrato, Scaramuccia non si limita a descrivere fatti attinenti al solo territorio ligure, bensì, allargando il discorso all'ambito europeo - e in particolare alla Germania -, ricollega il "microevento" del soggiorno spezzino di August von Goethe al panorama storico della fine del XVIII secolo. L'ultima, vasta parte del libro, che reca il titolo "Guerrieri e Fortilizi", abbraccia un periodo che va dagli antichi Romani fino ad arrivare a un altro figlio di un forse troppo illustre padre: Klaus Mann; e contiene alcune pagine altrettanto interessanti sulla "vacanza" rivierasca di Rosa Luxemburg.

In Italia, August - torniamo a lui perché è lui che rappresenta il fulcro di questo saggio - ha una fretta ossessiva di vedere e conoscere che è tipica dei tempi moderni. Come ogni turista che va in giro a osservare le bellezze del nostro Paese (ma anche le particolarità meno belle, quelle che, principalmente a un nordeuropeo di quei tempi, dovevano apparire a dir poco esoticamente strambe), non può assorbire ogni cosa, naturalmente. Ma, come risulta chiaro anche da questa sua tappa in "Sprugolandia" (nome che Scaramuccia si è divertito a forgiare mutuandolo da Sprugola, un corso d'acqua), c'è una grande irrequietezza in lui: l'ansia tipica di chi deve assolvere per forza a un compito imposto dalla famiglia. August riesce a dominare quest'ansia solo bevendo un "quartino" a tutte le ore...

August von Goethe morì lasciando moglie e tre bambini. Il suo diario di viaggio, che il padre aveva scorso frettolosamente con una mezza idea di pubblicarlo, venne poi messo definitivamente da parte per volere dello stesso autore del Faust.



La tomba nel "Cimitero acattolico" a Roma


Alberto Scaramuccia
Un turista nel Golfo - August von Goethe
Edizioni Cinque Terre, pagg. 192; € 12,00.

Il libro, pubblicato nella primavera 2005 nella collana di saggistica "Vernazza", è tuttora reperibile presso la casa editrice.

Leggi la prefazione
Leggi il primo capitolo

domenica, aprile 15, 2007

Non si uccidono così anche i cavalli?

They Shoot Horses, Don't They?

USA, 1969
120 min.

Regia: Sydney Pollack

Cast:
Jane Fonda ... Gloria Beatty
Michael Sarrazin ... Robert Syverton
Susannah York ... Alice
Gig Young ... Rocky
Red Buttons ... Sailor
Bonnie Bedelia ... Ruby
Michael Conrad ... Rollo
Bruce Dern ... James
Al Lewis ... Turkey

et alia.



Lacrime, sangue e sudore: è questo il materiale di cui è fatta la vita, e i film più grandi, più indimenticabili, sono proprio quelli che riescono a rendere alla lettera questa cruda verità. In tale capolavoro di Sydney Pollack la metafora si mescola con la cronaca "storica". La Grande Depressione ha messo in ginocchio larga parte della popolazione degli Stati Uniti e tutti i mezzi sono buoni per far soldi; accade così che numerosi locali, gestiti da impresari senza scrupoli, organizzino maratone di ballo (con tanto di pubblico pagante che scommette sui partecipanti) a cui si iscrivono desperados di ogni ceto e di ogni età nella speranza di vincere il premio in palio. Non si uccidono così anche i cavalli? racconta di una di queste folli competizioni; e lo fa in maniera talmente realistica che lo spettatore soffre insieme ai protagonisti, e come loro arriva a sentirsi mancare il fiato. Tra i partecipanti sono un'aspirante attrice in cerca di un contratto cinematografico ma che finisce per diventare pazza (Susannah York); un marinaio di una certa età che danza sino allo sfinimento fisico (sino alla morte per infarto, per la precisione - Red Buttons); una giovane donna incinta, accompagnata dal marito (Gig Young); Gloria, una ragazza disperata, fortemente motivata ad accaparrarsi i 1.500 dollari di premio (Jane Fonda); e infine Robert, un ragazzo trasognato (Michael Sarrazin) attraverso i cui occhi sgranati, da fanciullo in perenne stato di stupor, viene osservata l'intera vicenda.


Il nostro è un periodo in cui sul piccolo schermo imperversano i Ballando sotto (e con) le stelle, dove le piccole "bue" dei concorrenti vengono ingigantite allo scopo di moltiplicare gli indici di ascolto. Dopo aver visto questo film, sicuramente molti spettatori considereranno le gare di ballo con occhi diversi.


