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domenica, gennaio 02, 2022

'Il Velo Rimosso'

Un commento a ‘Il Velo Rimosso’,

seconda raccolta poetica di Anna Murabito


Non è poesia della disillusione. Al contrario: essendo la razionalità un elemento propositivo più che di rinuncia, i versi di Anna Murabito (eccellente scrittrice, non solo poetessa) ci si offrono come strumento per accettare, metabolizzandola, la realtà. Per ‘conoscerla’ prima di tutto. E occorre giusto una poesia di qualità per rimuovere le lastre opache di una quotidianità uggiosa.
II Velo Rimosso è la seconda raccolta ufficiale di Murabito e possiamo tranquillamente affermare che, dopo due sillogi, ci è perfettamente riconoscibile lo stile.

Viene da Sud,

il fiato torbido del mare.

Un bendaggio malsano

avvolge di sudore le membra

ma insieme corteggia

da vicino.

È questo vento oscuro

denso

che porta umori dalla Siria

a sfinire i ricordi.

(Da: “Scirocco”.)

 

Questo è authentic Murabito. Un resoconto in versi liberi assai ricco, omogeneo, che punta però con sicurezza sui punti cardinali dell’esistenza. L’amore, il tempo, i viaggi, la natura. E, durante la lettura, veniamo accompagnati da Mahler (“Mahler 2”, pag. 37), Grieg, da Chagall con i suoi violinisti…

Leggere Il Velo Rimosso e, ancor meglio, l’intera opera poetica di Anna Murabito, può essere – ed è – anche un modo per ricomporci dopo aver subito un forte shock: un lutto, un amore finito… La cornice, con i suoi ornamenti e i tanti requisiti (siano essi squisiti che squallidi e crudeli), si sposta al centro del dipinto generale, e viceversa. Un’interscambiabilità che è, essa medesima, fonte di bellezza, e dunque significato profondo. Parimenti alla mutua influenza di passato e presente. Parimenti all’alternarsi delle tempeste (e dei terremoti) a un idillio da ritratto fisso.
I fenomeni, spesso radicali, ci tolgono il fiato, tuttavia è essenziale capirli e… conviverci. Così, è persino ovvio che cambiamenti climatici e avvicendarsi di stagioni diventino specchio dell’anima.

In autunno, ad esempio (“Autunno 2021”):


L’immagine del primo ramo

spezzato

si ferma nell’anima

come un’incrinatura

sul vetro

come un trasalimento

di dolore.

 

Mentre in primavera si alza (…)


il desiderio di navigare ancora

in alto mare

obbedendo al richiamo dell’albatro.

(“Un’altra primavera”.)

 

Il nostro è un mondo dove “Eros dilaga”; e a Sud lo fa insieme al glicine, alla zagara, al ligustro, al gelsomino, alla magnolia; alle buganvillee.

Naturalmente, per uno spirito siffatto un’opera d’arte non è soltanto un virtuosismo fine a se stesso. E la musica racconta tantissimo. L’arte dei suoni ha un potere tale da muovere, e smuovere, finanche le stelle.
In “Musica”, appunto, leggiamo che:

Luce e buio

depongono le armi

l’acqua attraversa il fuoco

e il Sole insegue l’Orsa.

 

È un tipo di poesia del quale l’intelletto non può non cogliere lo splendore delle coordinate specificate. Abbiamo da un lato il profumo contadino delle terre sicule, dall’altro le nebbie colte di un certo trancio di Francia (a rappresentanza di tutto il Nord, direi). Ed è non senza motivo che tiro in gioco l’intelletto.
Niente contro i “neoromantici” (è il sottoscritto a chiamarli così, senza voler fare ironia cattiva), e niente contro la famosa Alda Merini che vanta tanti epigoni; niente, insomma, contro chi cerca le facili rime per esprimere sentimenti elementari: i versi di Murabito appartengono a ben altra categoria. Qualche gradino più in alto lo sono di certo! Sono componimenti che rinunciano agli orpelli e si basano su un’abilità lessicale che dovrebbe essere propria di ciascun poeta. Sono liriche che scopriamo ricche di richiami eruditi.
Così come Parole Naufraghe (la prima raccolta), anche Il Velo Rimosso è uno scrigno il cui contenuto non è destinato al lettore comune. Non è poesia per la massa. E la forza di questa arte ci risveglia da una sorta di sonno, ci libera da quel velo (!) fatto di (pardon!) “monnezza” televisiva e internettiana, di zavorra mediatica.
Viviamo in un’epoca in cui ci si vuole inculcare come aumentare, raddoppiare, decuplicare la produzione, o i propri “follower”. Molti di noi avanzano a tastoni. Affannosamente, senza fermarsi; quasi senza riflettere. La lettura di versi “alti”, donatici da una voce autentica e decisamente ‘coltivata’ della cultura italiana, meglio: della cultura europea, ci permette di riscoprire quel nucleo di coscienza, e di conoscenze, che noi stessi avevamo in epoche, ere geologiche, periodi meno… appannati.
Leggendo, ci colpisce dapprima un qualche momento dagherrotipico descritto in uno dei componimenti; poi, le immagini si mettono in movimento. Ci vengono ricordati artisti della pittura e grandi compositori classici; ci viene restituita tutta la ricchezza che avevamo smarrito o archiviata. Tutta l’Arte.
Il Velo Rimosso è un modello di quel che dovrebbe essere la poesia e, soprattutto, di quale funzione essa dovrebbe ricoprire, in questo mondo utilitaristico che, consumando a più non posso, ha consumato se stesso.
Esiste una poesia della verità ed esiste una poesia che cerca di abbellire la realtà. La prima è utile, la seconda è vana, futile, e – sembra – creata da penne boriose. Nei versi di Murabito le rivelazioni sono spesso dolorose e di rado gioiose. La gioia consisterà, dopo, nel saper padroneggiare e contenere il dolore. Nell’ambito amoroso, ad esempio, da una parte c’è la necessità di averlo, di sentirlo, quest’amore. Dall’altro – ed è sconcertante – ci sono le insoddisfazioni che arrivano ad affastellarsi, ci sono le incomprensioni: il “silenzio letale” tra i due amanti; e lo “stretto disagio” di chi resta indietro, sola.

A noi, i “Cercatori d’oro” (poesia a pag. 19), basta un nonnulla

(…) per conoscere il mondo:


(…) cerchiamo nella melma

una fortuna grande

come un chicco di riso.

Ci basta l’ombra di un’ala

per arrivare al cielo

una foglia

che scivola sull’acqua

per conoscere il mondo.

 

E, di conseguenza:


una carezza

per chiamarla amore.

 

Amore che noi, ovviamente, siamo atti a “snidare”

(…) dai suoi nascondigli.


E aggiunge, la poetessa:


ma ho visto la sua coda

dileguarsi

con uno strascico d’oro e di sangue

 

Abbiamo i crepuscoli e i ricordi. I crepuscoli che ci rammentano che “Tempus fugit”. E i ricordi, che sono

come quei venti acuminati

che strappano le vele ai marinai

e risalgono i colli.

Sono spettri

sono pipistrelli

(…)

 

I viaggi recitano un ruolo preminente anche a posteriori (“Tramonta il giorno a Istanbul”: poesia bellissima) e ci aiutano, nella rimembranza, mentre vige la restrizione globale, durante le fasi di un immobilismo non voluto da noi. La nostra solitudine è innegabile, ma è una solitudine ricca di parole, suoni, impressioni, che ci fanno compagnia e ci sostengono durante l’inverno; l’inverno con le sue notti maligne (“Novembre”), che si allarga in visioni di un settentrione dal paesaggio muschioso e svuotato. Unicamente le felci si stagliano nella nebbia. Ancora Grieg come “soundtrack”, e non solo.


Sonorità dell’anima

che tremano

tra il pianto e l’estasi.

(“Il violoncello”.)

 

Il tempo (che è “assassino innocente” in “Canzone”) ci lascia soltanto riflessi confusi, immagini intangibili. Ombre che ci confondono. Ecco ad esempio che, nella figura di una persona che va, nella sua forma, nell’andatura, crediamo di vedere l’Amato. Malauguratamente, non si tratta di lui, ci eravamo sbagliati.
Dunque: tutto è inganno?

È in “Sopravviversi”, ultima poesia della raccolta, che abbiamo un sunto dello stato delle cose:


Guardo la jacaranda

resistere all’inverno

covare un’ansia viola

una promessa

di bellezza inutile.

L’alba ha una veste scontenta

trema di freddo.

Le traiettorie della vita

non collimano (…)

 

La soluzione, ad ogni modo, è una soluzione “a due”, per quanto appaia assurdamente utopica. Sì: la chiave per la sopravvivenza, senza alcun dubbio, è posta nella seguente, convincente cartolina degli amanti – io e l’Altro, io e l’Altra:


Confusi dal silenzio

supini

ripassavamo l’infinito

stretto nelle nostre mani.

 

***


Da aggiungere resta solo questo: mentre tutti cercano di aumentare qualcosa, di trovare un posto, Anna Murabito, che un posto – nel mondo e nella letteratura – ce l’aveva già, ha dovuto o voluto imparare, in età adulta, a usufruire dei “social” e divenire anche “videomaker”: con l’unico scopo di moltiplicare il piacere (nonché la conoscenza, lo sottolineiamo) che infondono le sue parole.

Togliamoci il cappello.

Il suo è un genere di poesia che ci insegna qualcosa senza volerci precettare. E che ci suggerisce: la vita non è una carezza, ma val la pena viverla.


Leggi Il Velo Rimosso Vol. I

Leggi Il Velo Rimosso Vol. II



 

Vai a 'Expressioni', blog di Anna Murabito

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mercoledì, dicembre 16, 2020

'Pick & Rock' - il basket e la musica

Giuseppe Catani

PICK & ROCK

Quando la musica va a canestro

arcana, 2020

 



(Articolo già pubblicato su Progetto Babele Rivista Letteraria)

 

Ma vai un po’ a discutere con uno alto 2 m...”

 

Il basket e la musica. Binomio magico, che, davvero, non avremmo mai preso in considerazione senza la lettura di Pick & Rock.

La pallacanestro è uno sport non da tutti né per tutti, e chi lavora a questa recensione ha visto risvegliarsi certe pulsioni "sportive" solo durante la lettura del libro di Giuseppe Catani. Come potevo dimenticare di essere stato, da piccolo, grande fan della Simmenthal di Milano (oggi: Olimpia Milano) e di aver giocato anch'io a basket, dapprima alle medie, dove passavo per un giocatore promettente (ma non se ne fece nulla, come spesso accadeva e accade nelle scuole italiane) e, durante e in seguito, nel cortile della casa di un amico, insieme ad altri ragazzini ma anche a qualche adulto, dove c'erano due bei canestri piazzati in alto su due grezzi muri dirimpetto con, sotto le suole, un bello strato di cemento armato?