Uscito in piena èra di rivolta giovanile e di forti impennate culturali, il film di Pollack non poteva non lasciare il suo segno (e che segno! davvero sconvolgente). Nel bel mezzo dell'utopia del flower power, il regista ci propone... un'antiutopia. Il messaggio è: "il mondo è marcio e non c'è speranza di cambiarlo". They Shoot Horses, Don't They? è un classico ingiustamente semiobliato. Tratto da un romanzo di Horace McCoy, ha un finale inevitabile - presagito fin dal principio dallo sguardo ormai vuoto e privo di speranza di Jane Fonda (bravissima) -: Gloria induce il suo compagno di ballo, Robert, a ucciderla con un colpo di pistola. Proprio come si fa per i cavalli giunti al capolinea.


Ma la scena più toccante è quella in cui l'altrettanto stupenda Susannah York (Alice) va sotto la doccia completamente vestita. I suoi occhi spalancati, segno della pazzia, fanno venire i brividi. Quegli occhi ipnotizzano letteralmente lo spettatore, ricordandogli quanto è sottile il filo che separa la realtà apparentemente concreta delle nostre azioni quotidiane da quella della perdizione totale, dello smarrimento senza alcuna speranza di ritorno. La York si sarebbe meritata l'Oscar. Purtroppo, l'Academy Awards fu parecchio avara nei riguardi di questa pellicola; soltanto Gig Young si aggiudicò una delle statuette: quella di attore non protagonista, riuscendo comunque a battere colleghi del rango di Jack Nicholson (Easy Rider) e di Elliott Gould (Bob & Carol & Ted & Alice).

lunedì, marzo 19, 2007

Arrestato in Brasile uno dei migliori giallisti del mondo

Cesare Battisti, 52enne autore di libri noir in lingua francese (Dernières cartouches; Habits d'ombre; Le cargo sentimentale...), è stato arrestato domenica a Rio de Janeiro mentre la giovane intermediaria di un'associazione nata allo scopo di sostenerlo gli stava consegnando 9.000 euro.
Battisti, che era un qualsiasi militante dei PAC, Proletari Armati per il Comunismo, e non un leader come sostengono molti media (tra l'altro, volle fuoruscire dal gruppuscolo all'annuncio della morte di Aldo Moro), era stato inizialmente arrestato con l'accusa di partecipazione a banda armata. Evaso dal carcere di Frosinone nel 1981, era ricercato dalla giustizia italiana. La condanna all'ergastolo nei suoi confronti fu emessa (in contumacia) nel 1993 dopo che il pentito Pietro Mutti, in cambio della clemenza, lo aveva accusato di ben quattro omicidi compiuti tra il 1978 e il 1979. Per quegli omicidi, a suo tempo rivendicati dai PAC, mancano le prove.
Nell'autobiografia del 2006 Ma cavale ("La mia fuga"), l'ex appartenente all'estrema sinistra scrive di non aver mai ucciso nessuno in vita sua, anche se ammette che girava armato.
Dopo una lunga permanenza in Messico, e più precisamente a Puerto Escondido (il personaggio interpretato da Claudio Bisio nel celebre film di Gabriele Salvatores è ispirato proprio a lui), Battisti aveva cercato e trovato rifugio in Francia, paese che, sotto Mitterand, accordava asilo e protezione agli ex attivisti italiani che avevano rotto con la violenza. Senonché, nel 2004 la giustizia transalpina (ora il Presidente era Chirac) decise di estradarlo, e Battisti tornò a darsi alla clandestinità.
Lo hanno acciuffato sulla spiaggia di Copacabana. A fare da esca involontaria è stata Lucie Genevieve Oles, una giovane arrivata sabato a Rio con il volo da Parigi. L'Interpol parigina e quella di Roma avevano fornito ai brasiliani l'informazione sulla ragazza da pedinare. Domenica, ovvero il giorno dopo il suo arrivo, Lucie si è fatta portare da un tassì fino all'Avenida Atlantica, che costeggia la famosa spiaggia. Dopo qualche minuto le è andato incontro un uomo: si trattava di Cesare Battisti. Tutto molto facile per i poliziotti carioca, che sono entrati in azione alla presenza di un paio di colleghi francesi.
Alcune versioni sostengono che l'arresto sia avvenuto dentro un albergo della stessa Copacabana.
In ogni caso, si sottolinea che "l'ex terrorista non ha opposto resistenza".

domenica, dicembre 31, 2006

Fiore di cactus



(1969)

Oscar meritato

Film piacevolissimo, pieno di "complicazioni" tipiche del filone delle screwball comedies o delle opere teatrali di Neil Simon (autore tra l'altro di La strana coppia, con Jack Lemmon e lo stesso Walter Mathau).
Ingrid Bergman nella parte dell'assistente fredda ed effettiva del dentista (Mathau) è brava a nascondere la propria femminilità ai fini della riuscita della pellicola, mentre la giovanissima Goldie Hawn impersona alla perfezione la teen-ager apparentemente svampita ma in realtà non priva di solidi principi umani. Il tutto ambientato in un'America (quella metropolitana) al culmine della rivoluzione culturale.