 


Quando si ha a che fare con un libro a tema (che so io... La battaglia di Solferino, La vita segreta dei ragni, quello sugli alberi di Natale o un tomo sulla filosofia di Heidegger...) uno crede già di sapere a cosa va incontro e solitamente sceglie in anticipo se avventurarsi nella lettura o meno. Spesso si tratta di materiale arido, di argomenti attinenti a una materia speciale e per specializzandi, di blablabla tecnico. Ma poi si scopre che alcuni sono scritti in maniera passionevole, calorosa addirittura, e che contengono notizie curiose e interessanti, fino a riuscire a infiammare l'interesse del più malcapitato dei lettori. Nel caso di Pick & Rock c'è anche la musica, non solo la pallacanestro, e chi scrive qui si ritiene più un musicologo che un letterato: quindi non sono mancati (né mancheranno per voi, ve lo assicuro) i momenti "oh!" e "aaah!" durante la lettura.

 

Breve carrellata di visioni e sensazioni: il rumore delle scarpe da basket che "strisciano" sul parquet... le tante scene di film americani con neri (o anche bianchi) che sudano in un campetto tutto recintato... e i rapper, naturalmente.

 

I vari capitoli di Pick & Rock sono pezzi giornalistici usciti negli ultimi anni per dailybasket.it, sito che - come suggerisce il nome - è dedicato al gioco della palla a spicchi.

 

 Kobe Bryant

"La musica va a canestro", sì, e ci sarebbe tanto da dire sull'argomento. Ignoravamo anzitutto questo legame particolare tra la pallacanestro e il mondo delle sette note nei suoi diversi generi, sia indie sia rapper, sia in ambito di musica leggera sia di cantautorato. Si comincia nel libro con una carrellata di riferimenti italiani e si procede con i nomi grandi (e meno grandi) della musica angloamericana, con storie gustose di giocatori professionisti che si sono cimentati nel canto, con la rivelazione che Dan Peterson (che per quasi un decennio allenò la squadra di Milano) suonava la chitarra ed era un grande intenditore della country music, con gruppi semisconosciuti od obliati che fecero dediche apparentemente improbabili a personaggi della pallacanestro... Un esempio di questi ultimi sono i Grog di Reggio Calabria, che hanno scritto un brano per Kareem Abdul-Jabbar, gigante della NBA dalla biografia particolare e fervido amante del jazz.

Ovviamente, a ogni capitolo il lettore va a guardare, curioso, su Youtube o Spotify, per ascoltare il brano di cui si parla, e si imbatte in artisti che gli sono familiari e in altri tutti da scoprire. Spesso l'autore lega una situazione o un evento "cestistico" a una data canzone o gruppo. E... lo sapevate che anche Baglioni scrisse e cantò una sorta di ode a questo sport? La canzone si chiama "Il pivot". Sono andato a controllare (sì, esiste!) e me la sono pure goduta su internet.

E un altro Claudio, Claudio Lolli, bolognese purosangue, "si è sporcato le mani con il basket, usandolo come metafora di una vita che fugge, che ha bisogno di uno schema nuovo, che riesca a fermare il movimento prima della deriva". Il brano in questione, in cui Lolli accenna allo sport della palla a spicchi, è "La fotografia sportiva".

 

 


Pick & Rock è un libro di piacevole lettura e che strapperà qualche "oh!" e "aaah!" persino a chi ha poca o nulla confidenza con l'una o l'altra materia.

È, in primo luogo, un viaggio attraverso l'Italia tutta, quell'Italia che vive un po' lontano dai clamori, che ama il parquet dei palazzetti grandi e piccoli e non il prato o la terra battuta dei campi e campacci di calcio, e che apprezza la buona musica. Ci spostiamo così da Bologna a Caserta, da Cremona in Ciociaria, sporgiamo la testa a dare una sbirciatina nelle periferie che ci appartengono o ci appartennero (da Nord a Sud) per, infine, volare negli USA, alla corte di "Re" Michael Jordan... e dell'ormai compianto Kobe Bryant. Un viaggio entro coordinate che sembrano da sogno, ma esse fanno parte della realtà e di tutto ciò che eravamo da ragazzi, dove il playground, anche quello all'italiana, il cortile o campetto dunque, era, ed è, un luogo dell'anima.

E ora, se volete scusare... Mi sono procurato una palla da basket e scendo a fare qualche palleggio giù in strada. Con le cuffie in testa.

 

***

 

A proposito: non sarebbe male una bella compilation in formato digitale di tutti i brani nominati nel libro! L'autore ci ha già pensato?

 

 


  

Intanto, il pivot segna a tutto spiano (“Tre in fila ne azzeccò”) anche se a un certo punto ha bisogno di riposo e quel “Poi ci fermammo un poco nel cortile / odor di cena e di tv” indica forse un time-out oppure, più semplicemente, che qualcuno si è rotto di starsela lì a menare e non vede l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. Non prima di aver salutato con un’azione da manuale: “Con una finta si smarcò / io svelto gli passai [licenza poetica] / e lui schiacciò di forza”. È l’apoteosi. I due archiviano la gara e immaginano, con un’indubbia punta di frustrazione, che il pubblico sia lì ad applaudirli: “Sotto il cerchio / parve quasi di sentir le gradinate / che tremavano e gridavano per lui / e anch’io battei le mani per quell’ultimo canestro”.

Il pivot se ne va, porta via il pallone, che è suo (“Il pallone sotto il braccio / e se ne andò”) e, chissà, la partita potrebbe essere giunta a conclusione non per sopraggiunta stanchezza ma per colpa di quel lungaccione antipatico, scappato via con la palla: figurarsi se poteva lasciarla a qualcuno. Ma vai un po’ a discutere con uno alto 2 m...

 

(Dal capitolo in cui si parla di "Il pivot", di Claudio Baglioni.)

 

 

 

 

Il libro Pick & Rock su Amazon (clicca!