Da possedere assolutamente, insieme ad altri film dell'epoca (Lasciami baciare la farfalla, Provaci ancora, Sam, Il party, What's New, Pussycat...).

lunedì, dicembre 25, 2006

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato



(Gran Bretagna, 1971)
Regia: Mel Stuart
Principali interpreti: Gene Wilder; Peter Ostrum; Jack Albertson; Roy Kinnear


Tratto dal libro La fabbrica di cioccolato di Dahl Roald, è un capolavoro fiabesco destinato non solo ai bambini ma anche agli adulti.

Willy Wonka è il proprietario di una fabbrica dolciaria nota per la squisitezza dei suoi prodotti. Poiché gli ingegnosi brevetti per la produzione dei dolci sono oggetto dell'interessata curiosità dei concorrenti, da anni Willy Wonka non permette a nessun estraneo di varcare la soglia della fabbrica. Un giorno viene annunciato il lancio di un concorso internazionale: le cinque persone che troveranno all'interno di una tavoletta di cioccolato "Wonka" un talloncino d'oro saranno ammesse alla visita della fabbrica.
Charlie Bucket, un ragazzo povero che vive insieme ai nonni costretti a letto ed alla madre, viene improvvisamente baciato dalla fortuna e si ritrova con altri quattro bambini davanti ai cancelli della Willy Wonka Factory, accompagnati ciascuno da un parente. L'eccentrico Wonka li accoglie e fa loro da guida, rivelandosi, più che il direttore di una fabbrica, come il gestore di un immenso parco dei divertimenti (con una montagna di leccornie, vari bizzarri macchinari e persino il tunnel dell'orrore). Naturalmente indimenticabili sono gli Oompa-Loompa, i suoi lavoratori-nanetti.
Ci sono molti colpi di scena che fanno temere per il destino del piccolo Charlie, ma alla fine prevalgono giustizia e bontà e il Nostro ottiene addirittura la fabbrica dopo un atto di gentilezza nei confronti di Wonka.



Il regista Stuart ha usato diversi trucchi e accortezze nel girare il film: per esempio i giovani interpreti non hanno mai incontrato Gene Wilder prima che lo stesso apparisse sulla porta nei panni di Willy Wonka. Il cast, al completo, non ha visto né la stanza del cioccolato né gli Oompa-Loompas se non dopo l'inizio delle riprese... Tutto questo per rendere le reazioni all'incontro più realistiche.



Il più recente film di Tim Burton (2005), con Johnny Depp, non è affatto male: ha anzi dalla sua la possibilità di sfruttare al meglio la tecnica e i trucchi col computer. E' però proprio l'interpretazione di Willy Wonka da parte di Depp a non reggere il confronto con quella - assolutamente perfetta - resa da Gene Wilder ventiquattro anni prima. Il sorriso tranquillo di Wilder non mette ansia come il ghigno isterico di Depp. Wonka/Wilder sa sempre quel che accade e si mantiene imperturbabile, lo spettatore capisce che può fidarsi di lui, mentre con l'imprevedibile e nevrotico Wonka/Depp si rimane sempre sul chi vive. Il messaggio, o la "morale", è tutta contenuta nelle parole dell'ultima canzone:


IF YOU WANT TO VIEW PARADISE
SIMPLY LOOK AROUND AND VIEW IT
ANYTHING YOU WANT TO, DO IT
WANT TO MAKE THE WORLD
THERE'S NOTHING TO IT

THERE IS NO LIFE I KNOW
TO COMPARE WITH PURE IMAGINATION
LIVING THERE
YOU'LL BE FREE
IF YOU TRULY WISH TO BE





Script originale di Willy Wonka and the Chocolate Factory

mercoledì, dicembre 06, 2006

Gli amanti del circolo polare


Un capolavoro misconosciuto

Medem, il nome del regista, è un palindromo: si legge nella stessa maniera anche da destra a sinistra. Ciò vale pure per Otto e Ana, i nomi dei protagonisti di questa splendida storia. Ana vive fedele al credo che niente è un caso, che ogni cosa è concatenata; e in effetti tutti gli avvenimenti che le accadono e quelli che accadono intorno a lei sembrano darle ragione. La ragazza ama il freddo e non è una coincidenza che, in ultimo, finirà in Finlandia, e più precisamente in Lapponia. La sua vita, a cominciare dall'età di otto anni (dal giorno della tragica morte del padre) si intreccia con quella di Otto, destinato a divenire il suo fratellastro-amante; ma sono tanti i fatti legati tra di essi, a cominciare dallo strano incontro tra un contadino spagnolo e un aviatore tedesco durante la Guerra Civile di Spagna. L'aviatore si rivelerà essere il nonno di Ana, poi emigrato in Finlandia insieme a una ragazza incontrata all'indomani del bombardamento di Guernica...

In questa coproduzione franco-ispanica, Julio Medem dimostra tutta la sua grandezza. La tenera love story tra Ana e Otto si spoglia della sua semplicità grazie ai pregevoli effetti visivi e alle complicanze disseminate lungo tutto il copione. Alcune scene, e cioè quelle rivisitate secondo un'ottica diversa, richiamano alla mente un altro bel film uscito nello stesso anno (1998): Lola corre, del regista tedesco Tom Tykwer.

La visione è raccomandata.

sabato, ottobre 28, 2006

Ich arbeite, tu lavori, he works...

http://www.francobrain.com/arbeite.htm


Io lavoro, tu arbeitest, egli fatica... Il verbo più assurdo del mondo declinato in decine e decine di lingue diverse.
Una pagina inutile quanto affascinante. E divertente sebbene il soggetto sia di una tragicità immane.

http://www.francobrain.com/arbeite.htm

Useless page: the verb 'to work', 'working', in many languages. By Peter Patti, from the novel Weltgeist Superstar by P.M. (Rodulf von Gardau). Reali(s)zation: franc'O'brain & Transputer Qasar.

Libri. Books. Buecher. Lavorare, arbeiten, malochen.
Languages: English, Italian, Hungarian, German, Spanish, Swedish, Urdu... By Peter Patti.
Abbasso il lavoro! Nieder mit der Arbeit! Viva il lavoro! Hurra I got a job!

http://www.francobrain.com/arbeite.htm


Da un'idea originale di P.M. (Rodulf von Gardau) , interessantissimo scrittore svizzero-tedesco.





References:
useless page, books, peter patti, to work, to die, lavorare, arbeiten, malochen, fatigue, jag arbejder, languages, English, Italian, Hungarian, German, Spanish, Swedish, french, russian, franc'O'brain, trabalho, working, lavoro, Rodulf von Gardau, p m, weltgeist, superstar, tripura transfer, rabotaju, libri, jag arbetar, schriftsteller, deutsch, schweiz, minä teen työtä, musica, music, musik, genesis, autoren, authors, autori, patti, frank brain, frankobrain, francobrain, ik werk, jaz delam, eg vanna.

sabato, ottobre 21, 2006

Harold Pinter: 'God bless America'



Harold Pinter
God bless America. Scritti e interviste contro la guerra
Collana Ahlambra. Editrice datanews

<<C'è una vecchia storia su Oliver Cromwell. Dopo aver conquistato la città inglese di Drogheda, fece portare i suoi concittadini sulla piazza principale. Cromwell ordinò ai suoi tenenti: "Soldati! Uccidete tutte le donne e stuprate tutti gli uomini!" Uno dei suoi aiutanti disse: "Mi scusi, tenente, ma non dovrebbe essere il contrario?" Una voce dalla folla gridò: "Mr. Cromwell sa cosa sta facendo!"

Quella è la voce di Toni Blair: "Mr. Bush sa cosa sta facendo!"

Il fatto è che Mr. Bush e la sua gang sanno davvero cosa stanno facendo, e anche Blair, a meno che non sia l'idiota deluso quale spesso appare, sa cosa stanno facendo. Bush & Company sono molto determinati, semplicemente, a prendere il comando del mondo e delle risorse mondiali. E non importa loro un fico secco di quante persone devono uccidere per raggiungere i loro obiettivi. E Blair ubbidisce.

Non ha il supporto del Partito Laburista, non ha il supporto del paese né tanto meno della tanto declamata "comunità internazionale". In che modo, dunque, può giustificare l'entrata in guerra di un paese che non la vuole? Non può. Può soltanto fare ricorso alla retorica, ai cliché e alla propaganda. Chi l'avrebbe mai detto, quando votammo Blair, che saremmo poi arrivati al punto di disprezzarlo. L'idea secondo la quale lui avrebbe influenza su Bush è ridicola. La sua accettazione passiva della prepotenza degli Stati Uniti è patetica.

La prepotenza è, naturalmente, una tradizione americana consacrata dal tempo. Nel 1965, rivolgendosi all'ambasciatore greco negli Stati Uniti, Lyndon Johnson disse: "Fanculo il vostro Parlamento e la vostra Costituzione. Gli Stati Uniti sono l'elefante, Cipro è la pulce, La Grecia è la pulce. Se queste due bestioline continueranno a fare il solletico all'elefante, le prenderanno dalla sua proboscide, e le prenderanno di santa ragione."

Non parlava per metafore. Poco tempo dopo, i colonnelli, supportati dagli USA, si insediarono in Grecia e il popolo greco visse sette anni all'inferno.

Riguardo l'elefante americano, è cresciuto fino a divenire un mostro di proporzioni grottesche e oscene.

La terribile atrocità a Bali non altera, affatto, la raltà dei fatti.

Il "rapporto speciale" che lega gli Stati Uniti e il Regno Unito ha sommato i migliaia di morti negli ultimi dodici anni ai migliaia di morti in Iraq, Afghanistan e Serbia. Tutto questo per perseguire gli scopi della "crociata morale" di Stati Uniti e Regno Unito volta a portare "pace e stabilità" nel mondo.