 

 

 

peter patti

sabato, giugno 20, 2020

Il Sogno Di Rubik - album con il botto!




Che suoni, ragazzi! Che intensità! Che forza!
È rivoluzione? È reazione? Forse è solo azione. Ci fa riflettere molto questo Tentacles and Miracles: sull'iperbole della rivolta, che era schietta negli Anni '60, si "militarizzò" nei '70, si autoannullò nell'estetica durante il terribile decennio degli Eighties, ebbe un ritorno - ma solo a forza di suoni e letteratura e cinema, e dunque a livello di slogans e atteggiamenti - negli Anni '90... e che oggi tende a chiudersi come un cerchio, sposando estetica e lotta vera.

L'album de Il Sogno di Rubik esce domani... o dopodomani... o era l'altroieri? Ma come dobbiamo misurare il tempo se siamo rinchiusi dentro un tesseratto (inglese: tesseract) sospeso nel nulla, pare, e che rotea e muta di forma a ogni momento? Se ci troviamo all'interno di un cubo snodabile?

I brani:

1. The well of miracles (5:27)
2. Silky bliss and black waters (6:48)
3. Tentacles (5:22)
4. In the back of the real (5:10)
5. The timekeeper (4:21)
6. The planet of supreme satisfaction (9:42)
7. A better nightmare (5:03)
8. The suite of miracles (9:53)

 
       "A better nightmare"



Iniziamo porgendo l'orecchio con fare distaccato, lontani dagli altoparlanti, magari mentre si fa altro. Peraltro, ci approcciamo all'album ignorando bellamente le note di presentazione mandate dalla casa discografica. Abbiamo il privilegio di poter scrivere di Tentacles and Miracles in anticipo su tutti, di ascoltarne i brani prima che essi vengano scagliati verso le grigie fila di uomini in marcia là fuori (il riferimento a Metropolis non è casuale).
L'empatia, l'Einfühlung cresce con l'ascolto e ci "accorgiamo" che le casse appartengono proprio al nostro apparecchio riproduttore di suoni e che siamo stati noi stessi ad aver inserito il disc nell'apposita fessura. Ci tocca avvicinarci e prestare più attenzione - al più tardi dalla terza, potente traccia, "Tentacles" - per accertarci che non si tratta dei Dead Cross. Semmai ci sono echi (quanto consci?) dei padri: i Faith No More. Ma eravamo completamente presi, a dir la verità, già dopo la straniante fanfara ad incipit (all'inizio di "The well of miracles"). Non è sangue ciò che sgocciola dai circuiti stampati, ma olio di macchina - misto a olio di gomito.



De Il Sogno di Rubik troviamo tracce, prima di questa novità, nel 2016: in una compilation dal titolo '17 Re'. È stata una delle 16 band italiane selezionate dai Litfiba allo scopo di incidere un album con le cover dei brani contenuti in un loro disco di trent'anni prima (17 Re, appunto). E poi c'è almeno una partecipazione al Taranto Rock Festival. Okay. E Tentacles and Miracles?

Belle "pieces"! Ed è il minimo che se ne può dire. Non si può non ammirare la convinzione di fondo, la propositività distopica. Insomma: la potenza. I nostri diffusori stanno fumando e i vicini di casa... beh, loro devono essere svezzati alla / dalla buona musica. 

Cosimo D'Elia - vocals and lyrics 
e
Francesco Festinante - guitars, bass and midi programming

hanno svolto un ottimo lavoro. Le loro sono songs didascaliche (ma in maniera crimsoniana, e con un canto in lingua inglese spesso baritonale che ci rammenta Mike Patton) di una realtà apocalittica. C'è una fanfara composita iniziale e una suite, sgangheratamente gloriosa, a chiusura dell'album, dove tutti i vertici delle figure vanno a raccogliersi. In mezzo: marce, entrate, cambi di scena come in un'opera teatrale o in un musical da "The Day After", e gioco chitarristico assai abile. In uno o due brani scopriamo che il punk è più bello quando si serve del jazz, e in un altro ("A better nightmare", vedi video) sperimentiamo la velocità di visioni forse cibernetiche.



È progressive? Certo! Lo è nel senso di uno sperimentalismo zappiano; solo che l'ironia qui lascia il posto a un sottotono tragico, disgraziatamente attuale (pregovi dare una scorsa ai testi). È punk progressivo, metal, doom. Ma a che servono i paragoni e le classificazioni? L'originalità del progetto è indubbio. E tanto poco "italiano"!

C'è il labirinto sociale che si rispecchia nella nostra anima per un'introspezione tormentata. C'è la routine sistematica cui "loro" ci hanno costretto. E c'è la prigione, comoda se non fosse per i colori innaturali e gli angoli tagliuzzanti. I suoni, apparentemente spiazzanti quando scivolano come metallo pesante sul ristretto palco di un teatro da vaudeville ("Silky bliss and black waters"), in realtà segnano il cammino di noi tutti, che si svolge non al di là delle pareti ma "dentro" di esse: nell'immensità del data world. Le melodie servono, al nostro essere in fuga, ad appigliarsi a qualche palo d'ormeggio, per non volare via come una mongolfiera.



Quoi d’autre?

Nostri brani preferiti: "The timekeeper" (traccia n. 5), "The planet of supreme satisfaction" (n. 6), "The suite of miracles" (n. 8).

              
      
 


Gli strumenti utilizzati:

Chitarre : Gibson Les Paul Custom del '97, Fender Stratocaster assemblata '73-'76, Fender Stratocaster Contemporary Japan dell' '84-'86 con Duncan JB Sunior e Sl59. Martin acustica.
Basso : Stinger.
Ampli : Tutti VST. Guitar Rig e Amplitube anche per il basso. Solo su "Tentacles" Festinante ha fatto un reamp con Mesa Express 50.
Batteria : Studio Drummer.
Orchestra : IK Multimedia Miroslav Philharmonik.
Mellotron : IK Multimedia SampleTron.
Organo e synth : VST della serie TAL ed altri.






Bene. E dopo aver ignorato finora, a bella posta, la scheda "editoriale", la leggiamo e non possiamo che ricopiarne qui alcune righe, perché essenziali. 

L'album esce il 21 giugno 2020, giorno del solstizio d'estate e quindi di rinascita nonché giornata dedicata alla protesta contro il Governo italiano che non ha messo in campo alcuna iniziativa a favore dei lavoratori della musica e nessuna indicazione per dare la possibilità agli stessi di LAVORARE nell'ambito culturale che più appartiene alla loro specificità. IL SOGNO DI RUBIK, insieme alla G.T. MUSIC DITRIBUTION (etichetta dell'album) e alla MICIO POLDO EDIZIONI MUSICALI (editore delle canzoni) si aggregano a questa protesta in maniera ancora più "aggressiva" ed indipendente, facendo idealmente uscire un album (di domenica!!!) quando viene, per protesta, proposta una giornata di silenzio musicale e totale.

Prodotto da Francesco Festinante e Cosimo D'Elia

In un meraviglioso digipack a tre ante con leporello a 8 facciate, artwork di Monica Cimolato

Album teaser: https://www.youtube.com/watch?v=pjgxwbI6nHE

  
 

domenica, ottobre 05, 2014

Recensione de 'I Fidanzati' (Olmi)



I film riusciti sono anche dagherrotipi del "momentum" in cui sono stati girati.

Nel 1963 Ermanno Olmi realizza questa pellicola che, oltre a ricalcare i toni esistenzialisti tipici di quell'epoca, ci dà l'immagine di un'Italia industrializzata che tenta di imporre la propria nuova mentalità "produttiva" anche ai Buoni Selvaggi nostrani.

Carlo Cabrini e Anna Scanzi nei ruoli principali.


Il plot:

Nel Settentrione italiano degli anni del Boom, Giovanni si fa notare per la sua abilità di operaio tecnico, guadagnandosi una promozione in Sicilia, dove, per 18 mesi, dovrà contribuire alla nascita di un nuovo reparto.
La sua relazione con Liliana è attualmente caratterizzata dalla mancanza di dialogo, e questa sua trasferta verso un mondo di fatto assai distante non può giovare al rapporto tra i due.

(Liliana: "Quanto tempo che siamo fidanzati! Quanti anni! Più che fidanzati, tu lo sai. Eppure, non ci siamo mai confidati, non ci siamo mai parlati...")

La coppia si incontra regolarmente in una sala da ballo e, a volte, c'è l'occasione di una corsa in moto. Poi lui parte. Lo vediamo guardare con occhi estranei e malinconici il nuovo ambiente, caratterizzato da scorci squallidi, ma anche da ritratti umani quasi macchiettistici.
La solitudine al Sud spinge Giovanni a ripensare alla sua relazione con Liliana. Ammette a se stesso di non esserle stato del tutto fedele. Negli occhi di lei, si specchia il dolore e un senso di fatidico distacco. 


Come può agire questa lontananza alla loro storia? Ci sarà un futuro per i due "fidanzati"?


Nel 1963 il Neorealismo era già passato, per questo preferisco parlare nel caso di questo film di... Esistenzialismo. L'occhio di Olmi si concentra sulle cose semplici della vita, nonché sul mondo del lavoro (che semplice non è). Il regista bergamasco era peraltro stato un documentarista e, come nella sua pellicola precedente (Il posto, 1961), ci sono temi che si ripetono: un nuovo lavoro per il protagonista, nuove circostanze sociali e paesaggistiche. La complessità di un mondo che cambia viene descritta in maniera naturalistica, e dunque autentica, ma arricchita in senso artistico dalla psicologia dei protagonisti.


Il lavoro aliena, il lavoro disumanizza. Inoltre c'è da registrare, nell'Italia di allora, la scarsità di spazi abitativi, conseguenza soprattutto della Seconda Guerra Mondiale (persino a quindici anni di distanza dalla fine del conflitto; problemi alimentati da una speculazione incontrollata). Nonostante si parli di "Boom", di "crescita", è difficile, per una giovane coppia, formare una famiglia.

La musica dal vivo che il pianista e il fisarmonicista suonano all'inizio del film si trasformano, nella testa di Giovanni, nella colonna sonora del suo viaggio e in quella dei flashbacks degli episodi vissuti insieme alla sua ragazza. I pranzi solitari nell'albergo, la sordidezza delle camere che Giovanni ispeziona alla ricerca di una tana dove soggiornare per il prossimo anno e mezzo, sono tappe di un percorso narrativo obbligatorio. Olmi lastrica però il copione di parentesi rivelatrici (e documentaristiche, appunto) sull'Italia operosa di quel decennio, dove, alla "serietà industriale" degli imprenditori e lavoratori del Nord, fanno da contrappunto le tradizioni della gente del Meridione. Vedi l'episodio dell'incidente occorso a un operaio che deve essere portato via con l'ambulanza. Il caposquadra spiega a Giovanni che i lavoratori siciliani non hanno un'etica lavorativa adeguata: abituati a lavorare nei campi, molti di loro addirittura non si presentano nei giorni di pioggia...