(...) Bush ha affermato: "Non permetteremo che le armi più pericolose del mondo rimangano in possesso dei leader più pericolosi del mondo." Giusto. Guarda un po' nello specchio, amico. Quello sei tu.>>

In questo compendio dal titolo God bless America. Scritti e interviste contro la guerra, il commediografo, regista, attore e poeta inglese di origine ebrea Harold Pinter (Premio Nobel 2005) lancia i suoi strali contro gli Stati Uniti d'America, denunciando il dramma dei massacri e delle ferite provocati dall'impero, dalla rivolta sandinista ai prigionieri di Guantamano, dal boicottaggio nei confronti di Cuba alla guerra in Iraq, e rilancia il tema della speranza.




Infos e ordini: datanews
http://www.datenews.it/

venerdì, ottobre 13, 2006

Nobel per la Letteratura 2006


Premio Nobel meritatissimo per il 54enne turco Orhan Pamuk (Il castello bianco, Istanbul, Il mio nome è rosso, Neve, La nuova vita, Il libro nero, La casa del silenzio). Con la sua prosa Pamuk ha gettato un ponte tra il romanzo moderno e le tradizioni mistiche dell'Oriente. Sempre in prima linea nell'impegno per i diritti dell'uomo, è stato più volte denunciato in Turchia - tra l'altro perché si oppone a un'entrata del paese nell'UE, ma soprattutto per aver infranto l'Articolo 301 del Codice Penale parlando del massacro, da parte dei turchi, di un milione di armeni e di trentamila kurdi in Anatolia durante la Prima guerra mondiale.

L'anno scorso il Nobel fu assegnato al drammaturgo inglese Harold Pinter.

domenica, settembre 17, 2006

Giampietro Stocco: 'Dea del Caos'



Anno 2005. Da trent'anni Genova e' la capitale della Repubblica Democratica Cisalpina, ovvero il nord-ovest d'Italia. Il nostro Paese e' infatti diviso in tre fin dal 1976, quando il fascismo cadde dopo oltre mezzo secolo di regime, con l’invasione tedesca e la fuga di Galeazzo Ciano (successore di Mussolini) in Germania.

Il giornalista Marco Diletti, gia' protagonista del romanzo fantapolitico Nero italiano, torna a confrontarsi con le oscure vicende del passato. Che cosa conteneva la cartella verde consegnata trent’anni prima a un giornalista televisivo? Qual e' il segreto di Antonio Murgita, l'ex leader comunista idolatrato dalle folle? E chi e' la Dea del Caos? Diletti, ora in pensione, viene assistito nelle sue ricerche dalla figlia Bianca...

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L’Autore: Giampietro Stocco (Roma 1961), giornalista del TGR RAI per la Liguria, prima di trasferirsi a Genova, dove risiede da cinque anni, ha lavorato ad Ancona e al GR2. Per Fratelli Frilli Editori, sempre nella collana Tascabili-noir, ha pubblicato Nero italiano (2003). Tra breve uscira' il suo nuovo romanzo di fantascienza Figlio della Schiera.



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Giampietro Stocco: Dea del Caos

Fratelli Frilli Editori, collana Tascabili Noir

domenica, settembre 03, 2006

'Figli delle Stelle', di Ivan Carozzi

Un divertente, lucido, appassionato reportage narrativo in occasione di una convention in Svizzera della setta dei Raeliani.




Cicorivolta edizioni
Collana 'i quaderni di Cico'
Autore: Ivan Carozzi
ISBN 978-88-95106-01-4
pp. 156 - euro 8,00 


Eccone un lungo stralcio: 


... Mi siedo, scelgo un'impostazione fra le otto disponibili dello schienale regolabile della mia poltrona, lascio che la nuca atterri delicatamente sul cuscino a rulli. Mi tolgo le scarpe, appoggio i piedi sull'apposita pediera e la manovro per mezzo del telecomando che tengo a portata di mano sul bracciolo. Rimango così, chiudo gli occhi, tutto è immobile, mi metto in ascolto di quel sofisticato formicolio che sembra poter cantare una selezione di mille ninna nanne diverse al mio cuoio capelluto. Non posso dire di non sentirmi estremamente comodo e rilassato... La città e la notte, come polvere, rotolano via oltre la finestra e la strada. Riapro gli occhi e contemplo il soffitto della stanza, mi sforzo d'immaginarlo come se fosse la concavità infinita della volta celeste. Punto lo sguardo in profondità, lo lascio vagare, zoomo. Il cielo è quello schermo che non cessa di allontanarsi. Mi metto a frugare fra le stelle, i pianeti, le galassie che si allontanano, gli indistinti ammassi gassosi, le tempeste di meteoriti, le code lattescenti delle comete, le pulsar che bruciano in fondo a tutta quella nuda immensità color del carbone. Adesso, per il puro piacere di giocare, provo a tornare indietro nel tempo, ad attraversare come un treno nella notte i miei anni '90, i miei anni '80 (dal finestrino dello scompartimento, in una fuggevole visione periferica, i momenti salienti della mia storia privata si mescolano ad immagini di Bettino Craxi, della prima Repubblica, della vittoria della nazionale ai campionati mondiali di calcio, di Pannella che fuma scoppiettante marijuana, e vecchie, impolverate canzoni di San Remo che permeano tutto questo sottocutaneo riaffiorare della memoria) e poi immagino di arrestarmi bruscamente, io e il treno, con un fischio e un colpo di freni, nei pressi degli anni '70. Qui dove mi trovo adesso cerco di non badare troppo al caso Moro, alle molotov e alle P38, cerco di dimenticare i teleromanzi con Ugo Pagliai protagonista, e penso soltanto che l'anno in cui nacque la storia in cui mi sto per addentrare fu lo stesso in cui venne pubblicato un disco di Lou Reed le cui due facciate erano interamente costruite su di una sorta di arcano ed elettrico rumore di fondo. Adesso mi sposto fino alla notte del 7 ottobre 1975 e ciò che vedo è un uomo che non riesce a prendere sonno. Claude Vorilhon, ex cantante, ex giornalista sportivo, ex pilota automobilistico, si trova nella grande casa di campagna in cui si è appena trasferito, nella regione medievale del Perigòrd, in Francia. Sdraiato sulla sua poltrona, le gambe coperte da un plaid a scacchi, sente (che cosa significa 'sente'? Forse significa che sente un'immagine formarsi all'interno della sua scatola cranica, come se qualcuno o qualcosa ce la stesse proiettando? Oppure è una specie di suono che sente, una frequenza remota, la stessa frequenza captata da Lou Reed e che ispirò il suo 'Metal Machine Music') che qualcosa o qualcuno sta per prendere la sua mano e portarlo molto lontano, dove nessun uomo, nella storia degli umani, è mai stato. Claude s'infila un giubbotto, con movimento automatico, braccia e gambe azionate da un impulso in arrivo da un non meglio precisabile comando a distanza, e s'incammina nella campagna screziata dell'oro e del rosso carminio di un autunno già molto inoltrato. Con passo marziale, alimentato da un'energia nuova, diversa, che sente (tutto, in quella notte, prima del fatidico evento, è completamente avvolto e permeato dalla parola 'sentire' e forse anche dal verbo 'premonire') di non aver mai posseduto, che nessun essere umano ha mai posseduto, si fa largo nel sentiero, fra ampie foglie marce che cadono sotto il peso di piccole gocce d'acqua, e raggiunge una radura che si apre improvvisa nel bosco, come uno squarcio. Claude solleva lo sguardo in alto, il collo e la testa che emergono dal bavero rialzato e si affacciano nell'aria frizzante e metallica, e vede un prisma di luce che discende da un oggetto che sta come appeso ad un filo, nel cielo stellato. Le sue scarpe si stanno bagnando, l'acqua delle pozzanghere è penetrata attraverso le crepe sottili della suola, ma ad un certo punto sente che i suoi piedi infreddoliti stanno registrando una piacevole variazione della temperatura. Il fascio di luce, infatti, si è spostato direzionalmente fino alla zolla di terra occupata dalle scarpe da ginnastica di Claude, che istintivamente si è portato una mano di fronte agli occhi creando sulla metà superiore del volto una perfetta ombra cinematografica. Due opposte colonne di vapore si stanno sollevando dalla punta delle sue scarpe e risalgono attraverso la luce bianca. Ecco, adesso può vederlo, è un disco volante quello, ed è l'inizio di tutto, la prima tacca, il momento fondativo. Dopo essere salito a bordo, Claude vola oltre gli striati confini della galassia, posa il piede sul civilissimo pianeta degli Elohim, dove si divertirà molto (si accoppierà per una notte intera con sei robot biologici, durante un banchetto converserà amabilmente con Gesù, Budda, Maometto) e dove soprattutto gli verrà svelato il segreto scientifico che sta all'origine della vita. L'uomo, lo informano gli alieni, è un prodotto di laboratorio, il frutto di un esperimento genetico avvenuto migliaia di anni fa e di cui gli Elohim sarebbero stati i benevoli artefici: la specie umana sarebbe stata figliata dal DNA Elohim. L'esperimento, adesso, può essere ripetuto su vasta scala, attraverso la clonazione. 'Se vi fate tutti clonare, vivrete tutti per sempre: vivere per sempre, l'eternità è così vicina...', gli dicono in coro gli alieni, che hanno volti aggraziati e sono alti come bambini. Quando in seguito Claude torna sulla terra (dove la sua assenza non è durata che una manciata di minuti, come nelle storie della fantascienza più rigorosa), la sua vita, ovviamente, non potrà più essere la stessa. Adesso è un profeta e il compito dei profeti è fondare religioni, indicare col braccio levato nuove terre promesse e sapervi condurre tutti coloro che vorranno dargli credito. Così Vorilhon, che presto cambierà nome in Rael, su quanto appreso durante il suo viaggio costruisce un corpo dottrinale leggerissimo, superlight, piumato, intorno al quale cominceranno, nel tempo, a stringersi migliaia di fedeli...