La corrispondenza tra i due fidanzati è un sottotema indispensabile. Nelle sue lettere, Giovanni si lamenta del silenzio di Liliana, e lei come tutta risposta esprime i suoi dubbi: Ero insicura se scriverti o no... Mi vuoi davvero ancora? Ho perso la fiducia, e anche la speranza...
Le lettere scandiscono il lento trascorrere del tempo. Giovanni continua a giurarle di amarla; lei invece usa un tono di sconforto.

La telefonata al termine del film, disturbata da un terribile temporale, lascia pensare a una probabile rottura amara tra Giovanni e Liliana; ma uno spettatore esperto di opere con uno sfondo di alienazione e disagio esistenziale, non sta a chiedersi se i due alla fine convoleranno a nozze, bensì sa cogliere i cenni - appunto esistenzialisti - che ci lancia il regista: sull'inanità dell'uomo, sulla precarietà della nostra vita e delle nostre relazioni.

Siamo tutti soli, siamo tutti vulnerabili. Anche nell'amore.



domenica, luglio 20, 2014

Racconti d'estate - recensione



http://www.amazon.it/exec/obidos/ASIN/B001S398Z6/unitcolooffra-21

Questa mattina su RAI3 una bella sorpresa: non il solito film triviale, ma un vero gioiellino che, in tutte le sue sfaccettature, racchiude i drammi e le tragicommedie dell'umana esistenza. Dell'esistenza all'italiana, bien entendu
Il valore aggiunto della pellicola in questione è... il colore marca 1958 (annata eccellente!). Ma c'è da sottolineare che Racconti d'estate vale bene di essere accolto nella nostra DVDteca in quanto le varie storie che vi si intrecciano sono impreziosite dalla presenza di "Albertone" e di Marcello Mastroianni, nel pieno fulgore del loro cammino ascendente.
Comunque, l'intero cast è pieno di eccellenze; di quelle che, ad ogni modo, poteva offrire allora una "commedia" del genere: Sylvia Koscina, Gabriele Ferzetti, Michéle Morgan, Franco Fabrizi... e Dorian Gray (nome d'arte di Maria Luisa Mangini), una sorta di Valeria Marini d'antan, qui nel ruolo di un'attricetta sexy (praticamente interpreta se stessa!) che, come al solito, cerca di agganciare qualche uomo danaroso ma finisce per amare il bagnino ("Non è che diventerò una donna onesta?").

Sarà anche per le firme che appaiono tra gli sceneggiatori (Moravia e Flaiano su tutti) che, ancora una volta, è obbligatorio il paragone tra questo e i tantissimi filmetti che vennero girati in seguito - negli Anni Settanta, Ottanta, Novanta... fino praticamente a ieri - e che passano per "commedia italiana" ma sono invece il prodotto, volgare e senza un minimo di fondamento etico, di una decadenza volgare e/o di un vuoto intellettuale sfruttati per "fare cassa".

Racconti d'estate si presenta straordinariamente moderno, e inoltre ammalia per le numerose riprese "balneari" (fotografia: Enzo Serafin). Il Golfo del Tigullio (Rapallo, Chiavari, Portofino... Sestri Levante...) è uno spettacolo già di per sé. Ci sono storie d'amore in primo piano, ma tutte influenzate, pilotate addirittura, dal Dio Mammone.




    Alberto Sordi è Aristarco Battistini, squattrinato amante nonché "amministratore finanziario"di una famosa quanto robusta cantante lirica, Ada Gallotti. Sulla Riviera, Aristarco non può non notare le numerose bellezze in costume da bagno, che gli fanno girare la testa; e l'incontro con Jaqueline, bella turista francese e sua vecchia fiamma, non fa che complicare la situazione. Ma infine, pur di ottenere una parte delle ricchezze della grassa soprano, Aristarco porta all'altare Ada, rinunciando alle dolcezze dell'amore giovanile.
    Mastroianni in questo film è Marcello Mazzoni, un ispettore che sta scortando una detenuta francese alla frontiera, affinché sia processata per furto a Marsiglia. Sul treno, e poi anche durante la loro (imprevista) permanenza nella località di villeggiatura, l'ispettore prende in simpatia e socializza con la donna... fino al punto da innamorarsene e pensare di fuggire con lei. Rimarrà soltanto un sogno, ma i due trascorrono una notte di passione insieme e si prospetta la possibilità di rivedersi... dopo qualche anno, quando lei uscirà dal carcere.

    Altre due-tre storie formano l'intelaiatura del film, che Franciolini ha ben girato intrecciando o comunque facendo procedere parallelamente i singoli destini. Davvero notevole la vis comica di Sordi, così com'è notevole l'abilità di Marcello Mastroianni nell'interpretare il funzionario impacciato, quasi imbranato, che però cela la virilità di un grande amatore.

     


    ' RACCONTI D'ESTATE '

    GENERE: Commedia
    Italia, 1958

    REGIA: Gianni Franciolini

    SCENEGGIATURA: Gianni Franciolini, Rodolfo Sonego, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Edoardo Anton, René Barjavel, Alberto Sordi, Sergio Amidei

    ATTORI: Alberto Sordi, Anita Allan, Dany Carell, Lorella De Luca, Franco Fabrizi, Gabriele Ferzetti, Enio Girolami, Dorian Gray, Sylva Koscina, Ignazio Leone, Anna Magoli, Franca Marzi, Marta Marcelli, Jorge Mistral, Michèle Morgan, Francesco Mulè, Colette Ricard, Franco Scandurra, Francesco Tensi, Angelo Zanolli, Marcello Mastroianni

    FOTOGRAFIA: Enzo Serafin

    MONTAGGIO: Adriana Novelli

    MUSICHE: Piero Piccioni 

    DURATA: 113 Min

    sabato, settembre 29, 2012

    Recensione di 'Donnie Darko'

    (USA, 2001)



    Regia: Richard Kelly
    Cast:
    Jake Gyllenhaal, Holmes Osborne, Mary McDonnell, Maggie Gyllenhaal, Daveigh Chase, Jena Malone, James Duval, Katharine Ross, Drew Barrymore, Noah Wyle, Patrick Swayze, Beth Grant

    <--- Il DVD in italiano




    Uscì nelle sale dopo gli attentati alle Twin Towers dell'11 settembre e sparì ben presto dalla circolazione, anche a causa della scena in cui è coinvolto un aereo che perde un reattore. Ma il passaparola ha fatto resuscitare questo film, che ormai conta stuoli di aficionados...
     