Ivan Carozzi © 2006

domenica, luglio 30, 2006

Dal Libro 'Vendetta'

Ecco una citazione dal romanzo di Pierluigi Curcio Vendetta:

Vedo i fuochi alzarsi dalle colline, il nemico è stanco e la caccia è durata a lungo. Oggi daranno battaglia. Non c’è gloria, non c’è onore: il premio è la vita. Gli ordini vengono urlati per il campo, la cavalleria è nascosta tra gli alberi e gli uomini serrano le fila, attendono il nemico è arrivato al limite della radura, ci osserva in silenzio prima uno, poi due e di fila tutti gli altri corrono incontro al proprio destino: il massacro ha inizio.
Ci chiamano distruttori, ma portiamo con noi conoscenza e strade e le aquile delle legioni. Oggi vincitori.
I secoli sono passati, la polvere ha coperto le nostre strade e la morte ha sconfitto le nostre usanze erano barbari, ma oggi si fanno chiamare innovatori e con loro è il progresso, il cambiamento. Oggi vincitori.
I popoli si susseguono ai popoli, ma la terra continua ugualmente a girare: il sole tramonta ogni giorno per risorgere ancora credete che a loro importi?


E questo è l'acuto commento dell'amico 'Blaxx':

"La considerazione è disarmante, nella sua semplicità, e se avessimo il coraggio di trasporla nella personale esperienza quotidiana forse avrebbe il potere di aprirci gli occhi sulla nostra mancanza di coscienza, sulla vulterabilità del nostro sistema morale e all'imbarazzante semplicità con cui può essere manipolato.
Ma è certamente più facile rigare la macchina del vicino di casa o, accovacciati al riparo di una siepe, attenderne il rientro per prenderlo a sprangate..."

domenica, luglio 23, 2006

L'utopia di Pepe Carvalho


Negli ultimi decenni, pochi scrittori si sono meritati il successo come Manuel Vázquez Montalbán. Ancor prima che autore di romanzi polizieschi, Montalbán fu giornalista e saggista sempre impegnato, sempre in prima linea: tantoché sotto il regime franchista doveva far uso di diversi pseudonimi. Agli inizi della carriera, appena trentenne, finì in carcere per le sue audaci critiche e per la sua adesione al più o meno clandestino movimento di resistenza: un'esperienza, questa, che lo segnò profondamente.
Finanche dopo la caduta del regime non smise mai la lotta, manifestando coerentemente le proprie idee.
L'utopia di Pepe Carvalho ci mostra, attraverso interviste e alcuni racconti (questi ultimi sono in realtà stralci delle colonne che Montalbán scriveva per la rivista Triunfo), uno strenuo difensore dell'utopia.


Alcuni articoli di Montalbán pubblicati in Italia

Dietro la scorza di scriba piccolo, calvo, grasso e occhialuto, scopriamo un intelligente e acuto osservatore del suo tempo; e anche del nostro, giacché lui è stato uno dei primi a criticare fin dall'inizio il fenomeno della cosiddetta "globalizzazione". E scopriamo che i romanzi della serie dell'investigatore Carvalho non sono che la cronaca "translata" della storia spagnola dagli anni Sessanta circa fino all'avvento del nuovo secolo, cronaca conclusa con il fantasmagorico Millennio.
Altre chicche di questo volume della casa editrice datanews comprendono alcuni saporiti accenni alla passione di Montalbán per la culinaria (inclusa quella di matrice italiana) e interessanti notizie sui suoi lavori letterari dove non fa la sua comparsa il celebre investigatore.


Manuel Vázquez Montalbán
L'utopia di Pepe Carvalho
edizioni datanews, collana "Ahlambra"


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datanews
datanews è una casa editrice indipendente nata a Roma nel 1985. Ha un catalogo vasto e interessante, che abbraccia temi di enorme interesse: dalle monografie di scrittori quali Gabriel Garcia Marquéz, José Saramago, Jorge Louis Borges (presentati attraverso interviste e scritti dei medesimi)... a saggi su precisi aspetti della cultura popolare (Country Music... La cucina dei Negri d'America... Il Che... Telefascismo...).
Con "Ahlambra", datanews ha recentemente inaugurato una nuova collana dedicata ai grandi autori contemporanei della letteratura e del pensiero, mentre un'altra collana chiamata "i rubini" raggruppa, in formato pocket, i bestseller vecchi e nuovi della casa editrice.

venerdì, luglio 21, 2006

Henry Miller

Henry Val Miller: una delle persone più gentili e più pronte ad aiutare, come hanno testimoniato i suoi amici Lawrence Durrell e Alfred Perlés. Di contro, la sua prosa è tumultuosa, barocca, contiene elementi demoniaci e "faustiani".