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    Lo stato di cult di cui gode Donnie Darko è dovuto al fatto che molti giovani si sono riconosciuti nel personaggio principale. E' il medesimo flash autoterapeutico che ha reso immortali James Dean, Il giovane Holden e Arancia meccanica.
    Per un adolescente, certo, non è difficile sentirsi vicino a Donnie; in fondo il ragazzo, per essere un matto, è abbastanza innocuo - oltre che quasi casto. La sua ribellione, a fronte di genitori simpatici nonostante il modus vivendi "borghese" e che dimostrano di amarlo (ciò nel film non viene mai messo in discussione), nasce dallo scombussolamento interiore e non da una riflessione metafisica e/o sul sociale.
    Alcuni critici stranamente ritengono Donnie Darko un film che mostra la protesta giovanile contro il sistema scolastico e, più in generale, contro gli adulti, ma in realtà tale presunta rivolta si limita ai soliti gesti di bullismo in classe e nel cortile scolastico, oltre che alle atroci - e sterili - mascherate di Halloween. Insomma, il telaio portante è quello di un film di/sui teen-agers. Ovvio che viene tracciata anche una storia d'amore (del resto è quella l'età per amare!), e il rischio latente era quello di creare un'ennesima fiaba moderna, imperdonabilmente stupida per via di un romanticismo sciatto e rimasticato da ragazzini stelle-e-strisce; per fortuna però Richard Kelly ha voluto rendere omaggio a Philip K. Dick e il film, dopo essere scivolato sul paludoso sentiero dell'horror (tramite le allucinazioni del protagonista borderline), si risolve in un bel rebus fantascientifico.
    E' proprio la struttura narrativa ad affascinarci maggiormente. Anche se è individuabile una storyline o trama che dir si voglia, Kelly mima le acrobazie fabulanti di un Kurt Vonnegut e la vicenda finisce per rivelarsi un serpente che si mangia la coda o, per usare un termine matematico, un nastro di Möbius. Non può essere altrimenti, d'altronde, quando viene affrontato il tema dei viaggi temporali, i quali, come si sa, comportano uno o più paradossi, costringendo perciò gli scrittori a inventarsi una logica alternativa. A questo proposito, abbiamo il sospetto che l'autore (e regista) di Donnie Darko abbia attinto da un altro maestro della fantascienza, ovvero da Murray Leinster (vedi soprattutto la "trovata" dell'Universo Tangente), che di viaggi e paradossi temporali fu uno dei primi specialisti, tanto da fondare su di essi la propria carriera scribatoria.
     
     
    La recitazione di Jake Gyllenhaal è indimenticabile. Come già successe per Anthony Perkins in Psycho, Jake "è" Donnie Darko. Impossibile ormai immaginarsi qualcun altro nello stesso ruolo. La sua addirittura non è nemmeno più un'interpretazione nel senso di "abile prestazione istrionica", bensì una vera e propria incarnazione.
    A Donnie/Jake appare un inquietante coniglio che è il capovolgimento orrifico di Harvey, la creatura che accompagna il docile matto James Stewart in una commedia del 1950.
     
    Ricordate? Il titolo di quella pellicola in bianco-e-nero è proprio Harvey. Là il protagonista, Elwood, alias James Stewart, è quasi uno stinco di santo e, sebbene gli manchi qualche rotella, non è privo di una certa saggezza filosofica. Ecco uno dei suoi monologhi:
    • "Harvey e io sediamo nei bar... prendiamo un bicchierino o due, facciamo suonare il juke box. E subito tutte le facce si girano verso di me, e sorridono, e dicono 'non sappiamo come ti chiami amico, ma sembri un tipo simpatico'. Harvey e io ci accendiamo in quei momenti d’oro. Siamo entrati come estranei... e subito abbiamo degli amici! E loro si avvicinano, e siedono con noi, e parlano con noi. Parlano delle grandi cose terribili che hanno commesso, e delle grandi cose meravigliose che faranno. Delle loro speranze, dei loro rimpianti, dei loro amori, dei loro rancori. E tutto in larga scala, perché nessuno porta mai nulla di piccolo dentro un bar. E poi io presento loro Harvey... e lui è più grande e più straordinario di qualsiasi cosa loro possano mai mostrare a me. E quando se ne vanno, se ne vanno impressionati. Le stesse persone raramente ritornano; ma questa è invidia, caro mio. C’è una piccola dose d’invidia in ciascuno di noi."
    Invece Frank, la creatura dalle fattezze di coniglio in Donnie Darko, è cattivo. E'  l'antagonista dell'eroe/antieroe del film, non il suo compagno buono e comprensibile. Per Donnie, alle prese con la pazzia intus et foris, non c'è spazio per i discorsi o i gesti buonisti. Il motore di jet è precipitato sul suo letto quando lui era assente e dunque si è potuto salvare. Almeno questo è quello che vede o crede di vedere lo spettatore...
     