"Ogni parola che metto giù ora dev'essere una freccia che va dritta al bersaglio. Una freccia avvelenata. Voglio ammazzare libri, scrittori, editori, lettori. Scrivere per il pubblico, per me non significa niente. Quel che mi piacerebbe, sarebbe scrivere per i pazzi... o per gli angeli."

Quella dei critici, dei "generali della letteratura", è una "trincea" che "deve essere espugnata". "Se è con la mannaia che dobbiamo lottare, usiamola a tutta forza." (Nexus)
Miller ha letto Santa Teresa e Bergson, Elie Faure e Dostoevskij, Rabelais e (horribile dictu!) Voltaire. "La mia fame e la mia curiosità mi spingono in tutte le direzioni contemporaneamente." (Plexus)

Durante l'atto creativo, Henry deve sempre ricordare a se stesso di essere disciplinato. Ecco alcune delle sue regole autoimposte:

- Lavora a una sola cosa per volta, fino a portarla completamente a termine.
- Non inquietarti...
- Pensa unicamente al libro che 'stai' scrivendo.
- Prima di tutto e sempre, scrivi. Pittura, musica, amici, cinema, tutto questo viene dopo.



Più che erotico e pornografico, Henry Val Miller è sensuale in maniera rabelaisiana. I suoi romanzi sono rivoluzionari... non nel senso politico del termine, ovviamente (quella auspicata da Miller è una "rivoluzione dell'anima"), ma in quanto ci mostrano la via per vivere come uomini felici.


Nel suo celebre Diario, Anais Nin scrive dell'autore di Tropico del Cancro: "Mi è piaciuto subito, non appena l'ho visto scendere dalla macchina e mi è venuto incontro sulla porta dove lo stavo aspettando. La sua scrittura è ardita, virile, animale, magnifica. È un uomo la cui vita inebria, pensai. È come me."


Tra i suoi amici c'era anche l'attrice tedesca Hildegard Knef. ("Neff", pronunciavano gli americani.) Una volta, sentendosi osservato da lei, Henry le disse:
-Beh? Che guardi?
-Sei così bello! - esclamò la Knef, con voce rapita.
E lo scrittore: - Ah, chiudi la bocca! Mi rendi molto triste...


Fino al 1961, Sexus (prima edizione francese: 1949, distribuita privatamente), Tropico del Cancro e tutte le altre sue opere erano vietate negli Stati Uniti. In seguito a una celebre serie di processi, il divieto fu sospeso, anche se l'organizzazione Citizens for Decent Literature bollò i libri di Henry Miller come "osceni".


Ha raccontato Inge Feltrinelli: "Tra i più capricciosi [autori] che incontrai, mi viene subito in mente Henry Miller: pretendeva un tavolo da ping pong in ogni casa che l'ospitasse qui in Italia..."




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Dal saggio online Henry Miller [1891-1980]- La vita ha sempre l'ultima parola

lunedì, giugno 05, 2006

Un nuovo, bel romanzo a sfondo storico

"Stupida razza l'uomo: corre, si affanna, annaspa per riuscire e prevalere sul proprio fratello così come sul proprio nemico, ma il trucco è proprio questo, il nemico non esiste, il nemico siamo noi e il male che alberga in noi, se riusciremo a prenderne coscienza e ad abbattere le barriere invisibili che ci dividono gli uni dagli altri ci sarà pace, ma le ere passeranno e nuove razze cresceranno."



Pierluigi Curcio - Vendetta

Britannia, II d.C. L'imperatore dei romani Marco Aurelio invia 5.500 Sarmati a protezione del Vallo del grande Adriano affinché proteggano i confini estremi dell'impero dalle orde di invasori selvaggi e senza onore. Quando Roma ritira le legioni nel 410 d.C., i discendenti di quegli antichi guerrieri si sono oramai istallati nell'isola in attesa del ritorno di colui che un tempo li guidò nella loro nuova patria e le cui gesta si tramandano da padre in figlio: Lucio Artorio Casto.
In uno scenario che precede le gesta e i misteri arturiani, odio, dolore e amore trascinano Daniil e i suoi compagni in uno scontro sanguinario che lascia poche possibilità di scelta e un'unica soluzione finale. Sul loro cammino, l'ombra del mito e il sogno di Taliesin.




Pierluigi Curcio: Vendetta

Edizioni Il Filo
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Il libro si può ordinare:

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- Telefonicamente o via fax ai seguenti n°: 0761/326452 0761/323225
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