     
    Sinossi di Donnie Darko
    Il personaggio che dà il titolo al film, un adolescente americano con problemi psichici, durante un attacco di sonnambulismo che lo porta fuori di casa si imbatte in Frank, un coniglio gigante che gli predice la fine del mondo. E' la notte del 2 ottobre 1988. In tivù viene trasmesso il duello elettorale dei due candidati alla Casa Bianca: il repubblicano George Bush senior e il democratico Michael Dukakis. "Il mondo finirà tra 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi" lo avverte il coniglio. Quando Donnie si risveglia e fa per rincasare, scopre che la sua camera è stata devastata da un motore di aereo caduto dal cielo! Da qui in poi, accadono altri strani fenomeni che minacciano la vita delle persone a lui care. Intanto, la sua schizofrenia dilaga: i suoi occhi riescono a vedere "lombrichi" trasparenti che escono dal plesso solare delle persone (i famigerati wormholes), proprio come aveva predetto Mother Death (il cui nome è stato tradotto in italiano con "Nonna Morte"), un'eccentrica scrittrice ora vecchissima e semidemente, autrice di The Philosophy of Time Travel. La vecchia conosce bene tali prodigi. Anzi, a quanto pare, solo la pazzia consente di poter viaggiare nel tempo...
    "28 giorni" è l'informazione fornita da Frank. Difatti, tappa dopo tappa, il film ci porta fino al 30 ottobre, alla vigilia di Halloween. L'iperbole si fa sempre più vertiginosa finché non ci si vede costretti a sfogliare il calendario all'incontrario.
     

    "Alcuni nascono con la tragedia nel sangue" dice a un certo punto Gretchen, la ragazza di Donnie...
    Donnie Darko fa a lungo la spaccata tra horror e science fiction. Come detto, non si può non pensare a Philip K. Dick, il romanziere americano che così bene ha saputo descrivere la schizofrenia. Similmente a Dick, Richard Kelly rende "reali" le allucinazioni per poi coniugarle alla teoria della relatività (che, fino a prova contraria, è scaturita dalla mente di uno scienziato, non da quella di un appassionato di fenomeni paranormali). L'autore del film ci suggerisce che c'è un Universo Primario e ce n'è uno Tangente. Quando da quest'ultimo fuoriesce un artefatto (in questo caso, la turbina di un grosso velivolo), è come se si scoperchiasse il vaso di Pandora: la linea di confine spaziotemporale si spezza, le dimensioni a noi note non combaciano più... in pratica, la follia si fa normalità.
    Il protagonista compie degli atti vandalici ma è, in fondo, una vittima innocente: non si può imputare a lui, difatti, la circostanza dello squilibrio chimico che avviene nel suo cervello. E, forse, il tunnel dentro cui lo ha spinto la malattia, dove il tempo si ripete uguale all'infinito e ogni cosa è già predestinata e ritorna, è l'unico luogo in cui si può arrivare veramente a comprendere la quintessenza delle cose del mondo.
     
     

    Accenni e allusioni "colte"
    Oltre al richiamo al coniglio Harvey (che è una reprise di quello di Alice in Wonderland), il film è pieno di citazioni, associazioni di idee e microeventi che legano l'ieri all'oggi, un'opera letteraria e/o cinematografica all'altra. Così, uno dei personaggi è rappresentato da una vecchia pazza che risponde al nome di Roberta Sparrow. Ne abbiamo già accennato nella "Sinossi": la Sparrow, detta "Mother Death", è la fittizia autrice di un libro sui viaggi nel tempo.
    Nel corso della campagna di pubblicità per il rilancio di Donnie Darko, deciso a distanza di un paio di anni dall'esordio fallimentare, qualcuno della produzione ha addirittura scritto il libro della Sparrow, che io ho diligentemente scaricato sul mio computer e "parcheggiato" su uno dei miei server (scarica
    The Philosophy of Time Travel in formato .pdf).
    Un altro libro, stavolta reale, di cui si parla nel film e che qualcuno vocifera sia stato tra le massime fonti d'ispirazioni di Anthony Burgess per il suo Arancia a orologeria (Arancia meccanica), è The Destructors, di Graham Green. La storia di The Destructors si svolge a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale e tratta dell'impatto socio-psicologico che il conflitto armato ha su un gruppo di adolescenti, che scaricano le loro frustrazioni trasformandosi in vandali...






    Il sequel: S. Darko
     

    2009: esce la "continuazione" di Donnie Darko. Il titolo è S. Darko.
    Nathan Atkins ne è l'autore. Ed è bravo nel suo mestiere, bisogna dirlo. Il primo film mai realizzato nato dalla sua penna è stato uno short dal titolo Cultivation (del 2003) che, guarda caso, parla di un mondo magico parallelo. Dunque, è lo sceneggiatore più qualificato per un sequel di Donnie Darko.
    In S. Darko, sono trascorsi sette anni dalla morte di Donnie (7: cifra carica di significati...).  Samantha, la sorellina del defunto, è intanto cresciuta. Ha 17 anni e, insieme al suo amico Corey, si mette in viaggio per una vacanza da trascorrere a Los Angeles. Durante il tragitto, entrambi vengono tormentati da strane visioni... Tornano qui gli wormholes o buchi di tempo.
    S. Darko (la "S" sta per "Samantha") è stato scritto seguendo le direttive di Richard Kelly, ma questi si è dissociato dal film e la regia è stata affidata a Chris Fisher.
    Impossibile dire se l'operazione-sequel sia riuscita. Diciamo semplicemente che si tratta di un  film diverso. Per onor del vero, sia la critica sia il pubblico lo hanno giudicato "perdibile".
     
     Daveigh Chase, classe 1990, interprete di S. Darko: anche le sorelline crescono...